Il porto di Door
Jona fece parecchia fatica a rimettersi in sesto.
Era rimasto a “guardare dal buco della serratura”, come aveva detto l’Amuleto, per parecchie ore e la sera stava lentamente calando in quei lunghi crepuscoli ai quali si stava oramai abituando.
Oltre ad essere tutto anchilosato, il guardare il mondo senza la cornice rotonda dell’Amuleto gli dava una leggera nausea.
Intorno a lui era un andirivieni frenetico.
Fu l’ultimo a scendere dal barcone.
Il molo era in pietra.
Si stava formando una fila per uscire; Jona si accodò guardandosi attorno senza fretta.
Prima di riuscire ad annoiarsi si ritrovò davanti ad uno scriba seduto ad un banchetto; dietro di lui sostavano alcuni soldati dall’aria annoiata, ma efficiente.
“Quae adventi causa est? (Qual è la ragione della visita?)”
“Peregrinus sum. Thanus me misit. (Sono un Pellegrino, mi manda Thano.)”, rispose il Mago allungando la lettera di presentazione che la sacerdotessa di Palla gli aveva fornito.
Lo scriba esaminò il sigillo senza romperlo, poi si girò verso una delle guardie che, nel frattempo, si erano fatte attente: “Gaii, hunc virum ad Consulem comita (Caio, accompagna questo signore dal Console)”, disse consegnando la lettera a quello che sembrava il capo.
“Advehis me, barbarus! (Seguimi, straniero!)”
Jona afferrò le briglie del suo cavallo e seguì il miliziano che lo precedeva con passo marziale.
“Perché ti sei messo a tradurre nella tua lingua, invece che nella mia? Capisco che devo fare esercizio, ma non ti pare di esagerare?”
La voce dell’Amuleto vibrava con un accenno di canzonatura, quando rispose: “Guarda che, stavolta, non ho proprio aperto bocca.”
Jona aprì la sua di bocca, poi la richiuse.
Il Console
Il Console non lo fece attendere troppo, giusto il tempo di chiedersi se l’anticamera sarebbe stata lunga.
Era un uomo magro e muscoloso, sulla quarantina e con un accenno di calvizie. Era rasato — ora che ci faceva caso non aveva visto molte barbe in Albon — e lo salutò militarmente battendo il pugno destro sul petto, all’altezza del cuore.
Jona ricambiò appoggiando la mano aperta sul petto.
Il Console teneva nella sinistra la lettera di presentazione. Era aperta e presumibilmente già letta.
“La Sacerdotessa ha scritto una lettera di presentazione molto lusinghiera”, disse senza l’ombra di un sorriso.
Jona, non sapendo bene come interpretare, tacque.
“Noi abbiamo ottimi rapporti con i Monasteri e queste richieste verranno onorate. Conosci il contenuto della lettera?”
“No”, mentì il Mago.
“Ci chiede di fornirti assistenza e di favorire il tuo viaggio verso l’Accademia”, disse asciutto.
“Credevo che l’accademia fosse qui a Door”, disse Jona sorpreso.
“No, qui c’è un piccolo nucleo che si occupa di studi teorici; non è strano che la Sacerdotessa di Palla consideri questa “la” Accademia, ma esiste una parte molto più grande, e, a Nostro parere, più importante che studia le applicazioni pratiche sotto l’Egida di Festo. Penso che ti sarebbe utile visitarla.”
“Grazie. Dove si trova?”
“Ad est, sulla foce del Seve”
“Spero vivamente che il mio Amuleto me lo consenta”, disse Jona mostrando la Bussola che puntava ancora verso nord.
“Non ho idea di dove ti voglia mandare il tuo Amuleto, a nord ci sono solo barbari.”
“Thano non è prodigo di parole. Non ho idea, ancora, di cosa voglia realmente da me.”
“Su questo non ci sono dubbi, temo.”
Il console inarcò un sopracciglio: “Io ho imparato ad avere dubbi su tutto; soprattutto sulle cose troppo evidenti.”
Chiamò un servitore e lo incaricò di occuparsi delle necessità di Jona, che poi congedò dicendogli: “Ti auguro un viaggio sicuro e ti consiglio di recarti alle terme prima di presentarti in Accademia.”
Le Terme?
Jona seguì il servitore che lo accompagnò, per prima cosa, in uno stanzino minuscolo che conteneva un letto, una cassapanca e poco altro, dicendogli che quella era la stanza che gli era stata assegnata.
Il Mago ci rimase parecchio male, anche se cercò di non farlo vedere. Era un vero bugigattolo, con una finestrella dalla quale filtrava oramai solo in vago chiarore. Era meno della metà della sua cella al monastero
Le sedute erano tutte molto pulite, della qual cosa Jona fu grato.
Si servì dell’ultima in fondo, mentre la sua guida osservava con evidente ironia il suo impacciato imbarazzo.
“Ho una lettera da consegnare a un certo “Caio Servio”, che dovrebbe essere all’Accademia, ma non mi hanno detto altro. Pensavo ci fosse una sola Accademia, ma mi pare di capire che non è così”, disse mentre si rivestiva.
“Caio Servio è qui ed è a capo dell’Accademia in Door. Non dovrai fare molta strada.”
“Ah, bene. Pensi che posso andare a trovarlo direttamente ora? O è troppo tardi?”
Il tono con cui era stata pronunciata l’ultima parola conteneva una dose di disprezzo sufficiente a far fremere Jona, che incassò con un sorriso, ingoiando le rispostacce che gli stavano salendo alle labbra: “Va bene. Che cosa dovrei fare, invece?”
