Notizie dal Nuovo Mondo
Serna era preoccupata.
L’ultima conversazione con suo padre le aveva lasciato l’amaro in bocca di troppe cose non dette.
Era mattina presto e la notte regnava ancora incontrastata. Mancavano ancora diverse ore all’alba, ma lei non riusciva a riaddormentarsi.
Il vago alone rosso che proveniva dal tavolo scacciò gli ultimi residui di sonno. In un momento era china sull’Amuleto.
“Papà?”
“No, sono solo io, l’Amuleto.”
“Che succede?”
“Nulla, almeno per ora. Thano ha deciso che tuo padre deve trovare alcune risposte senza aiuti. Ora nel suo Amuleto abita un altro.”
“Che vuoi dire? Tu dove sei, ora?”
“Puoi immaginarmi come un fantasma senza corpo, almeno per ora. Ho chiesto ospitalità al tuo Amuleto per poterti parlare.”
“Come sta mio padre?”
“Mesi? Chiuso in prigione?”
L’Amuleto si produsse in una buona imitazione di una risatina: “Non ti preoccupare, ti dico, è una “prigione”, come dici tu, piuttosto ampia e confortevole. Piena di cose interessanti. L’unico vero pericolo è che si dimentichi perché è lì e ci rimanga troppo a lungo.”
“Ho capito. Lo hanno chiuso in una biblioteca. Non ne uscirà finché non avrà letto tutto quel che c’è da leggere.”
Stavolta la risata dell’Amuleto fu chiara e liberatoria: “Qualcosa del genere. Ti ripeto che non c’è da preoccuparsi, almeno per un bel po’ di tempo. Non posso intervenire, ma posso vedere quel che succede. Se dovessero esserci dei problemi farò del mio meglio per fartelo sapere. Per ora non posso dirti molto di più. Devo andare.”
Il volto incappucciato di rosso scomparve e lei si appoggiò allo schienale della sedia. I profumi di quella strana terra entravano dalla finestra aperta.
Ora che la tensione che aveva tenuto i suoi pensieri rivolti verso il lontano occidente stava calando, le tornò in mente che ora a casa, a Tigu, c’era, forse, la neve anche sul mare, mentre lì si dormiva con una coperta leggera.
Il Naufrago
Era una settimana che lo scirocco flagellava la costa e le onde si frangevano sugli scogli che riparavano il golfo.
Serna non ricordava una tempesta così violenta e così lunga. Non sembrava avesse la minima intenzione di calmarsi.
Il suo Amuleto cominciò a pulsare di luce verde: “Mamma, sei tu?” Chiese, ma con sua sorpresa apparve invece il volto di Nenco, il sacerdote di Asclep in Gena.
“Che posso fare per te, Nenco?”
“Abbiamo un problema e il Granduca gradirebbe il tuo intervento. Potresti venire subito?”
Rimase interdetta sia per il tono formale che per la chiara sottolineatura vocale piazzata sotto la parola “subito”, ma rispose senza far altri commenti: “Certamente. Sarò lì appena possibile. Palazzo ducale, vero?”
Nenco si limitò ad annuire, mormorò un: “Grazie” e scomparve.
Non erano passati cinque minuti che Serna, imbacuccata nel mantello per proteggersi da vento e pioggia, lanciava il calesse al galoppo sulla strada per Gena.
Arrivò al palazzo ducale che era già notte fonda, ma la stavano aspettando.
Non ebbe bisogno di bussare perché il portone si spalancò al suo avvicinarsi e due servitori l’aiutarono a scendere.
Fermo era lì accanto ad aspettarla, la prese per mano e disse eccitato: “Vieni, non c’è un momento da perdere”, poi la guardò meglio e si corresse, “forse è meglio che ti riposi un po’ prima.”
“Devo essere un vero disastro”, pensò Serna mentre si sforzava di sorridere, “Meglio di no, altrimenti sprechiamo tutta la fatica che ho fatto per sbrigarmi.”
“Va bene, ma prendi questo, che almeno è asciutto”, le disse Fermo porgendole il suo mantello.
Lei si lasciò cullare per una frazione di secondo nel tepore, poi si avviò con passo deciso verso lo scalone.
Fermo disse ad uno dei servitori:
La stanza era riscaldatissima e vi troneggiava un grosso letto a baldacchino.
Lì accanto Nenco stava chino con aria sconsolata.
“Non so quanto possa resistere ancora”, disse facendo cenno a Serna di avvicinarsi, “Sono riuscito a fermare l’emorragia interna, ma ha perso molto sangue e ha una bella polmonite. Credo sia rimasto in acqua per giorni.”
Serna lanciò un’occhiata interrogativa a Fermo.
Quell’uomo non era certo uno dei marinai del granducato. Aveva la pelle scura più di quella dei mercanti del sud e i capelli crespi tagliati cortissimi formavano una specie di cappuccio di feltro sul suo cranio.
“La tempesta lo ha portato quasi nel porto”, le spiegò Fermo,
Serna era perplessa. Un naufrago da terre lontane è una cosa ben rara, ma che c’entrava lei? Perché l’avevano chiamata con tanta urgenza? Non che le dispiacesse rivedere Fermo, ma decisamente le sfuggiva qualcosa.
Fermo, la cui impulsività cominciava ad esser mitigata dai suoi studi da futuro Granduca, se ne accorse: “Per ora lo sappiamo solo io, mio padre, Nenco e il guardiano del faro di levante che lo ha raccolto”, fece una leggera pausa per far capire bene che si trattava di rivelazioni che dovevano rimanere riservate, “da quel poco che ha detto nei suoi deliri sembra che fossero alla ricerca di un favoloso tesoro, ma hanno trovato la tempesta sul loro cammino.”
In quel momento entrò un’attempata fantesca con una bracciata di abiti asciutti: “Venga, Signoria, ho preparato un bagno nella stanza accanto. Pensa che questi possano andare bene? Non ho trovato altro della misura giusta!”
