Passi leggeri sull’assito del ponte la fecero tornare al presente.
La spedizione voluta dal Granduca era oramai una realtà da molti mesi e li aveva condotti lontano da casa sull’isola di Trina prima e poi ancora più a sud.
Serna si era dichiarata subito disponibile e aveva partecipato ai preparativi, tanto da trascinarsi dietro una parte della sua famiglia.
Darda era sempre stata mattiniera e questo viaggio sembrava averla ringiovanita di parecchi anni, o forse era la presenza di Agio, ingaggiato come capitano del piccolo vascello che ora stava navigando lungo quella costa bassa e spoglia.
Serna sorrise fra sé e sé: quei due formavano una bella coppia.
Affiatati, sempre a beccarsi, ma sempre con il sorriso sulle labbra. Lui sembrava avere vent’anni più della nonna, anche se era quasi vero il contrario.
Darda entrò senza bussare: “Non riesci a dormire, stamani?”
“Ero un po’ inquieta, poi ho avuto notizie di papà.”
“Che dice? Come si trova con quei Nani?”
“Non dice nulla. Mi ha chiamata direttamente il suo Amuleto.”
Darda spalancò gli occhi allarmata, poi si rilassò: “No, non è in pericolo. Non saresti così tranquilla. Che è successo?”
“Un altro dei giochetti di Thano. Pare che lo abbiano chiuso da qualche parte e deve trovare il modo di uscire da solo. Anche il suo nuovo Amuleto è stato rimosso e non lo può aiutare.”
“Strano tipo quell’Amuleto. Non ne ho mai visti di simili. Di solito si limitano a fare quel che gli chiedi, se glielo chiedi nel modo giusto e ne sono capaci. Questo si prende parecchie iniziative.”;
“Ho cercato di fare ricerche, ma più del fatto che gli Amuleti sono tutti diversi non sono riuscita a sapere.”
“Comunque: ero venuta a dirti che Agio dice che siamo alla fine della nostra navigazione. Ha visto dei fuochi nella notte; siamo fuori dal Continente Proibito.”
“Voglio vedere”, esclamò Serna scattando in piedi.
“Beata gioventù! Aspetta. Non c’è nulla da vedere. Agio ha preso il largo appena ha capito che c’era gente sulla costa. Meglio essere prudenti.”
Avevano lasciato la grande isola di Trina da due settimane oramai e, dopo una breve sosta su un’isola rocciosa senza nome in mezzo al mare non avevano più preso terra. Opia era stata chiarissima: non si doveva mettere piede sulle terre a sud di Trina, pena l’ira degli Dei, di tutti gli Dei.
Il Continente Proibito non sembrava, in realtà molto attraente: una costa bassa, sabbiosa, sulla quale si vedevano solo pochi alberi raggruppati attorno a striminziti torrentelli.
L’unica parte che sembrava fertile e rigogliosa era il grande delta di un fiume che doveva essere veramente poderoso, ma che non videro nemmeno, nascosto com’era da chilometri di paludi verdeggianti infestate da pericolosi animali corazzati forniti di incredibili dentature.
Ora dovevano essere arrivati sulle coste abitate dai Fenarabi, una popolazione di abili navigatori e di mercanti che abitavano le coste sud-orientali del mare.
Erano loro ad aver inviato la disgraziata spedizione che aveva fatto naufragio tanti mesi prima.
Sulle coste sud-orientali dell’isola di Trina avevano incontrato i loro commercianti e anche una piccola colonia stabile; ne avevano approfittato per avere informazioni e imparare un po’ la lingua.
Come emissari del Granduca di Gena, ben conosciuto in Trina, vennero accolti cordialmente, anche se con molta diffidenza e sospetto.
Sicuramente notizia del viaggio del figlio del Granduca e della sua fidanzata era già arrivata fino a ‘Rruth, capitale del sultanato dei Fenarabi.
Arrivarono a ‘Rruth una settimana dopo, appena in tempo: Posse aveva garantito tre settimane di bel tempo ed erano quasi scadute.
Il porto era grande, composto da due parti: un’ampia insenatura con lunghi moli e una darsena interna di forma circolare, con banchine e ricoveri per le navi.
Qui il paesaggio era completamente differente dalle brulle coste che avevano lasciato alle loro spalle; il territorio era collinare e coperto da una fitta vegetazione di alberi d’alto fusto che lasciavano, qua e là, spazio a coltivazioni ben curate.
L’apparizione della loro alta vela aurica, così diversa
dalle loro vele quadre o, al massimo, latine, destò scalpore e il porto si riempì di soldati armati di lunghe lance e di strani archi ricurvi.
Come avevano deciso Agio calò l’ancora ad una certa distanza dal molo, ammainarono le vele e misero in mare una piccola scialuppa.
Agio stesso prese i remi e si diresse direttamente verso il molo dove si trovava quello che doveva essere il capitano della guarnigione del porto.
Arrivato sul molo depose in bella vista un panno di lino ricamato su cui pose due brocche di vetro lavorato contenenti una olio ed una vino e un pugnale ed una spada forgiati dai maestri di cui Gena andava giustamente orgogliosa.
Prima di tornare alla sua barca e vogare fino alla nave senza guardarsi indietro disse, in un fenarabo stentato, ma perfettamente comprensibile: “Questi sono doni per il vostro Visir ed esempi delle merci che Gena può commerciare. Se siete interessati sarò qui domattina.”