La corsa

Lo lasciarono a marcire per due giorni completi.

Jona fece esercizio di pazienza e cercò di riposare, ma si sentiva in gabbia, e lo era.
All’alba del terzo giorno, quando scese deciso a sollevare un cancan pur di farsi ascoltare, trovò l’altro Mago ad aspettarlo. Come al solito gli elfi andavano e venivano senza fare il minimo rumore.
“La richiesta di recarti nell’Innerwald è stata accettata.”
“Era ora!” sbottò lui, felice del cambiamento, ma non del tutto ammansito.
“Devi capire che, nonostante quello,” ribatté l’Elfo guardando fisso l’Amuleto di Thano, “non si penetra tanto in territorio elfico senza autorizzazione. Re Falanor ha dato la sua autorizzazione, ma non mi è sembrato molto contento di darla, se capisci quel che voglio dire.”
“Capisco, e credo di capire anche parte delle ragioni dietro la sua esitazione, ma star rinchiuso qui dentro, anche se con la pancia piena e riposato, non è piacevole. Specialmente quando nessuno si degna di dirti che cosa succede”, aggiunse con una punta di rimprovero.
“Comunque sia: ora stai per partire. Facciamo colazione insieme.”
Mangiarono rapidamente, con Jona che cercava di far parlare l’Elfo e quello che rimaneva sul vago, ripetendo che alle sue domande avrebbero risposto quando fosse arrivato nell’Innerwald.
Quando ebbero terminato Jona raccattò lo zaino e il suo mantello.
“Di quello non avrai bisogno, per ora. Anzi è meglio che ti metta qualcosa di più leggero, se non vuoi scoppiare di caldo.”
Jona lo guardò stupito. Sapeva perfettamente che l’aria era fresca tutto il giorno e che la mattina era, a dir poco, frizzante, ma non fece commenti. Cambiò la pesante giacca con una camicia senza maniche e i pesanti pantaloni di pelle con comode braghe di tela. Quando ebbe finito di riporre la sua roba nello zaino, l’elfo lo afferrò, se lo mise su una spalla e disse: “Andiamo!”
Trovarono quattro Elfi ad aspettarli sul ramo-ponte-levatoio. L’aria era gelida, ma anche loro erano vestiti leggeri.
Riattraversarono il doppio ponte levatoio e Jona fu di nuovo fuori da Blanzoon senza aver potuto vedere nulla del suo interno. Su un largo camminamento aereo, dove al suo arrivo c’erano gli arcieri di scolta, adesso c’era una piccola folla di curiosi, in mezzo alla quale Jona vide alcune persone con abiti cerimoniali.

Due Elfi lo presero delicatamente da sotto le ascelle e cominciarono a correre.
Jona cercò di seguire, ma andavano troppo veloci per le sue gambe. Fu brutalmente trascinato per parecchi metri, poi, senza rallentare, i due elfi lo rimisero in piedi. Correvano con lunghi balzi elastici che lui non avrebbe potuto sognare di imitare nemmeno a vent’anni, figurarsi a sessanta. Si appoggiò alle braccia che lo sostenevano e cercò di usare le gambe solo per mantenere l’equilibrio. Andava meglio, ma aveva bisogno di tutta la sua attenzione solo per rimanere in piedi.
Perse la cognizione del tempo. I polmoni gli bruciavano e il cuore andava all’impazzata. Le spalle erano un nodo di dolore. Si fermarono solo due volte per bere e scambiarsi i ruoli: due lo trasportavano, uno apriva la marcia e uno seguiva con i bagagli in spalla. Jona pensava di morire da un momento all’altro, ma arrivò la sera e si fermarono su un albero-casa in mezzo alla foresta dove riuscirono a fargli mandar giù una brodaglia dolciastra prima che crollasse con la faccia nel piatto.
Non ricordò mai come fosse arrivato sul letto, ma ricordò chiaramente che lo svegliarono che era appena l’alba. Mangiarono delle focaccette dolcissime con qualcosa che sembrava latte, ma non avrebbe saputo dire di che animale, poi ripartirono al galoppo.
Il viaggio durò sei giorni e solo durante l’ultimo Jona si riprese abbastanza da riuscire a guardarsi attorno senza il bisogno di rimanere costantemente concentrato sul movimento dei suoi piedi. Era in una bella valle dove i grandi pini lasciavano spesso posto a grandi alberi-casa e alle strade aeree che li collegavano. L’insieme sembrava ordinato e progettato, come se ogni singola foglia fosse lì perché lì qualcuno l’aveva voluta. L’insieme era bellissimo e completamente alieno
Stavano risalendo la valle e gli alberi casa si facevano sempre più ravvicinati.
Oramai c’erano elfi dovunque, anche se non si vedevano gli affollamenti delle città umane. Gli Elfi avevano bisogno di spazio, come tutti i cacciatori, pensò Jona.
Oramai erano arrivati. Davanti a loro si ergevano due enormi alberi casa gemelli. Solo il colore era diverso: uno era completamente verde e l’altro sembrava d’argento. Erano così grandi da far sembrare un fragile fuscello l’albero che lo aveva ospitato a Blanzoon. Questi erano veri e propri palazzi.
Le sue guide si diressero verso il palazzo verde dove rimontarono senza rallentare una rampa larga come una strada maestra. In cima li aspettava un Elfo completamente paludato di verde che accolse Jona con un asciutto sorriso: “Benvenuto al tempio di Asclep, umano.”
I guerrieri elfi gli restituirono zaino e bastone prima di inchinarsi al sacerdote, girarsi all’unisono e ripartire di corsa. Jona dovette appoggiarsi al bastone per rimanere in piedi e la sua voce uscì stridula quando ricambiò il saluto: “Salute e onore a te e al tuo Dio, Elfo.”