“Di regola dovresti mandare qualcuno — posso farlo io — a chiedere udienza, magari proponendo di incontrarsi alle terme.”
Era quasi certo che il servitore fosse sincero, ma lanciò ugualmente un’occhiata all’Amuleto che lo gratificò con un lampo verde. Non si era sbagliato.
“Sì?”
“Allora dovresti scrivere una breve lettera. Invitarlo per un bicchiere d’idromele, magari nella taberna di Marseio.”
“Ma non avevi detto che dovevo invitarlo alle terme?” chiese Jona lievemente confuso.
Il servitore roteò gli occhi esasperato, poi, con il tono di chi è costretto a spiegare cose fin troppo ovvie:
“E io me lo posso permettere?” disse passandogli una piccola borsa.
Il peso, sospetto per un oggetto così piccolo, fece cambiare all’istante l’atteggiamento del servitore che si affrettò a dire, senza nemmeno aprirla: “non ce n’è bisogno. Il Console ha detto di mettere tutto sul suo conto. Venga, signore!”
Jona sorrise e, mentre allungava la mano per farsi restituire la borsa, mormorò qualcosa all’Amuleto; dei lampi rosso sangue guizzarono per un istante intorno alla borsa che il servitore quasi lanciò fra le mani del Mago, come se fosse stato morso. Ci avrebbe pensato ben più di due volte prima di cercare di trafugare qualcosa.
L’Amuleto suggerì le parole da scrivere e Jona vide chiaramente che il servitore rimase sorpreso.
Piegò il foglio senza sigillarlo e lo porse dicendo: “E adesso?”
Le Terme!
Le terme erano un edificio enorme, grande quasi quanto uno dei Monasteri, con alte volte e ampi archi chiusi da grandi vetrate che lasciavano passare la luce. L’interno era illuminato da innumerevoli lampade che emanavano una forte luce bianca. Non sembravano né luci elettriche né vegetali; chiese alla sua guida.
“Gas”, disse questi, “questa è una delle prime installazioni, adesso si stanno diffondendo per tutta la città,”
Il tono non era molto convinto.
“Ma?”
Mentre si avvicinavano Jona sbirciò una di quelle lanterne; sotto un cappello di vetro opalino si vedeva un bulbo luminosissimo del quale però non riuscì a distinguere nulla prima di essere costretto a distogliere lo sguardo abbacinato.
“Sai come funzionano?” chiese all’Amuleto.
La risposta apparve sotto forma di uno schema simile a quelli che soleva mostrare Festo. Una fragile retina era quello che gli era sembrato un bulbo. Il gas infiammabile arrivava dall’interno mediante un tubicino e bruciava sulla superficie. Ingegnoso.
Entrarono nell’affollato ingresso e la sua guida si destreggiò abilmente fra un nugolo di venditori che sembravano essere in grado di offrire qualunque cosa venisse in mente, gli procurò un ampio telo di una morbida stoffa bianca, lo fece spogliare, lavare e infine lo affidò alle cure di un estetista assicurando che sarebbe tornato prima che avesse finito.
La cosa risultò vera, ma questo non impedì a Jona di annoiarsi a morte mentre veniva lavato, spazzolato, depilato, massaggiato, profumato, pettinato, impomatato
“Magnifico!” rispose Jona nascondendo dietro un ampio sorriso sia la noia infinita per i preparativi che il genuino divertimento per quel “ci” appeso in fondo alla frase.
Gli consegnò la risposta scritta, che sicuramente aveva già letto.
Con aulici giri di parole diceva, in sostanza, che accettava l’invito e che aveva a disposizione l’intera notte.
Caio Servio
“Trombone”: pensò il Mago prima ancora che Caio Servio terminasse il complicato saluto.
Era bene in carne e pareva a suo agio nella taberna di Marseio, che, non appena aveva saputo chi stavano aspettando, aveva scortato Jona e la sua guida in una piccola stanzetta che conteneva due sofà imbottiti, alcune sedie e un tavolino imbandito. “Che devo fare?”, aveva sibilato Jona all’Amuleto e questi lo aveva discretamente guidato fino ad adagiarsi sul divano. Poi era arrivato Caio Servio e lui, sempre guidato dall’amuleto, lo aveva accolto senza alzarsi. Era seguito il saluto, mentre anche l’ospite si accomodava sull’altro divano.
Entrarono due giovanissime ragazze che cominciarono, senza una parola, a servire da mangiare.
Jona si accorse di essere affamato, ma cercò di imitare e fare come il suo ospite che lasciava fosse la ragazza a scegliere il prossimo boccone. Le pietanze erano ottime, anche se non riuscì a identificare quasi nulla.
Il tavolino era quasi vuoto e le due si apprestavano ad uscire, indubitabilmente per andare a prendere altro cibo, quando Caio Servio batté le mani cambiando espressione all’improvviso: “Più tardi, ragazze. Ora dobbiamo parlare”, disse, poi rivolgendosi a Jona: “Se il mio ospite è d’accordo, naturalmente.”
Il Mago assorbì il cambiamento di atmosfera in un attimo, con un gesto della mano congedò le due che sparirono all’istante dietro la pesante tenda e, senza aggiungere altro, porse le due lettere ancora sigillate: una della Sacerdotessa e una di Mirelle.
L’accademico staccò i sigilli con l’unghia del pollice, senza romperli e scorse rapidamente le due missive.
Inarcò un sopracciglio quando, leggendo la lettera della bibliotecaria, arrivò al punto in cui chiedeva notizie di Tarciso Nepote, l’autore del libro che tanto aveva intrigato Jona.
“Sei interessato alle idee di Tarciso?” chiese Caio senza preamboli.
