La navigazione procedeva senza incidenti da tre giorni e si trovavano in prossimità del grande delta.
Il fiume era ampio e la corrente regolare.
Non c’era molto da fare a bordo, tranne aspettare e preoccuparsi.
Fu il Geco, nel calore del pomeriggio, a vedere per primo il cambiamento nel cielo: “Sta arrivando”, disse semplicemente indicando verso sud.
Nessuno chiese che cosa stesse arrivando, ma molti si chiesero che cosa avesse visto.
Serna fece la domanda e il Geco le indicò una sottile linea all’orizzonte. Il cielo, da azzurro stava diventando giallo.
Per parecchio tempo la linea rimase quasi immobile, poi, piano piano, cominciò ad alzarsi, come una tenda che sale dal basso prendendo velocità e vigore.
Agio stava osservando le ripe alberate dell’ansa che stavano percorrendo. La sua testa si muoveva a scatti, come quella di un uccello preoccupato. Poi trovò quel che cercava e si appoggiò pesantemente al timone facendo piegare la piccola nave e sorprendendo gli altri che stavano con gli occhi al cielo.
“Ehi, Geco, te la senti di rifare il numero della scimmia?” Chiese sorridendo e indicando un grande albero che faceva ombra sull’acqua.
Sindehajad seguì il suo sguardo, valutò la chioma per una frazione di secondo, poi annuì senza parlare.
“Prendi la cima di prua e legala saldamente”, gli disse Agio mentre correggeva ancora la rotta, “Non avremo molto tempo per aggiustamenti.”
Il Geco afferrò il rotolo di robusto canapo che Agio gli indicava e si inerpicò su per l’albero come un lampo.
La tempesta di sabbia, intanto, era quasi su di loro e la linea che divideva l’azzurro dal giallo avanzante si era fatta meno netta, ma era oramai quasi sopra le loro teste.
L’albero correva loro incontro e il Geco non aveva occhi per altro: aveva scelto un ramo e su quel ramo aveva già lanciato il suo cuore, ora doveva andare a riprenderselo.
Agio fece virare bruscamente la barca spedendo la vela sui rami, a rischio di lacerarla. Il giannizzero descrisse un breve arco e andò ad atterrare su un piccolo ramo che si piegò pericolosamente sotto il suo peso, il geco lo usò come fosse un trampolino per lanciarsi verso un’altra biforcazione solida a sufficienza per ancorare la nave.
“Ammainate le vele”, urlò Agio ancora prima che il Geco avesse finito di annodare la cima d’ormeggio.
Pochi secondi dopo la cima si tendeva piegando il ramo e facendo scricchiolare pericolosamente le gallocce a cui era fissata a bordo.
I rami più piccoli già si agitavano impazziti alle prime folate di un vento caldo e prepotente. Non c’era più tempo: la tempesta era arrivata.
Sindehajad stava scendendo lungo il canapo per riguadagnare la barca quando Serna corse verso la murata e afferrò una cima arrotolata; in quel momento un grosso tronco, portato dalla corrente, urtava la prua della nave facendola sobbalzare e provocando un sonoro schiocco sul cavo d’ormeggio che, fortunatamente, tenne.
Il Geco fu meno fortunato e lo strattone gli fece perdere la presa.
Non aveva ancora toccato l’acqua che la cima che Serna aveva in mano volava verso di lui.
“Datemi una mano!” gridò la maga mentre Sindehajad si avvolgeva la corda attorno al polso sinistro, cercando al contempo di nuotare con la destra.
In un istante era di nuovo a bordo: “Ti devo la mia vita, Maga”, le disse guardandola negli occhi.