Serna si lasciò condurre nella stanza accanto, felice di potersi togliere i vestiti fradici e di avere qualche minuto per riflettere.
Il “bagno” si rivelò essere solo una spugnatura con asciugamani caldi e profumati, ma fece il suo servizio egualmente. Quando rientrò al capezzale del moribondo, con una tazza di brodo caldo in mano, si sentiva decisamente molto meglio.
“Non credi che sia il caso di dirmi tutto, Fermo? Dovresti sapere che ti puoi fidare.”
Lui si avvicinò a un tavolino coperto da uno spesso panno bianco: “Guarda cos’aveva in tasca”, disse scostandolo.
Apparve uno strano assortimento di oggetti.
Quello che attirava subito l’attenzione erano alcuni splendidi gioielli d’oro con pietre incastonate. Erano enormi. Ne prese uno in mano. Era d’oro massiccio. Dovevano valere una fortuna anche senza contare la splendida fattura, nonostante sembrassero molto usati. Anche le grosse monete d’oro avevano l’aria di essere passate per parecchie mani, prima di finire su quel tavolino.
Un cannocchiale in madreperla e un piccolo rocchetto nero con due anelli di ottone completavano la collezione.
Ce n’era abbastanza da giustificare la curiosità del Granduca.
“Il mio Amuleto è riuscito a tradurre qualcuna delle frasi che ha farfugliato nel delirio”, spiegò Nenco, “è così che abbiamo saputo del tesoro e del naufragio.”
“Conosci la lingua?” Chiese Serna al suo Amuleto.
“Sì.”
“Analizza il flusso di coscienza, traduci e registra tutto.”
L’Amuleto si accese di una luce brillante e cominciò ad emettere un sussurro smozzicato assolutamente incomprensibile.
“Che stai facendo?” Chiese Fermo.
“Il Visir deve sapere! La missione è andata a buon fine. Maledetta tempesta. Devo resistere. Ricompensa. Duliana. Bella. Mia. Devo tornare dal Visir. Quel bellimbusto del principe ha fatto la fine che meritava. Abbiamo vinto. Devo resistere.”
Serna rimase ad ascoltare per qualche minuto, poi cominciò a suggerire, con l’Amuleto a far da interprete: “Che devo dire al Visir?”
“Tutto è andato secondo i piani, oh mio signore! La missione del Principe è fallita prima di iniziare. Secondo i piani? Tranne questa stramaledetta tempesta. Sembra che Posse voglia distruggerci. Ma non si è mai fatto vedere. Devo resistere.”
“Ma, il Principe?”
“Come?”
“Ha perso la testa alla prima ondata della tempesta. Maledetta tempesta. Non finirà mai. Devo tornare ad avvertire il Visir.”
L’interrogatorio durò ore, con Serna che cercava di guidare le farneticazioni verso un racconto che avesse una parvenza di filo logico e il moribondo che tornava, come tirato da una molla, alla necessità di resistere per poter fare rapporto a “Visir” e ricevere in premio Duliana.
Ad un certo punto le farneticazioni si fecero incomprensibili e il naufrago scivolò in un sonno senza sogni.
Fermo
La mattina era tersa e luminosa. Della tempesta rimanevano solo le lunghe onde che continuavano a frangersi contro i moli del porto.
Serna ebbe solo pochi secondi, dopo il risveglio, per riconoscere l’ambiente non familiare, poi entrarono due ragazze di servizio che l’aiutarono a prepararsi.
Prima di rendersi veramente conto di quel che stava succedendo Serna si ritrovò lavata, vestita, spazzolata e profumata; pronta per affrontare il mondo esterno.
Quando le due ragazze uscirono, sotto lo sguardo severo della fantesca che la sera prima s’era presa cura di lei questa le chiese gentilmente: “Il Duchino Fermo la aspetta per la colazione, se non le dispiace.”
Serna sorrise compunta e rispose: “Non sarebbe gentile farlo attendere troppo. Andiamo.”
Fermo doveva aver atteso parecchio.
La tavola ducale era imbandita per l’intera famiglia, ma era evidente che la colazione era terminata da un pezzo. L’Amuleto la informò che erano le dieci e mezza.
Erano rimasti solo il Duchino e Nenco, che aveva l’aria di aver dormito molto poco. Serna gli rivolse un’occhiata interrogativa.
“Quindi abbiamo solo quello che siamo riusciti a cavargli ieri notte. Non è molto.”
Serna rimase sorpresa dal tono deciso di Fermo e dalla sua aria tesa e preoccupata, ma non fece domande quando lui proseguì, con un sorriso un po’ forzato: “Ma ora non roviniamoci l’appetito!”
La colazione fu, in realtà, abbastanza frugale, come nelle abitudini della famiglia ducale che non vedeva di buon occhio chi indulgeva nei piaceri della gola o, comunque, si impigriva.
Fermo aveva il fisico asciutto e muscoloso di un militare e sicuramente si allenava quanto e forse più dei suoi soldati.
A Serna non dispiaceva guardarlo e non poté fare a meno di notare che il Duchino era particolarmente silenzioso stamattina e, a volte, le lanciava occhiate preoccupate, cercando di non farsi scorgere.
“Che cosa ti preoccupa, Fermo?” Sbottò finalmente quando la colazione fu terminata, “Hai una faccia scura che non ti ho mai visto da che ti conosco.”
Lui fece un sorriso tirato: “Non lo sai? Non lo vedi nella mia testa?”
Serna rimase di stucco e non fece nulla per nasconderlo, poi si riprese, tirò un gran respiro e, con la voce più seria e pacata che riuscì a trovare rispose:
Fermo era a metà fra il contrito per aver pensato male e il sollevato perché i suoi timori si erano rivelati infondati:
“Non c’è nulla da scusarsi. Sono io che ho agito senza pensare troppo, ieri sera. Non ho pensato che questa capacità del mio Amuleto può essere vista come una minaccia personale. Vi prego di scusarmi.”