“Diciamo che trovo le sue idee stimolanti. Vorrei approfondire.”
“Chiedo scusa, ma non capisco.”
“Tarciso è stato “stimolato” dalle sue teorie tanto da impazzire”, disse l’Accademico senza giri di parole e con una faccia seria che tradiva un coinvolgimento personale.
“Mi dispiace. Non sembravano idee tanto pericolose, anche se un po’ originali. Che è successo, se posso chiedere?”
“Di preciso non lo so nemmeno io. Poco dopo aver scritto quel libro ha cominciato a chiudersi in sé stesso, non che sia mai stato un tipo molto espansivo — forse per questo andavamo d’accordo — ma non usciva dalla sua camera per giorni interi. Scriveva, leggeva, ma non parlava con nessuno.”
Fece una lunga pausa. “Poi un giorno diede fuoco a tutto e scappò nella notte urlando frasi senza senso. Diceva che gli Dei non esistono, che nulla esiste, che la vita è solo un sogno, anzi un incubo.”
“Siamo riusciti a stento a circoscrivere l’incendio prima che si estendesse a tutta l’Accademia. Nel frattempo Tarciso era sparito. Nessuno lo ha più visto.”
“Eravate molto amici?”
“Dall’infanzia. Era mio cugino. Abbiamo studiato assieme. Io mi sono specializzato in matematica, lui in logica.”
Alzò il calice che aveva in mano, mormorò qualcosa di inintelligibile e lo scolò d’un fiato. Jona lo imitò.
L’idromele era dolce e proditoriamente alcolico.
Caio Servio batté due volte le mani: “Ne riparleremo più tardi — forse — ora abbiamo bisogno di qualcosa di più allegro.”
Ricapitolazione
Jona si svegliò in camera sua e ricapitolò gli avvenimenti della sera prima.
A notte fonda, dopo che tutti gli appetiti erano stati placati e l’idromele aveva rilassato la compagnia, erano tornati a parlare di Tarciso e delle sue idee.
I due servitori, la guida di Jona e il ragazzo che l’Accademico si era portato al seguito, si erano ritirati in un angolo, confondendosi con i tendaggi e svanendo dalla coscienza dei due uomini più anziani.
I fatti che Caio narrava erano vecchi di due anni, ma lui non aveva avuto molte occasioni di sfogarsi perché era l’unico ad aver trovato interesse nelle idee di Tarciso; tutti gli altri lo avevano sempre deriso e la sua fine non aveva fatto che confermarli nelle loro convinzioni. Caio aveva avuto il suo bel daffare per evitare di essere accomunato alla pazzia dell’amico.
Il libro che Jona aveva letto era il risultato della collaborazione fra Tarciso e il sacerdote di Ipno Sofonte. Avevano fatto assieme ricerche mirate sul funzionamento del cervello e, a quello che aveva detto Caio Servio, era risultato che le strutture cerebrali non sembravano compatibili con la nostra percezione del flusso della coscienza.
L’ipotesi di lavoro su cui si muoveva Tarciso era che la nostra coscienza fosse la visione di un modello interno e non direttamente della realtà sensoriale.
Degli ulteriori risultati, se ce n’erano, Caio non era al corrente. Tarciso non ne aveva parlato nemmeno con lui.
Decise di cercare questo Sofonte.
Per un attimo giocherellò con l’idea di invitare anche lui alle terme, ma decise di evitare, se possibile.
“Amuleto, secondo te, posso contattare Sofonte senza fare tutta la trafila che ho fatto con Caio?”
“Puoi provare. Dipende da cosa ti aspetti. Caio aveva bisogno di rilassarsi per poterti dire tutto quello che ti ha detto. Con Sofonte potrebbe non essere necessario.”
“Puoi contattarlo direttamente tramite il suo Amuleto?”
“Certo. Devo?”
“Ho contattato il suo Amuleto e mi dice che sta facendo colazione. Mi avvertirà quando sarà il momento.”
Sofonte
Sofonte apparve attorniato dall’aura nera di Ipno.
Jona gli spiegò che cercava notizie di Tarciso e del suo lavoro.
In realtà non sapeva bene perché, ma aveva la nettissima sensazione che fosse molto importante.
Sofonte scosse la testa: “No”, disse,
I due si salutarono cortesemente, ma era evidente che il Sacerdote voleva troncare quella conversazione il più presto possibile.
“E adesso, dove devo andare?” Chiese Jona quando l’immagine di Sofonte fu sparita.
L’Amuleto non rispose, ma la Bussola, che fino ad un momento prima puntava a nord-ovest, era sparita.
Il toro per le corna
Jona rimase a lungo in silenzio. Sapeva perfettamente che chiedere consiglio all’Amuleto, in questo momento, era perfettamente inutile.
Provò a fare qualche ricerca, sia all’Accademia che tramite il servitore che gli era stato assegnato, ma non riuscì a sapere nulla di più di quanto gli avesse già detto Caio Servio.
Unico incoraggiamento, molto indiretto, fu una missiva proprio del capo dell’Accademia che chiedeva, in caso di successo, di voler essere tanto gentile dal condividere i risultati. Tra le righe si leggeva un sincero interessamento per la sorte dell’amico.
I giorni passavano senza risultati apprezzabili e Jona diventava sempre più impaziente. Se questa era un’idea di Thano sapeva di aver poco tempo per risolvere l’indovinello. Ammesso che l’indovinello fosse trovare Tarciso, naturalmente.
Una sera si decise finalmente a prendere il toro per le corna e iniziò il rituale per evocare Ipno.
