Tarciso

Dopo una settimana a cavallo e cinque visite inutili, compresi i tre considerati più probabili, Jona era comprensibilmente stanco, ma la stanchezza sparì immediatamente quando l’Occhio di Lince gli mostrò il viso del sesto eremita. Era sicuramente Tarciso. Più magro e con un gran barbone, ma era sicuramente lui. Anche l’Amuleto confermò dopo il confronto con le immagini che aveva avuto dall’Amuleto di Sofonte.

Spronò il cavallo mentre l’immagine dell’Occhio svaniva.
Il sole stava calando fra le basse colline e lui si presentò apertamente chiedendo ospitalità per la notte, come aveva già fatto le altre volte.

Stavolta un latrar di cani lo accolse e due grosse bestie nere apparvero sulla porta della spelonca piazzandosi ai lati di Tarciso.

Jona scese da cavallo e si avvicinò lentamente appoggiandosi al suo bastone. Prima che avesse il tempo di aprir bocca Tarciso, che lo stava osservando con curiosità, piegò la testa da un lato e chiese: “Che razza di sogno sei, tu? Non ti ho mai visto. Di solito sogno cose che conosco!”

“Uff, e questa sarebbe una novità? Tutti i sogni cercano di convincermi di essere reali, senza riuscirci, ovviamente. Il mio cervello deve aver esaurito la scorta di novità”, aggiunse con aria sconsolata.

“Se ti annoi tanto perché non proviamo con qualcuna delle novità del mio cervello?” propose il Mago.
“Oh, bella! Perché tu non esisti, naturalmente!”
“Penso che dovrei offendermi un po’, come sarebbe che non esisto?”

Tarciso alzò gli occhi al cielo roteandoli: “No, un altro sogno ricorrente no! Notte! Nera! Cacciatelo via!”
I due grossi cani si lanciarono verso Jona senza abbaiare, ma con intenzioni assassine.
Jona, che si aspettava qualcosa del genere, mormorò poche parole all’Amuleto e l’Ala di Ipno avvolse i due animali facendoli crollare profondamente addormentati ai piedi del Mago.

“Non c’è modo di sfuggire, vero?”, borbottò Tarciso scuotendo la testa, “Avrò vissuto questo sogno una decina di volte. Va bene, vieni dentro che ti faccio il solito discorsetto.”

Jona cominciava a dubitare che il colloquio sarebbe servito a qualcosa, ma oramai era lì e tanto valeva andare fino in fondo.
Prese dalla sacca un po’ di provviste e seguì Tarciso.

L’interno della spelonca prese Jona completamente di sprovvista: l’alta spaccatura dell’entrata lasciava entrare parecchia luce e aria, tanto che Tarciso aveva messo una pesante tenda per bloccare la parte bassa. Un fuoco ardeva vivace su un focolare di pietra rialzato; dietro c’era un solido tavolo di legno e quattro sedie (quattro?). Il pavimento di terra battuta era liscio e pulito. Addossato alla parete di fondo c’era una cassapanca vicino ad un alto pagliericcio coperto da pelli.
Tutto era in perfetto ordine, persino la cuccia dei due cani.

Un coniglio stava arrostendo allo spiedo.
Tarciso tirò fuori dalla cassapanca due piatti e due bicchieri e li mise sul tavolo.
Jona, da parte sua, contribuì con una pagnotta quasi intera, una grossa fiasca d’idromele e un paio di salamini.

“Questa è una novità”, disse Tarciso sorseggiando l’idromele, “Di solito i sogni curiosi arrivano con del pessimo liquoraccio, questo è eccellente! Forse le mie sinapsi si stanno riattivando.”
“Ma non mi hai ancora detto perché mi consideri un sogno.”

Tarciso allontanò il piatto, oramai vuoto, che aveva davanti e piazzò i gomiti sul tavolo, sporgendosi verso Jona, come per osservarne l’espressione alla luce tremula della candela.
“Va bene.”
Si rilassò sullo schienale sella sedia e prese a raccontare, con la voce piatta di chi ripete un discorso per l’ennesima volta, quasi a memoria: “Mi ha sempre affascinato il problema della coscienza. Dopo anni di studi con Asclep e con Palla due cose mi erano chiare: che è l’attività cerebrale la responsabile del nostro pensiero e che il pensiero stesso si basa su una nostra rappresentazione interna del mondo.”
Si interruppe: “Nessuna domanda?” Sembrava sorpreso.

“Ho letto il tuo libro; queste cose le spieghi anche lì.”
“Quindi sai anche che questa rappresentazione non deriva direttamente dai sensi, ma è il cervello a guidare il riconoscimento.”
Jona si limitò ad annuire.