I due giovani si guardarono negli occhi e poi scoppiarono in una sonora risata liberatoria.
Un leggero colpo di tosse di Nenco li riportò al presente.
“Mio padre vuole che organizzi una spedizione per andare a vedere che cosa c’è di vero in quello che abbiamo sentito ieri sera. Vuole che salpi alle prime brezze di primavera.”
“Caccia al tesoro?”
“Sì, ma non solo”, le rispose Fermo con una faccia seria seria, “quando gli ho raccontato quello che eravamo riusciti a sapere il Duca ha cominciato a preoccuparsi moltissimo per questa nazione della quale non sappiamo nulla e che sembra volersi appropriare delle nostre rotte commerciali.”
Nenco si intromise: “Ora, con licenza del Granduca, vorrei ritirarmi. Sono molto stanco e il nostro naufrago non è l’unico ad aver bisogno di me, qui a Gena.”
Fermo fece un cenno d’assenso: “Certamente Nenco, scusaci se ti abbiamo trattenuto tanto, ma sembra importante. Avremo sicuramente bisogno dei tuoi consigli, più avanti.”
Serna stava riflettendo, non ci aveva pensato subito, ma il Granduca aveva ragione: a quanto pareva quelle popolazioni nomadi delle terre dell’est stavano costruendo città sul mare e cominciavano a commerciare con le coste meridionali dell’isola di Trina, la stessa con la quale Gena faceva ricchi commerci, sia pure limitati, per ora, alla costa settentrionale.
Non sarebbe passato molto tempo prima che si venisse a contatto, con esiti imprevedibili.
Avere notizie dirette e certe poteva essere di vitale importanza.
‘Rruth
Passi leggeri sull’assito del ponte la fecero tornare al presente.
La spedizione voluta dal Granduca era oramai una realtà da molti mesi e li aveva condotti lontano da casa sull’isola di Trina prima e poi ancora più a sud.
Serna si era dichiarata subito disponibile e aveva partecipato ai preparativi, tanto da trascinarsi dietro una parte della sua famiglia.
Darda era sempre stata mattiniera e questo viaggio sembrava averla ringiovanita di parecchi anni, o forse era la presenza di Agio, ingaggiato come capitano del piccolo vascello che ora stava navigando lungo quella costa bassa e spoglia.
Serna sorrise fra sé e sé: quei due formavano una bella coppia.
Affiatati, sempre a beccarsi, ma sempre con il sorriso sulle labbra. Lui sembrava avere vent’anni più della nonna, anche se era quasi vero il contrario.
Darda entrò senza bussare: “Non riesci a dormire, stamani?”
“Ero un po’ inquieta, poi ho avuto notizie di papà.”
“Che dice? Come si trova con quei Nani?”
“Non dice nulla. Mi ha chiamata direttamente il suo Amuleto.”
Darda spalancò gli occhi allarmata, poi si rilassò: “No, non è in pericolo. Non saresti così tranquilla. Che è successo?”
“Un altro dei giochetti di Thano. Pare che lo abbiano chiuso da qualche parte e deve trovare il modo di uscire da solo. Anche il suo nuovo Amuleto è stato rimosso e non lo può aiutare.”
“Strano tipo quell’Amuleto. Non ne ho mai visti di simili. Di solito si limitano a fare quel che gli chiedi, se glielo chiedi nel modo giusto e ne sono capaci. Questo si prende parecchie iniziative.”;
“Ho cercato di fare ricerche, ma più del fatto che gli Amuleti sono tutti diversi non sono riuscita a sapere.”
“Comunque: ero venuta a dirti che Agio dice che siamo alla fine della nostra navigazione. Ha visto dei fuochi nella notte; siamo fuori dal Continente Proibito.”
“Voglio vedere”, esclamò Serna scattando in piedi.
“Beata gioventù! Aspetta. Non c’è nulla da vedere. Agio ha preso il largo appena ha capito che c’era gente sulla costa. Meglio essere prudenti.”
Avevano lasciato la grande isola di Trina da due settimane oramai e, dopo una breve sosta su un’isola rocciosa senza nome in mezzo al mare non avevano più preso terra. Opia era stata chiarissima: non si doveva mettere piede sulle terre a sud di Trina, pena l’ira degli Dei, di tutti gli Dei.
Il Continente Proibito non sembrava, in realtà molto attraente: una costa bassa, sabbiosa, sulla quale si vedevano solo pochi alberi raggruppati attorno a striminziti torrentelli.
L’unica parte che sembrava fertile e rigogliosa era il grande delta di un fiume che doveva essere veramente poderoso, ma che non videro nemmeno, nascosto com’era da chilometri di paludi verdeggianti infestate da pericolosi animali corazzati forniti di incredibili dentature.
Ora dovevano essere arrivati sulle coste abitate dai Fenarabi, una popolazione di abili navigatori e di mercanti che abitavano le coste sud-orientali del mare.
Erano loro ad aver inviato la disgraziata spedizione che aveva fatto naufragio tanti mesi prima.
Sulle coste sud-orientali dell’isola di Trina avevano incontrato i loro commercianti e anche una piccola colonia stabile; ne avevano approfittato per avere informazioni e imparare un po’ la lingua.
Come emissari del Granduca di Gena, ben conosciuto in Trina, vennero accolti cordialmente, anche se con molta diffidenza e sospetto.
Sicuramente notizia del viaggio del figlio del Granduca e della sua fidanzata era già arrivata fino a ‘Rruth, capitale del sultanato dei Fenarabi.
Arrivarono a ‘Rruth una settimana dopo, appena in tempo: Posse aveva garantito tre settimane di bel tempo ed erano quasi scadute.
Il porto era grande, composto da due parti: un’ampia insenatura con lunghi moli e una darsena interna di forma circolare, con banchine e ricoveri per le navi.