L’Avatar nero comparve molto lentamente, come di malavoglia.
“Perché mi chiami, Jona?”
“Ho un sogno che mi perseguita.”
“Un incubo?”
“E cosa ti presagisce questo tuo sogno?”
“Mi dice che devo trovare Tarciso.”
“Come pensavo. Non è un sogno che ti ho mandato io.”
“E chi, allora?”
Ipno inclinò la testa di lato, guardandolo di traverso: “E che vuoi che ne sappia io? Potrebbe essere stato un altro Dio, o potrebbe essere tutto frutto della tua mente. Potrebbe addirittura essere che tu non abbia mai avuto nessun sogno in senso letterale e che sia solo una figura retorica.”
“Non mi aiuterai, quindi?”
“Io aiuto sempre e dovresti saperlo.”
Jona chinò il capo; non sempre l’”aiuto” era quello che i mortali si aspettavano
“Voi mortali avete delle strane idee sulle mie funzioni, sai?” Il tono era improvvisamente colloquiale e la cosa non tranquillizzò affatto il Mago che cominciava a chiedersi se non avesse fatto un grosso errore.
L’esca era stata lanciata e far finta di niente non sarebbe servito: “In che cosa Ti abbiamo mancato di rispetto?”
“Tsk, Tsk, non si tratta di questo, e lo sai. Non farmi perdere tempo con queste schermaglie.”
“Chiedo perdono. Che cosa non abbiamo capito, e che cosa non ho capito io in particolare, delle Tue prerogative?”
“Accordato. Non sono forse il Dio del Perdono, tra l’altro?” Il tono era sempre più leggero e casuale.
“Riguarda le tue funzioni di Dio dell’Oblio?”
“Bravo! Io non mi occupo minimamente dell’oblio. Io sono il Dio del Ricordo, ma, ti prego, non dirlo a nessuno!”
“Del Ricordo? Anche quando ci dici di dimenticare le offese e perdonare?”
“Tsk, Tsk, come puoi perdonare qualcosa che hai dimenticato? No, No! Devi ricordare, per poter perdonare.”
“Quale oblio? Pensa che sono l’unico, fra gli Dei, a conservare il ricordo di quando gli Dei non esistevano.”
“Di quando gli Dei non esistevano?”
“Nessuno si era accorto che non c’eravate?”
“Questa conversazione diventa noiosa, se continui a fare il pappagallo.”
“Il “pappagallo”?”
“Ecco, appunto”, disse con tono vagamente spazientito,
Jona lottò per riportare la conversazione su un binario più controllabile: “Ma questo cose c’entra con Tarciso?”
“Con Tarciso? perché dovrebbe entrarci qualcosa con Tarciso?”
“Perché ti ho chiesto aiuto per trovarlo, ricordi?”
“Certo che ricordo! Non ti ho appena spiegato che sono il Dio del Ricordo?” Ipno sembrava seccatissimo.
“Allora mi aiuterai?”
“Uhm, sì, può essere che parlare con Tarciso possa farti bene, forse.”
“Ma come posso parlarci se non lo trovo?”
“Tsk, Tsk, cercalo, no? Devo dirti tutto io?”
Jona era prossimo a una crisi di nervi, come spesso gli capitava quando aveva a che fare con Ipno. Come diavolo faceva Serna ad andarci così d’accordo?
“Bene! Non sei contento?”
“Contento di cosa?”
“Che sia come cercare un ago in un pagliaio! Che diamine! Pensa a quanto sarebbe difficile trovare un ago in un agoraio!”
“Adesso è meglio che ti svegli. Salutami Tarciso. Digli che lo perdono. Ciao.”
Jona si sentiva veramente come se si fosse appena svegliato da un lungo sonno agitato.
“Ho sognato?” Chiese all’Amuleto.
“Se hai sognato abbiamo fatto lo stesso sogno, credo.”
“Sono sicuro che ci ha dato delle indicazioni preziose, ma non capisco quali.”
Serna
Jona andò a lavarsi la faccia con l’acqua fredda. La sensazione di torpore lo lasciò lentamente, ma le parole di Ipno non divennero più chiare.
“Hai registrato tutta la conversazione?”
“Parola per parola. Vuoi rivederla?”
“Tra un attimo. Adesso chiama Serna.”
Serna apparve quasi subito, avvolta in un fresco abito primaverile azzurro. In Ligu doveva fare già parecchio caldo, mentre qui la primavera la si doveva ancora indovinare. Jona ebbe una fitta di nostalgia.
“Ciao papà! Come vanno le cose?” Poi vide l’espressione stanca e preoccupata del padre: “Problemi?”
“Forse mi puoi aiutare: sei sempre stata in buoni rapporti con Ipno.”
Il Mago fece un rapido riassunto degli ultimi avvenimenti, lasciando all’Amuleto il compito di mostrare il colloquio con il Dio.
Una risata argentina accompagnò le ultime parole di Ipno.
“Papà, è vero che tu e il Dio del Ricordo, come si è definito oggi, non siete mai andati troppo d’accordo, ma questa avresti dovuto capirla anche tu!”
Vedendo l’espressione confusa del padre disse, improvvisamente seria: “Ti ha detto che Tarciso è da qualche parte da solo, lontano da città e, probabilmente, dagli altri uomini.”
Jona si illuminò:
“Puoi fare una ricerca nelle campagne per cercare uomini che vivono isolati? Magari usando l’Occhio dal Cielo?” chiese all’Amuleto.
L’Amuleto cresciuto
L’alba trovò Jona chino sull’immagine dell’Occhio dal Cielo, ancora offuscata dalle brume del mattino.
