14: Ritorno

La tempesta

La navigazione procedeva senza incidenti da tre giorni e si trovavano in prossimità del grande delta.
Il fiume era ampio e la corrente regolare.
Non c’era molto da fare a bordo, tranne aspettare e preoccuparsi.

Fu il Geco, nel calore del pomeriggio, a vedere per primo il cambiamento nel cielo: “Sta arrivando”, disse semplicemente indicando verso sud.

Nessuno chiese che cosa stesse arrivando, ma molti si chiesero che cosa avesse visto.
Serna fece la domanda e il Geco le indicò una sottile linea all’orizzonte. Il cielo, da azzurro stava diventando giallo.
Per parecchio tempo la linea rimase quasi immobile, poi, piano piano, cominciò ad alzarsi, come una tenda che sale dal basso prendendo velocità e vigore.

Agio stava osservando le ripe alberate dell’ansa che stavano percorrendo. La sua testa si muoveva a scatti, come quella di un uccello preoccupato. Poi trovò quel che cercava e si appoggiò pesantemente al timone facendo piegare la piccola nave e sorprendendo gli altri che stavano con gli occhi al cielo.

“Ehi, Geco, te la senti di rifare il numero della scimmia?” Chiese sorridendo e indicando un grande albero che faceva ombra sull’acqua.

Sindehajad seguì il suo sguardo, valutò la chioma per una frazione di secondo, poi annuì senza parlare.

“Prendi la cima di prua e legala saldamente”, gli disse Agio mentre correggeva ancora la rotta, “Non avremo molto tempo per aggiustamenti.”

Il Geco afferrò il rotolo di robusto canapo che Agio gli indicava e si inerpicò su per l’albero come un lampo.

La tempesta di sabbia, intanto, era quasi su di loro e la linea che divideva l’azzurro dal giallo avanzante si era fatta meno netta, ma era oramai quasi sopra le loro teste.

L’albero correva loro incontro e il Geco non aveva occhi per altro: aveva scelto un ramo e su quel ramo aveva già lanciato il suo cuore, ora doveva andare a riprenderselo.

Agio fece virare bruscamente la barca spedendo la vela sui rami, a rischio di lacerarla. Il giannizzero descrisse un breve arco e andò ad atterrare su un piccolo ramo che si piegò pericolosamente sotto il suo peso, il geco lo usò come fosse un trampolino per lanciarsi verso un’altra biforcazione solida a sufficienza per ancorare la nave.

“Ammainate le vele”, urlò Agio ancora prima che il Geco avesse finito di annodare la cima d’ormeggio.
Pochi secondi dopo la cima si tendeva piegando il ramo e facendo scricchiolare pericolosamente le gallocce a cui era fissata a bordo.
I rami più piccoli già si agitavano impazziti alle prime folate di un vento caldo e prepotente. Non c’era più tempo: la tempesta era arrivata.

Sindehajad stava scendendo lungo il canapo per riguadagnare la barca quando Serna corse verso la murata e afferrò una cima arrotolata; in quel momento un grosso tronco, portato dalla corrente, urtava la prua della nave facendola sobbalzare e provocando un sonoro schiocco sul cavo d’ormeggio che, fortunatamente, tenne.
Il Geco fu meno fortunato e lo strattone gli fece perdere la presa.
Non aveva ancora toccato l’acqua che la cima che Serna aveva in mano volava verso di lui.

“Datemi una mano!” gridò la maga mentre Sindehajad si avvolgeva la corda attorno al polso sinistro, cercando al contempo di nuotare con la destra.
In un istante era di nuovo a bordo: “Ti devo la mia vita, Maga”, le disse guardandola negli occhi.

Cantare l’Om

Erano rintanati sotto coperta, ad ascoltare il vento che fischiava fra sartie e manovre e a preoccuparsi senza poter far nulla.

Serna stava pensando a suo padre e a come doveva essersi sentito in quella famosa botte sul Rin.

“Come sapevi che sarei finito in acqua?” Le chiese a bruciapelo il Geco.
Lei lo guardò lottando per tornare al presente:
“Ma ti sei mossa ben prima che succedesse. Ti ho vista molto bene!”
Serna abbassò gli occhi a disagio: “A volte faccio delle cose senza sapere esattamente quello che sto facendo. Quando ho visto quel tronco sono schizzata verso la murata e ho preso quella cima; sapevo che era importante, ma ho capito cosa dovessi farci solo quando ti ho visto cadere.”

Sul tavolino il Djinn di Isto stava sospeso ad un palmo dalla superficie, in una curiosa posizione, con le gambe intrecciate, le braccia leggermente aperte lungo i fianchi e gli occhi chiusi. L’aura violetta sembrava vibrare assieme al ronzio profondo che emetteva.
Durò un tempo apparentemente molto lungo, ma che non doveva superare il minuto.

Verso ‘Rruth

Quando, a Zeo piacendo, la tempesta si placò e loro poterono uscire trovarono il ponte coperto da uno spesso strato di sabbia finissima.

Agio stava per aprire il boccaporto quando Serna lo bloccò con un grido improvviso.

Il Djinn di Isto si mise a ridere fragorosamente: “Brava”, disse battendo le mani con le lacrime agli occhi, “Mi hai fatto vincere una bella scommessa! Non credeva ci avresti pensato!”

Fermo rimase imbambolato: “Pensato a cosa? Scommessa?”
“Che quella è terra del Continente Proibito e, forse, non è il caso di camminarci sopra”, gli rispose Sindehajad, mentre Serna aspettava pazientemente che il Djinn smettesse di ridere e si spiegasse.

“Non c’è problema. Isto dice che potete tranquillamente toccare la sabbia portata dal vento. A volte la sabbia del Continente arriva fino a ‘Rruth, anzi a volte, quella più fine, cavalca i venti fino in Ligu e oltre. Toccandola non incorrerete nell’ira degli Dei. Parola di Isto”, le ultime parole le disse con un tono formale e senza la minima ironia.

Serna tirò un sospiro di sollievo mentre tutti sciamavano fuori per controllare se la nave avesse subito danni. Stava per uscire anche lei, ma si girò e chiese al Djinn: “Con chi avevi scommesso?”
La risposta la lasciò basita anche se, in fondo, se l’aspettava.