Qui il paesaggio era completamente differente dalle brulle coste che avevano lasciato alle loro spalle; il territorio era collinare e coperto da una fitta vegetazione di alberi d’alto fusto che lasciavano, qua e là, spazio a coltivazioni ben curate.
L’apparizione della loro alta vela aurica, così diversa
dalle loro vele quadre o, al massimo, latine, destò scalpore e il porto si riempì di soldati armati di lunghe lance e di strani archi ricurvi.
Come avevano deciso Agio calò l’ancora ad una certa distanza dal molo, ammainarono le vele e misero in mare una piccola scialuppa.
Agio stesso prese i remi e si diresse direttamente verso il molo dove si trovava quello che doveva essere il capitano della guarnigione del porto.
Arrivato sul molo depose in bella vista un panno di lino ricamato su cui pose due brocche di vetro lavorato contenenti una olio ed una vino e un pugnale ed una spada forgiati dai maestri di cui Gena andava giustamente orgogliosa.
Prima di tornare alla sua barca e vogare fino alla nave senza guardarsi indietro disse, in un fenarabo stentato, ma perfettamente comprensibile: “Questi sono doni per il vostro Visir ed esempi delle merci che Gena può commerciare. Se siete interessati sarò qui domattina.”
La Trattativa
La mattina dopo la goletta si ripresentò al porto e Agio riprese la sua scialuppa e, vogando in piedi alla maniera dei pescatori, si diresse al molo.
Fermo seguiva usando il cannocchiale del naufrago, molto migliore di quelli disponibili a Gena, mentre Serna usava il suo privato Occhio di Lince.
Sul molo era schierata una truppa diversa da quella del giorno prima. Serna tirò un sospiro di sollievo: le guardie d’onore si riconoscono ovunque. Quei soldati non erano lì per combattere, anche se erano, probabilmente, perfettamente in grado di farlo.
Anche Darda, che sbirciava al suo fianco, doveva aver avuto la stessa sensazione perché si rilassò visibilmente.
Agio trovò ad attenderlo, nel preciso posto dove aveva lasciato i suoi doni, un tappeto con sopra cinque piatti di ceramica colorata con sopra due monticelli di granuli bianchissimi, ma evidentemente diversi: uno era quasi certamente sale, ma l’altro? Due pezze di stoffa e una sottile corda.
Non le esaminò, ma prese tutto con estrema cura e lo caricò sulla sua scialuppa facendo bene attenzione a non far cadere nemmeno un granello.
Prese quindi un involto e si diresse con passi lenti e calmi verso l’uomo, completamente vestito di nero, che sembrava essere a capo della guardia: “Questo”, disse aprendo l’involto e rivelando un pesante piatto d’argento con inserti d’oro, coperto da una trina preziosa, “è un dono personale del Granduca di Gena per il Vostro Sultano. La nostra tradizione vorrebbe che un dono del genere fosse coperto da frutta secca, ma abbiamo saputo che regalare cibo non è considerato di buon auspicio.”
L’uomo in nero, del quale si vedevano solo gli occhi e le mani, prese il piatto con un leggero inchino e lo passò ad una guardia.
“I Mercanti di Gena sono i benvenuti a ‘Rruth”, disse, scandendo bene le parole per le orecchie sicuramente poco allenate di Agio, “Potete entrare nel porto interno. Troverete un ricovero per la vostra nave. Il Visir desidera parlarvi. Sarete ospiti a palazzo.”
Agio si produsse in una perfetta imitazione dell’inchino e rispose: “Ringraziamo per il cortese invito, che accettiamo con piacere”, sperando di essere riuscito a ripetere correttamente la formula di saluto formale che gli avevano suggerito; dopodiché risalì sulla sua scialuppa e fece ritorno alla piccola nave mercantile.
Due ore dopo questa entrava in porto sotto la spinta delle vele, dando prova di una perizia non comune alle manovre.
Il Visir
Un picchetto d’onore di giannizzeri paludati di nero li venne a prendere con un interessante carro con due grandi ruote ed una bassa piattaforma con balaustra montata su cinghie.
Fermo salì per primo, seguito da Serna, splendida nella sua tunica gialla e circondata dalla lieve aura di Maga. Agio e due marinai armati fino ai denti completavano la delegazione.
L’apparizione di Serna provocò stupore e più di una guardia mormorò: “Djinn!”
Non appena il carro cominciò a muoversi, seguito dai giannizzeri a cavallo, la maga sussurrò all’Amuleto: “Che cos’è un “djinn”?”
Questo assunse una tonalità violacea mentre rispondeva:
Serna ci pensò su un attimo poi chiese: “Non capisco; che c’entro io con un Djinn?”
Nella voce si indovinava il sorriso indulgente di Isto:
Serna cominciava a capire: “Un po’ come gli Avatar degli Amuleti?”
Due pensieri fulminanti balzarono alla mente di Serna, senza che lei sapesse esattamente da dove arrivavano: “Qui i Sacerdoti non hanno Amuleti, vero? E poi: il nuovo Amuleto di papà, l’Amuleto di Thano, è un Djinn?”
L’aura viola scomparve e Serna rimase a rimuginare quelle parole fino a che non si fermarono davanti ad un muro spoglio con un gran portone di legno.
Il comandante picchiò tre volte con il pesante battacchio di bronzo e la porta venne aperta.
Serna non riuscì a trattenere un moto di stupore: attraversare il portone era come entrare in un altro mondo.
Le strade che avevano percorso dopo essere usciti dal porto erano tutte anonime, non particolarmente pulite, fiancheggiate da case imbiancate a calce con piccole finestre poste in alto e le avevano dato, in generale, una sensazione di squallore e trascuratezza.
All’interno del muro di cinta c’era un giardino fantastico che incantava gli occhi con una profusione di colori, nonostante si fosse ancora in pieno inverno. Il palazzo vero e proprio era una costruzione a due piani rivestita di lucide piastrelle sulle tonalità del giallo sormontata da una serie di piccole cupole di un turchese elettrico.