Ci misero tutto il giorno a esaminare ciascuno dei possibili accampamenti occupati da un singolo abitante e a decidere un percorso che li toccasse tutti, cercando di partire da quelli più promettenti, senza per questo fare un tragitto troppo contorto.
A sera Jona stava preparando i suoi bagagli, ansioso di rimettersi in moto. Non vedeva l’ora di vestire nuovamente i panni di Mago pellegrino.
Prese il suo vecchio bastone da viandante per incastrare l’Amuleto al suo posto, ma ebbe una grossa sorpresa.
Era da quando era sfuggito agli Stati Guerrieri che portava l’Amuleto al collo o alla cintura e non si era accorto che questo era cresciuto.
Ora era grande quanto il suo vecchio Amuleto. Il castone di legno a stella che si era costruito quasi un anno prima non serviva più.
“Che ti è successo?”
“Niente, che deve essermi successo?”
“Sei cresciuto!”
“Ah, è quello che ti preoccupa? Certo che sono cresciuto. Non pretenderai mica che rimanga un mezzo Amuleto, no?”
Jona era basito: “Ma come?”
“Assorbo energia dai campi elettromagnetici mandati dal cielo e materia dall’aria e dai posti dove mi appoggi. Anche l’Amuleto di Serna ha ripristinato tutto quello che ha speso per crearmi; che credi che sia rimasto con un buco nella pancia?”
“Ma allora sei vivo!”
“Questa domanda me l’hai già fatta, ricordi? La risposta rimane sempre la stessa: “Dipende da che cosa intendi per “vivo””.”
“Ma tu come ti consideri?”
“Ha importanza?”
“A me importa.”
“Che intendi dire?”
“Prima o poi lo capirai.”
Tarciso
Dopo una settimana a cavallo e cinque visite inutili, compresi i tre considerati più probabili, Jona era comprensibilmente stanco, ma la stanchezza sparì immediatamente quando l’Occhio di Lince gli mostrò il viso del sesto eremita. Era sicuramente Tarciso. Più magro e con un gran barbone, ma era sicuramente lui. Anche l’Amuleto confermò dopo il confronto con le immagini che aveva avuto dall’Amuleto di Sofonte.
Spronò il cavallo mentre l’immagine dell’Occhio svaniva.
Il sole stava calando fra le basse colline e lui si presentò apertamente chiedendo ospitalità per la notte, come aveva già fatto le altre volte.
Stavolta un latrar di cani lo accolse e due grosse bestie nere apparvero sulla porta della spelonca piazzandosi ai lati di Tarciso.
Jona scese da cavallo e si avvicinò lentamente appoggiandosi al suo bastone. Prima che avesse il tempo di aprir bocca Tarciso, che lo stava osservando con curiosità, piegò la testa da un lato e chiese: “Che razza di sogno sei, tu? Non ti ho mai visto. Di solito sogno cose che conosco!”
“Uff, e questa sarebbe una novità? Tutti i sogni cercano di convincermi di essere reali, senza riuscirci, ovviamente. Il mio cervello deve aver esaurito la scorta di novità”, aggiunse con aria sconsolata.
“Se ti annoi tanto perché non proviamo con qualcuna delle novità del mio cervello?” propose il Mago.
“Oh, bella! Perché tu non esisti, naturalmente!”
“Penso che dovrei offendermi un po’, come sarebbe che non esisto?”
Tarciso alzò gli occhi al cielo roteandoli: “No, un altro sogno ricorrente no! Notte! Nera! Cacciatelo via!”
I due grossi cani si lanciarono verso Jona senza abbaiare, ma con intenzioni assassine.
Jona, che si aspettava qualcosa del genere, mormorò poche parole all’Amuleto e l’Ala di Ipno avvolse i due animali facendoli crollare profondamente addormentati ai piedi del Mago.
“Non c’è modo di sfuggire, vero?”, borbottò Tarciso scuotendo la testa, “Avrò vissuto questo sogno una decina di volte. Va bene, vieni dentro che ti faccio il solito discorsetto.”
Jona cominciava a dubitare che il colloquio sarebbe servito a qualcosa, ma oramai era lì e tanto valeva andare fino in fondo.
Prese dalla sacca un po’ di provviste e seguì Tarciso.
L’interno della spelonca prese Jona completamente di sprovvista: l’alta spaccatura dell’entrata lasciava entrare parecchia luce e aria, tanto che Tarciso aveva messo una pesante tenda per bloccare la parte bassa. Un fuoco ardeva vivace su un focolare di pietra rialzato; dietro c’era un solido tavolo di legno e quattro sedie (quattro?). Il pavimento di terra battuta era liscio e pulito. Addossato alla parete di fondo c’era una cassapanca vicino ad un alto pagliericcio coperto da pelli.
Tutto era in perfetto ordine, persino la cuccia dei due cani.
Un coniglio stava arrostendo allo spiedo.
Tarciso tirò fuori dalla cassapanca due piatti e due bicchieri e li mise sul tavolo.
Jona, da parte sua, contribuì con una pagnotta quasi intera, una grossa fiasca d’idromele e un paio di salamini.
“Questa è una novità”, disse Tarciso sorseggiando l’idromele, “Di solito i sogni curiosi arrivano con del pessimo liquoraccio, questo è eccellente! Forse le mie sinapsi si stanno riattivando.”
“Ma non mi hai ancora detto perché mi consideri un sogno.”
Tarciso allontanò il piatto, oramai vuoto, che aveva davanti e piazzò i gomiti sul tavolo, sporgendosi verso Jona, come per osservarne l’espressione alla luce tremula della candela.
“Va bene.”
