Il Naufrago

Era una settimana che lo scirocco flagellava la costa e le onde si frangevano sugli scogli che riparavano il golfo.
Serna non ricordava una tempesta così violenta e così lunga. Non sembrava avesse la minima intenzione di calmarsi.

Il suo Amuleto cominciò a pulsare di luce verde: “Mamma, sei tu?” Chiese, ma con sua sorpresa apparve invece il volto di Nenco, il sacerdote di Asclep in Gena.
“Che posso fare per te, Nenco?”
“Abbiamo un problema e il Granduca gradirebbe il tuo intervento. Potresti venire subito?”
Rimase interdetta sia per il tono formale che per la chiara sottolineatura vocale piazzata sotto la parola “subito”, ma rispose senza far altri commenti: “Certamente. Sarò lì appena possibile. Palazzo ducale, vero?”
Nenco si limitò ad annuire, mormorò un: “Grazie” e scomparve.

Non erano passati cinque minuti che Serna, imbacuccata nel mantello per proteggersi da vento e pioggia, lanciava il calesse al galoppo sulla strada per Gena.

Arrivò al palazzo ducale che era già notte fonda, ma la stavano aspettando.
Non ebbe bisogno di bussare perché il portone si spalancò al suo avvicinarsi e due servitori l’aiutarono a scendere.
Fermo era lì accanto ad aspettarla, la prese per mano e disse eccitato: “Vieni, non c’è un momento da perdere”, poi la guardò meglio e si corresse, “forse è meglio che ti riposi un po’ prima.”
“Devo essere un vero disastro”, pensò Serna mentre si sforzava di sorridere, “Meglio di no, altrimenti sprechiamo tutta la fatica che ho fatto per sbrigarmi.”
“Va bene, ma prendi questo, che almeno è asciutto”, le disse Fermo porgendole il suo mantello.
Lei si lasciò cullare per una frazione di secondo nel tepore, poi si avviò con passo deciso verso lo scalone.
Fermo disse ad uno dei servitori:

La stanza era riscaldatissima e vi troneggiava un grosso letto a baldacchino.
Lì accanto Nenco stava chino con aria sconsolata.
“Non so quanto possa resistere ancora”, disse facendo cenno a Serna di avvicinarsi, “Sono riuscito a fermare l’emorragia interna, ma ha perso molto sangue e ha una bella polmonite. Credo sia rimasto in acqua per giorni.”

Serna lanciò un’occhiata interrogativa a Fermo.
Quell’uomo non era certo uno dei marinai del granducato. Aveva la pelle scura più di quella dei mercanti del sud e i capelli crespi tagliati cortissimi formavano una specie di cappuccio di feltro sul suo cranio.

“La tempesta lo ha portato quasi nel porto”, le spiegò Fermo,

Serna era perplessa. Un naufrago da terre lontane è una cosa ben rara, ma che c’entrava lei? Perché l’avevano chiamata con tanta urgenza? Non che le dispiacesse rivedere Fermo, ma decisamente le sfuggiva qualcosa.

Fermo, la cui impulsività cominciava ad esser mitigata dai suoi studi da futuro Granduca, se ne accorse: “Per ora lo sappiamo solo io, mio padre, Nenco e il guardiano del faro di levante che lo ha raccolto”, fece una leggera pausa per far capire bene che si trattava di rivelazioni che dovevano rimanere riservate, “da quel poco che ha detto nei suoi deliri sembra che fossero alla ricerca di un favoloso tesoro, ma hanno trovato la tempesta sul loro cammino.”

In quel momento entrò un’attempata fantesca con una bracciata di abiti asciutti: “Venga, Signoria, ho preparato un bagno nella stanza accanto. Pensa che questi possano andare bene? Non ho trovato altro della misura giusta!”

Serna si lasciò condurre nella stanza accanto, felice di potersi togliere i vestiti fradici e di avere qualche minuto per riflettere.

Il “bagno” si rivelò essere solo una spugnatura con asciugamani caldi e profumati, ma fece il suo servizio egualmente. Quando rientrò al capezzale del moribondo, con una tazza di brodo caldo in mano, si sentiva decisamente molto meglio.

“Non credi che sia il caso di dirmi tutto, Fermo? Dovresti sapere che ti puoi fidare.”
Lui si avvicinò a un tavolino coperto da uno spesso panno bianco: “Guarda cos’aveva in tasca”, disse scostandolo.

Apparve uno strano assortimento di oggetti.
Quello che attirava subito l’attenzione erano alcuni splendidi gioielli d’oro con pietre incastonate. Erano enormi. Ne prese uno in mano. Era d’oro massiccio. Dovevano valere una fortuna anche senza contare la splendida fattura, nonostante sembrassero molto usati. Anche le grosse monete d’oro avevano l’aria di essere passate per parecchie mani, prima di finire su quel tavolino.
Un cannocchiale in madreperla e un piccolo rocchetto nero con due anelli di ottone completavano la collezione.

Ce n’era abbastanza da giustificare la curiosità del Granduca.

“Il mio Amuleto è riuscito a tradurre qualcuna delle frasi che ha farfugliato nel delirio”, spiegò Nenco, “è così che abbiamo saputo del tesoro e del naufragio.”

“Conosci la lingua?” Chiese Serna al suo Amuleto.
“Sì.”
“Analizza il flusso di coscienza, traduci e registra tutto.”
L’Amuleto si accese di una luce brillante e cominciò ad emettere un sussurro smozzicato assolutamente incomprensibile.

“Che stai facendo?” Chiese Fermo.

“Il Visir deve sapere! La missione è andata a buon fine. Maledetta tempesta. Devo resistere. Ricompensa. Duliana. Bella. Mia. Devo tornare dal Visir. Quel bellimbusto del principe ha fatto la fine che meritava. Abbiamo vinto. Devo resistere.”

Serna rimase ad ascoltare per qualche minuto, poi cominciò a suggerire, con l’Amuleto a far da interprete: “Che devo dire al Visir?”

“Tutto è andato secondo i piani, oh mio signore! La missione del Principe è fallita prima di iniziare. Secondo i piani? Tranne questa stramaledetta tempesta. Sembra che Posse voglia distruggerci. Ma non si è mai fatto vedere. Devo resistere.”

“Ma, il Principe?”

“Come?”

“Ha perso la testa alla prima ondata della tempesta. Maledetta tempesta. Non finirà mai. Devo tornare ad avvertire il Visir.”

L’interrogatorio durò ore, con Serna che cercava di guidare le farneticazioni verso un racconto che avesse una parvenza di filo logico e il moribondo che tornava, come tirato da una molla, alla necessità di resistere per poter fare rapporto a “Visir” e ricevere in premio Duliana.
Ad un certo punto le farneticazioni si fecero incomprensibili e il naufrago scivolò in un sonno senza sogni.