Percorsero lentamente un viale acciottolato con pietre di diverso colore che rappresentavano motivi geometrici che si intrecciavano senza ripetersi mai uguali.
Mentre entravano Serna mormorò a Fermo: “Non credo abbiano i Maghi, come li conosciamo noi, da queste parti. Pensano che io sia una specie di demonio che ti appartiene, in qualche modo. Stiamo al gioco.”
Il palazzo era sfarzoso quanto l’esterno e racchiudeva un altro giardino interno, del quale ebbero solo una fugace visione da una porta aperta da un servitore e subito richiusa. Vennero condotti in un appartamento al primo piano, le cui finestre si affacciavano tutte sul giardino esterno, verso la porta d’ingresso.
Le porte non avevano né serrature né chiavistelli, ma Serna non ebbe bisogno di chiedere conferma all’Amuleto per avere la certezza che quattro giannizzeri erano rimasti nel corridoio a controllare i loro movimenti.
L’appartamento era costituito da due parti ben distinte: la prima dedicata al servizio, dove si installarono Agio e i due marinai di guardia e una più riccamente ammobiliata evidentemente riservata al Duchino. Come pensassero dovesse alloggiare Serna, in qualità di Djinn non era chiaro, ma visto che i due condividevano il letto da parecchi mesi — fin da quando Fermo si era deciso a chiederla ufficialmente come sposa e lei aveva accettato — decisero di continuare così.
Il comandante dei giannizzeri fece gli onori di casa, spiegò loro le poche cose che c’erano da sapere, incluso l’uso di un cordone da tirare per richiedere l’intervento della servitù, poi li lasciò dicendo che sarebbe tornato a prenderli per la cena con il Visir.
Serna non faticò a scoprire, usando abilmente le capacità del suo Amuleto, che c’erano parecchie aperture fra i pesanti tendaggi dalle quali era possibile sentire ed osservare quasi tutto quel che succedeva nell’appartamento; in questo momento non c’era nessuno in ascolto, ma lei istruì l’Amuleto a sorvegliarle tutte e avvertire se qualcuno avesse cercato di usarle.
La cena fu un vero e proprio banchetto con l’evidente intento di stupire e mettere in soggezione i negoziatori che venivano da lontano, da una terra, in fondo, molto più grigia e spartana di quel palazzo fenarabo.
Fermo, comunque, era un mercante esperto e non si faceva impressionare facilmente, mentre Serna faceva del suo meglio per apparire molto più svampita e frivola di quanto non fosse realmente.
Ad un certo punto si accorse che il Duchino stava seguendo con eccessiva attenzione, almeno dal suo punto di vista, la danza di una baiadera il cui abitino era composto quasi esclusivamente da un gran numero di sonagli che faceva vibrare con grande maestria. Scoccò un sorriso al suo promesso chiedendogli con voce mielata: “Ti piace?”
Lui si limitò ad arrossire fino alla radice dei capelli, ma nessuno lo notò perché, con gesto plateale, la Maga fece saltare tutti i fermagli del vestito della sventurata danzatrice. Il costume esplose in uno scroscio di campanellini che rimbalzavano sui tappeti lasciandola completamente nuda.
Il Visir rise a quello spettacolo allentando la tensione che si era creata. Serna lo sentì distintamente dire al capo dei giannizzeri: “Avevo pensato di mandarla a rallegrare la notte del nostro ospite, ma forse è meglio di no.”
Terminato il banchetto i discorsi si fecero più pratici e cominciò la trattativa commerciale che, almeno di facciata, era il motivo della visita.
Fermo sapeva benissimo di dover essere paziente, le informazioni prese a Trina e i contatti diretti avuti con i commerciati che avevano là le loro botteghe gli avevano insegnato che cercare di affrettare una contrattazione con i fenarabi voleva inevitabilmente dire inimicarseli o fare un pessimo affare, spesso entrambe le cose allo stesso tempo.
Parlarono pertanto dei loro paesi, delle merci, delle manifatture, senza accennare minimamente al fatto che si pensava di poter commerciare.
Durante i complessi saluti alla fine della serata Fermo riuscì a sussurrare quasi all’orecchio del Visir: “Abbiamo un messaggio solo per le vostre orecchie”, mentre Serna faceva comparire, per un istante, l’immagine del naufrago.
A rapporto dal Visir
Il comandante dei giannizzeri, se era veramente lui, dato che si vedevano solo gli occhi, venne a prenderli poco dopo mezzanotte.
Lo studio privato del Visir era piuttosto piccolo e arredato in modo molto meno sfarzoso della sala dove avevano cenato.
Anche lui sembrava meno imponente in una vestaglia scura che lo copriva fino ai piedi.
Si accomodarono su una pila di cuscini attorno ad un basso tavolino mentre il giannizzero chiuse la porta e si trasformò in una statua, una statua che sarebbe certamente tornata ben viva in caso di necessità.
“Volevate dirmi qualcosa, credo.”
Fermo tirò fuori dalla manica una borsa e depositò in bella vista sul tavolino i gioielli e le monete che avevano trovato addosso al naufrago.
“Dovrei conoscerli?” Chiese il Visir sollevando un sopracciglio,
“Penso proprio di sì”, tagliò corto Fermo, che poteva vedere il lampo rosso dell’Amuleto, “Comunque, come dicevo, siamo qui per riferire il messaggio di un uomo che non è in condizioni di riferire di persona.”
“E questo messaggio sarebbe?”
“La missione data al vostro uomo è perfettamente riuscita, il che significa che la spedizione comandata del figlio del Sultano è andata incontro al più completo fallimento; il figlio del Sultano è certamente morto per mano del vostro uomo e a quanto ci è dato di capire, tutti gli altri hanno trovato la morte, in un modo o nell’altro.”
Il viso del Visir rimase impassibile.
“E voi sareste venuti fin qui per dirmi questo?”