Si rilassò sullo schienale sella sedia e prese a raccontare, con la voce piatta di chi ripete un discorso per l’ennesima volta, quasi a memoria: “Mi ha sempre affascinato il problema della coscienza. Dopo anni di studi con Asclep e con Palla due cose mi erano chiare: che è l’attività cerebrale la responsabile del nostro pensiero e che il pensiero stesso si basa su una nostra rappresentazione interna del mondo.”
Si interruppe: “Nessuna domanda?” Sembrava sorpreso.
“Ho letto il tuo libro; queste cose le spieghi anche lì.”
“Quindi sai anche che questa rappresentazione non deriva direttamente dai sensi, ma è il cervello a guidare il riconoscimento.”
Jona si limitò ad annuire.
“E anche che ci sono quattro funzionalità superiori: Modello, Verifica, Proiezione e Comunicazione?”
“Sì, anche se non mi sono molto chiare le interazioni fra questi apparati.”
Stavolta fu Tarciso ad annuire asciutto: “Non lo avevo ben chiaro neppure io quando scrissi quel libro.” Aveva ripreso l’aria professorale che doveva essere il marchio di fabbrica dell’Accademia.
“La mia idea, a quel tempo, era abbastanza semplice: noi pensiamo con riferimento ad un Modello; i nostri sensi Verificano se il Modello è compatibile con i loro rilevamenti; noi riusciamo a prevedere che cosa succederà proiettando il modello avanti nel tempo; usiamo la Comunicazione per trasferire pezzi del nostro Modello ad altri e viceversa. Tutto chiaro fin qui?”
“Sì.”
Tarciso si permise un sorriso acido: “Peccato che sia anche tutto sbagliato.”
Jona scelse di tacere.
“Parlando con Sofonte, il Sacerdote di Ipno, ho scoperto che il suo Amuleto poteva fare una mappa abbastanza dettagliata dell’attività cerebrale. Cominciammo a fare esperimenti per individuare con precisione cosa succedeva. Non trovammo nulla di quello che ci aspettavamo.”
“Niente modelli, niente proiezioni, niente di niente! Una maledetta confusione di neuroni che sparavano apparentemente senza senso!”
Si interruppe improvvisamente, guardò Jona dritto negli occhi: “Sei sicuro di seguirmi?” Poi, ad un cenno di assenso del Mago: “Strano, quasi tutti gli altri sogni, a questo punto, erano già scappati a gambe levate.”
Jona si limitò a sorridere, anche perché non aveva la minima idea di cosa dire.
Tarciso si riappoggiò allo schienale e riprese: “C’era un ordine in quel caos. Doveva esserci. E alla fine lo abbiamo trovato.”
“Il Modello, in realtà, esiste, solo che è formato da gruppi di neuroni che si attivano assieme e formano delle configurazioni semi-stabili. Ogni neurone può far parte di centinaia di configurazioni, quindi eccitando una configurazione si rischia di attivarne un’altra che abbia dei neuroni in comune. Un po’ come le corde di un’arpa, che, a pizzicarne una sola, poi mette in movimento anche le altre.”
“Dei circuiti risonanti.”
“Esatto; ma tu come fai saperlo? Ah, certo: sei un mio sogno.”
“I sensi non fanno altro che smorzare certe configurazioni”, proseguì, “anche i nostri pensieri hanno la stessa caratteristica: sono delle conformazioni di gruppi di neuroni che si eccitano a vicenda, solo che sono più grandi e più stabili.”
Jona stava cercando di immaginarsi quel pandemonio nel cervello e lo disse:
“Esatto!” Esclamò Tarciso eccitato, “Poi abbiamo scoperto un altro circuito che, come per i sensi, si occupa di “spegnere” i pensieri non pertinenti.”
“E come c’entra la comunicazione, con tutto questo?”
“La Comunicazione, in realtà è risultato un apparato abbastanza distinto da tutto questo. L’unico apparato che, per quanto ci è dato capire, ci differenzia nettamente dagli altri animali.”
Il silenzio rimase indisturbato a lungo mentre Jona cercava di digerire la visione di Tarciso e, nel contempo di capire se era solo il frutto di una mente malata o c’era del vero in tutto ciò.
“Scusa, Tarciso, ma non capisco: va bene tutto quello che hai detto, ti credo sulla parola, anche se vorrei controllare di persona, ma in che modo questo dimostrerebbe che io sono solo un tuo sogno?”
Tarciso aveva l’aria soddisfatta di chi sta per vibrare l’affondo finale:
Ancora una volta il silenzio regnò sovrano, tanto che Jona poté sentire il verso di un gufo nella notte. Non doveva distrarsi!
Tarciso era interdetto. Piegò la testa da un lato e rimase così per un istante, poi:
“Comunque non funziona. Ragioniamo per assurdo: supponiamo che tu abbia ragione e che gli esperimenti, essendo sogno, non sono affidabili. In questo caso tu non saresti un sogno.”
“Lasciami finire!” Tagliò corto l’Accademico, “Ma se tu non sei un sogno allora non lo sono nemmeno gli esperimenti. Abbiamo una contraddizione che si elimina solamente assumendo che gli esperimenti, sogno o non sogno, siano affidabili!”
Non si andava da nessuna parte, decise Jona che, tra l’altro sentiva la stanchezza annebbiargli il cervello.
“Senti, capisco che, secondo te, io non sono altro che un sogno, ma io sono un sogno stanco e, per essere un sogno divertente, ho bisogno di riposare. Posso stendermi da qualche parte e ne riparliamo domani?”