“E anche che ci sono quattro funzionalità superiori: Modello, Verifica, Proiezione e Comunicazione?”
“Sì, anche se non mi sono molto chiare le interazioni fra questi apparati.”
Stavolta fu Tarciso ad annuire asciutto: “Non lo avevo ben chiaro neppure io quando scrissi quel libro.” Aveva ripreso l’aria professorale che doveva essere il marchio di fabbrica dell’Accademia.
“La mia idea, a quel tempo, era abbastanza semplice: noi pensiamo con riferimento ad un Modello; i nostri sensi Verificano se il Modello è compatibile con i loro rilevamenti; noi riusciamo a prevedere che cosa succederà proiettando il modello avanti nel tempo; usiamo la Comunicazione per trasferire pezzi del nostro Modello ad altri e viceversa. Tutto chiaro fin qui?”
“Sì.”
Tarciso si permise un sorriso acido: “Peccato che sia anche tutto sbagliato.”
Jona scelse di tacere.

“Parlando con Sofonte, il Sacerdote di Ipno, ho scoperto che il suo Amuleto poteva fare una mappa abbastanza dettagliata dell’attività cerebrale. Cominciammo a fare esperimenti per individuare con precisione cosa succedeva. Non trovammo nulla di quello che ci aspettavamo.”
“Niente modelli, niente proiezioni, niente di niente! Una maledetta confusione di neuroni che sparavano apparentemente senza senso!”

Si interruppe improvvisamente, guardò Jona dritto negli occhi: “Sei sicuro di seguirmi?” Poi, ad un cenno di assenso del Mago: “Strano, quasi tutti gli altri sogni, a questo punto, erano già scappati a gambe levate.”

Jona si limitò a sorridere, anche perché non aveva la minima idea di cosa dire.
Tarciso si riappoggiò allo schienale e riprese: “C’era un ordine in quel caos. Doveva esserci. E alla fine lo abbiamo trovato.”
“Il Modello, in realtà, esiste, solo che è formato da gruppi di neuroni che si attivano assieme e formano delle configurazioni semi-stabili. Ogni neurone può far parte di centinaia di configurazioni, quindi eccitando una configurazione si rischia di attivarne un’altra che abbia dei neuroni in comune. Un po’ come le corde di un’arpa, che, a pizzicarne una sola, poi mette in movimento anche le altre.”
“Dei circuiti risonanti.”
“Esatto; ma tu come fai saperlo? Ah, certo: sei un mio sogno.”

“I sensi non fanno altro che smorzare certe configurazioni”, proseguì, “anche i nostri pensieri hanno la stessa caratteristica: sono delle conformazioni di gruppi di neuroni che si eccitano a vicenda, solo che sono più grandi e più stabili.”

Jona stava cercando di immaginarsi quel pandemonio nel cervello e lo disse:
“Esatto!” Esclamò Tarciso eccitato, “Poi abbiamo scoperto un altro circuito che, come per i sensi, si occupa di “spegnere” i pensieri non pertinenti.”

“E come c’entra la comunicazione, con tutto questo?”
“La Comunicazione, in realtà è risultato un apparato abbastanza distinto da tutto questo. L’unico apparato che, per quanto ci è dato capire, ci differenzia nettamente dagli altri animali.”

Il silenzio rimase indisturbato a lungo mentre Jona cercava di digerire la visione di Tarciso e, nel contempo di capire se era solo il frutto di una mente malata o c’era del vero in tutto ciò.

“Scusa, Tarciso, ma non capisco: va bene tutto quello che hai detto, ti credo sulla parola, anche se vorrei controllare di persona, ma in che modo questo dimostrerebbe che io sono solo un tuo sogno?”

Tarciso aveva l’aria soddisfatta di chi sta per vibrare l’affondo finale:

Ancora una volta il silenzio regnò sovrano, tanto che Jona poté sentire il verso di un gufo nella notte. Non doveva distrarsi!

Tarciso era interdetto. Piegò la testa da un lato e rimase così per un istante, poi:
“Comunque non funziona. Ragioniamo per assurdo: supponiamo che tu abbia ragione e che gli esperimenti, essendo sogno, non sono affidabili. In questo caso tu non saresti un sogno.”

“Lasciami finire!” Tagliò corto l’Accademico, “Ma se tu non sei un sogno allora non lo sono nemmeno gli esperimenti. Abbiamo una contraddizione che si elimina solamente assumendo che gli esperimenti, sogno o non sogno, siano affidabili!”

Non si andava da nessuna parte, decise Jona che, tra l’altro sentiva la stanchezza annebbiargli il cervello.
“Senti, capisco che, secondo te, io non sono altro che un sogno, ma io sono un sogno stanco e, per essere un sogno divertente, ho bisogno di riposare. Posso stendermi da qualche parte e ne riparliamo domani?”