“No, naturalmente. Quello che ci ha raccontato il vostro uomo ha convinto mio padre che aprire una rotta commerciale con ‘Rruth sarebbe stato di reciproco interesse. Ho dato la mia parola che avrei fatto di tutto per recapitare questo messaggio e per chiedere notizie di una certa Duliana, che sembra molto cara al nostro amico.”
Il Visir scoppiò in una sonora risata: “Duliana è stata promessa in premio a chi mi portasse buone notizia, quindi suppongo che adesso appartenga a voi, anche se, dopo l’incidente di stasera temo che la vostra Djinn non sarebbe molto contenta.”
“Ma io non sono un Djinn”, cinguettò Serna con la sua migliore aria da oca giuliva, “sono solo una giovane donna che non se la sentiva di lasciare il suo promesso sposo andare in giro per il vasto mondo senza qualcuno che gli rammendasse i calzini.”
“Avete, però, perfettamente ragione: mi risentirei molto se regalaste Duliana al mio tesoruccio!” I suoi occhi erano diventati due punte di spillo mentre pronunciava le ultime parole.
Il Visir, a disagio, cambiò argomento: “E cosa vi aspettate di ricevere in cambio?”
“Nulla”, rispose Fermo, “considerate quest’ambasciata il pagamento di un procurato affare al vostro uomo, sempre che l’affare, poi si concretizzi.”
Il discorso scivolò su argomenti meno impegnativi fino a che il Visir, quasi casualmente, disse “Ho ricevuto poco fa un messaggio del Sultano. Vi ringrazia per il dono e vi invita a palazzo nel giorno del riposo, venerdì. Che devo rispondere?”
Fermo esitò solo un attimo, avvertendo la tensione nella domanda, nonostante la scarsa padronanza della lingua: “Saremo felici di accettare, come può essere altrimenti? Spero che abbiate la bontà di accompagnarci e di istruirci sugli usi di corte, non vorremmo fare qualche errore.”
Il Visir sembrò essersi librato da una gran preoccupazione.
Poco dopo la riunione notturna si sciolse e gli ospiti vennero riaccompagnati ai loro alloggi, dove Agio li aspettava preoccupato.
“Tutto bene?”
“Penso proprio di sì.”
“Hai fatto benissimo a chiedergli di accompagnarci dal Sultano.”
“Sarebbe venuto comunque.”
“Ma era terrorizzato dal dubbio che volessimo ricattarlo di rivelare tutto al Sultano.”
“Se avessimo veramente voluto fare il doppio gioco non ci saremmo infilati con la testa nella bocca del leone!”
Serna fece una piroetta: “Certo che sì, quando hai dalla tua un Djinn potente come me!”
Fermo scoppiò a ridere: “Ah, ora capisco perché hai fatto quel numero, a cena!”
“Anche. Comunque una donna come Duliana può far perdere la testa a parecchi uomini.”
“Vero!” Confermò lui e poi fu costretto a difendersi da una gragnola di cuscinate di un’indignatissima Maga.
Il Sultano
Le trattative commerciali procedevano spedite, secondo gli standard fenarabi, ma a passo di lumaca a giudizio dell’impaziente Fermo.
Serna a volte lo accompagnava, ma spesso rimaneva nelle sue stanze a studiare con Darda.
Venne il giorno del riposo e con esso la visita al Sultano.
Del palazzo era visibile solo un alto muro di cinta che, come una corona, circondava la cima di una collina. Era grossolanamente imbiancato e aveva un ampio, ma anonimo, portone di solido legno come ingresso.
Serna aveva imparato che quella era una delle caratteristiche di tutte le abitazioni fenarabe, rivolte verso l’interno, scevre di ostentazioni verso chi non era ammesso fra le mura.
I giardini erano ancora più sfarzosi di quelli del Visir, ma mancavano di quella raffinatezza. Il Sultano era un capo militare, reduce da una sfortunata campagna per sottomettere un sultanato vicino, e la cosa era evidente.
Anche gli spettacoli durante la cena riflettevano il carattere del padrone di casa: mentre il Visir prediligeva musica e danza il Sultano apprezzava lotta e giocolieri. Il carattere marziale era evidente anche in questi ultimi; per ultimo si esibì un gruppo che, dopo una breve introduzione nella quale si lanciavano un gran numero piccole palle colorate, le sostituì gradualmente con asce, spade, pugnali e altre armi bianche che formavano una girandola tanto veloce da rendere difficile seguirla con gli occhi. Il numero si concluse con tutte le armi infisse in un apposito bersaglio, a dimostrazione che erano affilate e pericolose.
Fermo e Serna si mostrarono debitamente impressionati.
Poco dopo ebbe termine anche la cena e il Sultano, che aveva bevuto parecchio, chiese a Fermo di far ripetere al suo Djinn la magia del vestito di Duliana.
“Mente!” Ruggì una voce possente. Il Sultano stava accarezzando distrattamente una lampada a olio dalla quale usciva un filo di fumo. In un baleno su trasformò in una nuvola turchese che coagulò in un enorme Djinn minaccioso.
“E in che cosa avrei mentito, di grazia, o potente Djinn?” Ribatté Serna senza battere ciglio e senza cambiare tono.
“E, comunque, il gioco del vestito che esplode lo so fare anch’io!”
Serna si sentì avvampare mentre i suoi abiti prendevano fuoco e sparivano in una nuvola di cenere.
Se il Djinn si aspettava di veder la maga arrossire e scappar via come aveva fatto Duliana rimase deluso; Serna si alzò lentamente dall’alto cuscino su cui era seduta completamente vestita da uno sguardo che avrebbe incenerito chiunque.
Il suo Amuleto, intanto, aveva reagito automaticamente all’aggressione scatenando un attacco furibondo verso la lampada che brillò un attimo scottando le dita del Sultano, poi emise un ultimo sbuffo di fumo e il Djinn scomparve. Tutto era durato meno di un secondo.