In viaggio verso nord
La mattina era fresca e luminosa. I primi raggi del sole stavano ricacciando sotto gli alberi la bruma notturna.
Tarciso era già uscito e Jona mise a bollire la cuccuma per un caffè mattutino. Aveva quasi esaurito le sue già magre riserve, ma questa volta ce n’era veramente bisogno. Tra poco avrebbe dovuto rinunciare completamente a quel piacere a meno di non riuscire trovarne, cosa che ormai disperava fosse possibile.
Si diresse quindi verso l’Amuleto che aveva lasciato in cima al bastone, vicino al letto improvvisato.
La Bussola era ricomparsa.
Rimase a fissarla, con i pensieri che volavano in tondo come uno stormo di avvoltoi che hanno avvistato una carogna, fin quando il caffè non fu pronto, poi ne versò due tazze generose e uscì a cercare Tarciso.
Lo trovò che stava trafficando nell’orto.
Stava finendo di scuoiare due lepri certo rimaste impigliate in qualcuna delle tante trappole che si vedevano lì attorno.
Vedendo la direzione del suo sguardo Tarciso chiosò: “Cercano di distruggermi l’orto, ma, in fondo, è giusto così: io do da mangiare a loro e loro danno da mangiare a me!”
“Tieni, ho preparato un caffè.”
“Cos’è?”
Tarciso bevve con una certa diffidenza, e parve gradire: “Buono, perché dici che “aiuta a svegliarsi”?”
“Nessun sottinteso. Contiene semplicemente una sostanza blandamente eccitante che aiuta a rimanere svegli.”
“Io devo ripartire presto, forse oggi stesso.”
“Lo so”, rispose Tarciso un po’ abbattuto,
Quegli avvoltoi che stavano continuando a girare nella testa di Jona si fusero in un’aquila luminosa che calò in picchiata: “Perché non vieni con me, almeno per un po’? Tu avresti un sogno divertente da sognare e io, magari, potrei anche imparare qualcos’altro.”
Tarciso scosse la testa sconsolato: “I sogni vanno sempre dove pare a loro.”
“Non è vero, e tu dovresti saperlo, se hai fatto tutti quegli studi sul sonno. Quando si è vicini al dormiveglia si può dirigere i sogni, almeno un pochettino.”
“Ma io non sono nel dormiveglia!”
“Con tutto quel caffè in corpo! Sono stupito che tu non sia del tutto sveglio.”
Tarciso, in fondo, voleva essere convinto e quindi Jona riuscì a convincerlo con una certa facilità.
Passarono la giornata a chiudere l’ingresso della spelonca per impedire agli animali di entrare, a prendere le poche cose che Tarciso si voleva portare e a parlare di cervello, neuroni, coscienza e idee. Jona si era accorto che l’accademico lo stava usando come uno specchio, per mettere, cioè, meglio in fila le sue idee e lo lasciava parlare a ruota libera, intervenendo solo di rado.
Come con Arianna stava applicando la massima che diceva: “Se vuoi apparire un abile conversatore, taci e fai finta di essere interessato a quel che dicono gli altri” e, ancora una volta, verificò che conteneva un’enorme dose di verità: da svogliato e quasi balbettante il suo ospite si era gradualmente trasformato in un conferenziere appassionato..
Jona sentiva che quello che diceva Tarciso era vero
La conclusione finale non gli tornava per niente, anche se sembrava insita nelle premesse. Lui non si sentiva per niente un sogno e non gli sembrava un sogno nemmeno l’altro.
L’indomani partirono di buon’ora, a piedi, dopo aver caricato sul cavallo le provviste.
Si dirigevano quasi esattamente a nord, lontano da tutti i centri abitati.
Poco dopo la partenza Jona presentò ufficialmente a Tarciso l’Amuleto, che divenne il terzo nelle loro interminabili chiacchierate.
L’Accademico non aveva mai visto un Amuleto che si comportasse a quel modo, ma, si sa, nei sogni possono succedere le cose più strane, quindi lo accettò senza problemi.
I giorni passavano lenti nella primavera che avanzava a grandi passi.
L’atteggiamento di Tarciso, intanto, cambiava lentamente e trattava oramai Jona da suo pari, senza chiamarlo “sogno” ad ogni piè sospinto.
Il Mago era contento di questo, anche se era evidente che Tarciso era ben lungi dall’ammettere che la realtà esterna aveva una qualche possibilità di esistere.
Dal canto suo Jona si convinceva sempre più della validità delle analisi dell’Accademico, pur senza riuscire ad arrivare alle stesse conclusioni.
Sentiva che c’era un errore cruciale da qualche parte, ma non riusciva a capire dove.
L’Amuleto aveva le capacità di fare analisi dell’attività cerebrale, anche se non erano raffinate come quelle dell’Amuleto di Sofonte. Gli erano necessarie, disse, per poter poi agire sulle terminazioni nervose “giuste” nelle varie magie.
Confermò appieno i risultati di Sofonte: l’unica differenza fra lo stato di veglia e quello di sogno sembrava essere la disconnessione di apparato sensoriale e apparato motorio durante il sogno. Tutto il resto sembrava essere identico, almeno nei limiti di precisione dell’Amuleto.
Poi Jona fece un sogno
In alto, molto in alto, un Uccello del Tuono di Zeo faceva evoluzioni.
Jona lo salutò con la mano.
Quello si abbassò per rispondere al saluto e esplose il suo grido più da vicino.
Jona lo salutò di nuovo e quello si abbassò ancora.
E ancora, ancora, finché il rombo non divenne assordante.
Si era distratto.
Non si era accorto che la zattera era entrata nelle rapide.
L’acqua gli spruzzava sul viso.
La zattera si agitava sotto di lui scuotendolo
“Adesso capisco!” Esclamò Jona improvvisamente all’erta mentre la pioggia cominciava a cadere con grossi goccioloni ancora radi.
“Che diavolo stai dicendo? Vieni che dobbiamo trovare riparo!”
Jona si tirò il cappuccio sugli occhi e cominciò a raccogliere meccanicamente le sue cose: “Tarciso, cerca di seguirmi”, disse lentamente, “Quello che per noi è, soggettivamente, il mondo è, come hai sempre sostenuto tu, composto della stessa sostanza dei sogni.”
“Appunto.”
“Ma, ed è un “ma” grosso come una casa, i nostri sensi, quando sono attivi, fanno sì che il “sogno” sia compatibile con la realtà esterna, oggettiva.”
Si mossero tirandosi dietro il cavallo sotto la pioggia che batteva.
Camminavano in silenzio da più di un’ora con la guida dell’Amuleto, quando Tarciso disse sottovoce: “Allora non sono davvero pazzo come credevo.”
Ipno
L’ingresso della caverna era uno spazio nero, solo leggermente più nero della notte che li circondava.
Senza la guida dell’Amuleto non l’avrebbero mai trovata.
Entrarono in quella bocca spalancata che li inghiottì, separandoli dal fortunale che imperversava.
Quel buio sembrava appiccicoso e si scansava di malavoglia davanti alla luce proveniente dall’Amuleto.
Si stavano ancora scrollando di dosso l’acqua che li inzuppava quando, sottovoce, l’Amuleto disse: “Abbiamo visite.”
Il buio si coagulò nella figura di Ipno.
“Sono contento che tu abbia ritrovato almeno un po’ del tuo equilibrio”, disse ignorando completamente Jona.
Tarciso crollò in ginocchio davanti al Dio mentre Jona abbassava il capo in segno di rispetto, tenendosi in disparte.
“Tsk, Tsk. Vorrei tanto sapere chi ha messo in giro la storia che noi pretendiamo questo”, proseguì indicando la posizione di Tarciso con un gesto teatrale, come si trovasse di fronte a una folla invisibile, “Alzati, come facciamo a parlare, sennò? Non ho voglia di inginocchiarmi nel fango, io!”
Tarciso lo guardò un po’ stupito, non sapendo bene cosa fare e Ipno fece un gesto con la mano, indicandogli di tirarsi su.
Fece il gesto di aiutarlo ad alzarsi e Tarciso scattò in piedi come se avesse avuto una molla al posto delle gambe.
“Così va meglio. Tsk, tsk, dove eravamo rimasti? Ah, sì: che pensi di farne del tuo equilibrio?”
Tarciso borbottò qualcosa di inintelligibile.
“Tsk, Tsk, forse mi sono sbagliato. Forse non rischi di riperdere il tuo equilibrio. Forse non l’hai mai ritrovato.”
“Ti sta chiedendo che intendi fare delle tue scoperte”, intervenne a bassa voce Jona.
Tarciso si stava riprendendo e si vedeva che stava lottando per capire cosa volesse davvero da lui Ipno.
“Non so bene, prima ho pensato di tornare all’Accademia e insegnare quello che so, ma più passa il tempo e meno mi pare una buona idea.”
“Tsk, tsk, mica passano tutti i giorni dei Cercatori di Thano che parlano Swahili a tirarti fuori dai guai, sai?”
“Swahili?” Jona, che stavolta pensava di aver capito Ipno, si trovò di nuovo spiazzato.
“Sì, Swahili: la lingua del tuo vecchio Amuleto si chiama Swahili”, gli rispose senza degnarlo di uno sguardo, “Conoscerla ti ha aiutato parecchio, pappagallo.”
“Allora non devo insegnare quello che so?”
“Tsk, tsk. Non si può mica ricordare tutto, nella vita! Scegliere cosa dimenticare aiuta a ricordare meglio.”
Vedendo la faccia inespressiva di Tarciso, Jona suggerì: “Ti sta dicendo che ci sono delle parti da tenere per te, ma il resto lo puoi insegnare”, e fu gratificato da un rapido assenso del Dio.
“Cosa devo dimenticare?”
Jona si stupì di quanto gli sembrassero chiare le frasi di Ipno ora che si rivolgeva a un altro, mentre gli erano sempre sembrate criptiche quando si rivolgeva a lui.
Pareva proprio Tarciso avesse lo stesso problema.
Tradusse: “Sono gli esperimenti fatti con Sofonte che devi tacere. Puoi cercare di insegnare quel che vuoi, ma non portare prove” e Ipno annuì di nuovo.
“Temo non esista più, almeno da questa parte del cielo.”
“Sofonte?”
“Ha scelto di ricordare altro.”
Tarciso rimase un momento in silenzio, poi: “Meglio così. Non sarei riuscito a tacere con lui.”
“Gli Dei sono qui per questo. Ora dormi.”
Tarciso si accasciò lentamente e Jona si affrettò a sostenerlo e a trascinarlo in un angolo asciutto dove lo distese su una coperta.
“Quali sono le istruzioni per me, Ipno?”
“Nessuna istruzione per il Cercatore. Dimmi: ti è chiaro, ora, che cosa sia la pazzia e quanto ci siete andati vicini?”
“Penso che la pazzia sia quando il sogno prende il volo e i sensi non riescono più a legarlo alla realtà.”
“Per tutto il bene che hai fatto, qui e altrove, ti regalo un interrogativo, anzi, tre: Il sogno è fedele alla realtà? Quanto è fedele? Quando è fedele?”