Serna mormorò qualche parola e si ritrovò vestita da un abituccio identico a quello che aveva usato Duliana.
“L’hai distrutto?” Chiese all’Amuleto sottovoce.
“No, solo danneggiato gravemente. Ci metterà dei mesi a guarire abbastanza da far uscire una qualsiasi immagine e parecchie settimane prima di essere in grado di comunicare.”
Serna rivolse la sua attenzione al Sultano, esterrefatto sia per il comportamento del “suo” Djinn, che gli imprevisti risultati: “Debbo dire che non mi aspettavo di dovermi esibire per la gioia del Sultano di ‘Rruth. Chiediamo ci venga graziosamente concesso il permesso di ritirarci.”
“Mi scuso per il comportamento del mio Djinn, ma, come certamente sapete, non lo posso controllare completamente. Che cosa gli è successo?”
Serna riprese un’aria meno truce: “Questo è il problema con i Djinn: non ti puoi mai fidare.”
Poi, improvvisamente si risedette e proseguì, in tono confidenziale sporgendosi verso il Sultano: “Penso, comunque, che faresti bene a liberarti di quel cattivo consigliere. Ti ha fatto fare i peggiori errori della tua vita. Se proprio si deve sbagliare conviene farlo da soli, senza farsi prendere in giro da un principe della menzogna come quello.”
Il Sultano era oramai completamente sobrio e stava riprendendosi dalla sorpresa: “Che intendi dire “giovane donna”?”
Serna si limitò a guardarsi attorno nella sala dove gli altri invitati e decine di servitori sembravano trattenere il fiato per non far rumore.
Il Sultano batté tre volte le mani e, in pochi secondi la stanza si svuotò; rimanevano solo il Sultano, Fermo, Serna, il Visir con il suo giannizzero e quattro soldati di guardia alla porta.
“Allora?”
“Quel Djinn si sta divertendo alle tue spalle. Ti ha raccontato un mucchio di frottole per indurti a fare sbagli colossali.”
“Un Djinn non può mentire al proprietario della sua dimora. Lo sanno tutti!”
“Ci sono tanti modi di mentire”, insistette Serna con un lieve sorriso, “e i due modi “artistici” di mentire sono a disposizione anche di un Djinn che parla al suo “padrone”.”
“E quali sarebbero questi modi “artistici” di mentire?”
Il Sultano, che aveva ascoltato in silenzio, divenne rosso in volto e riuscì a stento ad articolare uno strozzato: “Cosa dici, strega?”
“Maga, se non ti dispiace”, gli rispose Serna tranquilla mentre il Visir lottava per celare la sua agitazione, “sto dicendo solo la verità, oh Sultano.”
“Ma il tesoro?”
“Ma il Djinn ha detto chiaramente che, rimanendo sul grande fiume non sarebbero incorsi nell’ira degli Dei!”
“Quella è la parte vera, che serve a sviare la mente da quello che non viene detto.”
“Cos’è che non ha detto?”
“Circa a metà del tragitto il grande fiume si allarga e ci sono sei secche una dopo l’altra; è bastato che la barca sfiorasse la sabbia del fondo per “toccar terra” nel Continente Proibito. Nessuno è stato risparmiato.”
“Mi porti ben tristi notizie, maga”, disse il Sultano improvvisamente abbattuto.
Poi lo colse un dubbio e chiese, guardando dritto negli occhi Serna: “Saresti disposta a giurare davanti a Isto?”
Lei sorrise con il sorriso più dolce e sincero che riuscì a trovare:
Il Sultano soppesò Serna con un’espressione decisa, ma senza più bellicosità: “Ti credo, maga, ma devo avere l’assoluta certezza di non sbagliare ancora una volta. Ti prego di venire domattina alla colonna di Isto. Sarò lì ad aspettarti.”
La via del ritorno
Durante la strada del ritorno il Visir, evidentemente a disagio, disse a Serna: “Sono in debito con te, hai taciuto la mia responsabilità nel fallimento della missione. Te ne sono grato.”
Serna lo squadrò con il sorriso sulle labbra, ma occhi terribilmente seri: “Non mi è ancora del tutto chiaro perché tu ti sia affannato tanto a contrastare una missione già votata al fallimento. Quel che ha fatto il tuo uomo, se ha avuto un qualche effetto, è stato solo affrettare la fine. Non ho mentito al Sultano; ho solo omesso un particolare ininfluente.”
Vedendo che il Visir sobbalzava sotto la sferza di quelle parole, Fermo mise una mano sulla spalla della maga e si lasciò sfuggire un moto di sorpresa perché la sua mano incontrò la nuda pelle là dove gli occhi gli dicevano esserci un arabesco di campanellini.
La risata argentina di Serna allentò istantaneamente la tensione: “Quest’abito è fatto della stessa sostanza dei Djinn. Lo puoi vedere, ma non lo puoi toccare. Fammi spazio sotto il tuo mantello, che comincio ad aver freddo.”
“Riconosco che a cose fatte possa sembrare una mossa inutile”, riprese il Visir, “ma prima sembrava veramente che l’impresa potesse riuscire. Quel Djinn aveva troppo ascendente sul nostro Sultano; non poteva venirne nulla di buono, ma non sono riuscito a convincerlo.”
“Capisco”, disse Serna, anche se non era del tutto convinta.
Dopo qualche minuto di silenzio, rotto solo dal rumore degli zoccoli sulla strada e dal cigolio delle ruote, il Visir chiese: “Hai parlato di due modi “artistici” di mentire, ma poi ne hai citato uno solo; quale sarebbe l’altro?”
La Colonna di Isto
Il giannizzero li guidò in un dedalo di viuzze affollate sulle quali si aprivano le porte di botteghe che vendevano merci di tutti i tipi. La figura paludata di nero fendeva la folla senza toccarla, tutti si ritraevano al suo passaggio, Serna e Fermo lo seguivano dappresso, un po’ per sfruttare il varco e un po’ per paura di perderlo di vista nella calca.
La colonna sorgeva in una piazzetta circolare lastricata di marmo bianco. Usciva da un foro ed era composta da tamburi di pietra beige scanalati. Sembrava vecchissima, anche a confronto con il resto della piazza che, come da tradizione fenaraba, non era particolarmente nuova o ben tenuta.
Il Sultano era già lì, con due soldati in divisa blu.
La piazzetta era quasi deserta, a differenza dei vicoli che vi giungevano.
Appena arrivarono il Sultano si volse verso la colonna e cominciò l’invocazione: “Oh potente Djinn, intercedi presso il grande Isto per noi. Abbiamo bisogno della sua saggezza!”
Da uno dei fori che butteravano la superficie della colonna uscì una nuvola azzurra che si coagulò nella forma di un vecchio Djinn che torreggiò su di loro; Serna si ritrovò a pensare che, nonostante l’età, la lunga barba bianca e il bastone a cui si appoggiava sembrava più un vecchio guerriero che un sacerdote di Isto.
“A volte l’apparenza inganna”, le disse il Djinn come le avesse letto nel pensiero, poi si rivolse al Sultano: “So perché sei qui, Sultano e posso dirti che questa maga ha detto essenzialmente il vero. Non c’è bisogno di scomodare Isto.”
Le spalle del Sultano crollarono sotto il peso di quella rivelazione.
Un campanellino prese a trillare insistentemente nella testa di Serna che, quasi prima di rendersi conto di quello che stava facendo si avvicinò al Djinn tenendo ben stretto il suo Amuleto: “Dove ho sbagliato Djinn di Isto? Chi è sopravvissuto?”
Il Djinn sorrise e si fece da parte dicendo: “Spero che tu non abbia a pentirti del tuo coraggio, figliola.”
Al suo posto apparve la figura del Dio ammantata di viola:
Si rivolse quindi direttamente al Sultano:
“Dov’è? Come posso raggiungerlo?” Chiese il Sultano rosso in volto.
Il Sultano stava per dire che avrebbe guidato personalmente un esercito, pur di ritrovare il suo primogenito, ma incrociò lo sguardo freddo del Dio e si rese conto che sarebbe stato un altro grosso errore.
“Volete fare questa ricerca per me? Qualunque cosa vogliate è a vostra disposizione”, chiese direttamente a Serna con la voce più umile che riuscì a trovare.
La Maga sorrise:
Si rivolse quindi ad Isto, che fece un cenno di approvazione: “Puoi darmi qualche altra indicazione?”
Detto questo, Isto scomparve e il Djinn riprese il suo posto a fianco della colonna.
“Dove dobbiamo andare?” gli chiese Serna.
Il Djinn la guardò fisso inclinando la testa di lato: “Davvero non lo sai?”
Il Djinn sorrise: “Io sono incatenato a questa colonna, ma sulla sua cima potrai trovare qualcosa che penso ti sarà utile.”
Serna valutò la colonna, poi fece un cenno al giannizzero che spostò la scimitarra sul dorso perché non lo intralciasse e si inerpicò sulla superficie butterata senza sforzo apparente, esitò un attimo sotto il largo capitello e quindi si issò a forza di braccia sulla sommità.
Raccolse qualcosa e se la infilò sotto la giubba.
Si calò cautamente dal capitello fino a che non rimase appeso per una mano, usò l’altra per avvicinarsi al fusto, dopo di che fu a terra in pochi secondi.
L’oggetto che aveva trovato era una piccola riproduzione della colonna stessa, alta un palmo in tutto.
Serna la tenne in mano, facendo attenzione a non capovolgerla.
“Grazie”, disse al Djinn.
“O forse dovrei dire: grazie!” proseguì poi rivolta alla colonnina.
Una minuscola immagine del Djinn uscì dalla colonna in miniatura.
Non c’era altro da dire, per il momento, e il tempo stringeva. Serna promise al Sultano di informarlo sui preparativi e la piccola riunione si sciolse, si girarono per salutare il Djinn, ma quello era già scomparso.
Usciti dal dedalo di viuzze del mercato trovarono il solito carro ad aspettarli.
“Ora so perché i tuoi uomini ti chiamano “il geco””, disse Serna al giannizzero, “ma non conosco il tuo nome, o devo chiamarti “Geco” anch’io?”
Gli occhi del Geco ebbero un guizzo divertito “Hai buone orecchie, maga. Il mio nome è Sindehajad, ma puoi tranquillamente chiamarmi “Geco” anche tu, come tutti gli altri.”
“Ti piacerebbe venire con noi alla ricerca del principe?”
“Andrò ovunque il mio Signore, il Visir, mi chiederà di andare.”
“Questo lo so. La domanda era se ti piacerebbe venire con noi. Abbiamo bisogno di qualcuno che conosca bene questi posti e, dopo quello che ci hanno detto Isto e il suo Djinn, non oso chiedere aiuto al Sultano.”
Il giannizzero soppesò la domanda per qualche secondo.
“Conoscevo bene il Principe, era una brava persona. Potendo, non sarebbe andato in quella missione blasfema. Sì, penso mi piacerebbe dare una mano a riportarlo indietro.”
Serna lo guardò fisso con gli occhi che parevano due spilli:
Dopo un primo momento di sconcerto gli occhi del giannizzero presero un’espressione genuinamente divertita: “Posso conoscere tuo padre, maga?”
Ora era il turno di Serna a sentirsi sconcertata:
“Volevo chiedergli la tua mano, maga”, rispose lui con la massima serietà.
Serna mise una mano sul braccio di Fermo che si era irrigidito e aveva portato la mano al pugnale, poi rispose con molta dolcezza: “I nostri costumi sono molto diversi, Sindehajad. Sono solo io che decido a chi deve andare il mio cuore, e il mio cuore è già impegnato. Mio padre non si sognerebbe mai di impormi una scelta diversa.”