La piana
Dalla cima di quella piccola cresta rocciosa lo sguardo di Jona poteva spaziare per molti chilometri attorno.
A est si vedeva la grande montagna bianca di Nayokka, mentre a ovest si vedevano in lontananza le montagne che racchiudevano le Grandi Pianure.
Verso sud, invece, c’era un vasto pianoro dolcemente ondulato tra i monti e il mare.
Da qualche parte, in quella direzione, si trovava la sua prossima meta.
“Washington era la capitale di una delle due nazioni più importanti degli antichi. L’altra è troppo lontana anche solo per pensare di andarci. Se gli Dei hanno permesso che qualcosa restasse potrei trovare qualche indizio sulla fine degli antichi.”
“Ho le coordinate di quel posto.”
“Quanto dista, esattamente?”
“Sono quasi cinquecento chilometri, almeno due settimane di cammino, direi.”
Jona lanciò un’occhiata verso la città dei Nani, ma sapeva bene che non era il caso nemmeno di pensarci: Il vagone lo aveva portato fuori da tutti i terreni coltivati e da tutte le zone frequentate dai carri dei Nani; pensare si trattasse di un caso sarebbe stata un’ingenuità imperdonabile. Era solo.
“Pressappoco”, confermò l’Amuleto mostrando la mappa aerea.
Jona guardò con occhio critico la serie di fiumi che gli tagliavano la strada, scendendo dalle montagne verso il mare: “Come faccio ad attraversare questi fiumi?”
“In generale non sono molto grandi. Ci sono guadi che puoi utilizzare.”
“Ripari lungo la strada? Pericoli?”
“Fino a Washington ci sono solo alberi che puoi usare come riparo.”
“Ingrandisci qui”, disse Jona indicando una strana formazione vicino al punto di arrivo.
Un grande edificio in perfette condizioni, circondato da vecchi ruderi, gli balzò incontro e lui seppe istantaneamente che doveva andare a visitarlo.
Stava già preparandosi a partire quando si rese conto che mancava qualcosa: “Non mi hai risposto. Ci sono pericoli?”
“Pericoli ce ne sono dappertutto, e lo sai.”
“Va bene. Giochiamo pure agli indovinelli. Ci sono animali pericolosi?”
“Ci sono dei grossi animali, ma i più grandi sono erbivori.”
Oramai Jona aveva capito che c’erano dei pericoli gravi e che l’Amuleto non poteva rivelarne la natura senza una domanda diretta.
“Anche gli erbivori possono essere pericolosi e anche animali relativamente piccoli possono farmi a pezzi; basta un branco di lupi.”
“Lupi non ce ne sono, ma hai perfettamente ragione: ci sono anche erbivori pericolosi, ma non credo ce ne siano da queste parti.”
Il Mago si stava innervosendo, ma sapeva bene che era del tutto inutile prendersela con l’Amuleto che doveva aver ricevuto istruzioni precise.
“Puoi farmi vedere questi grossi erbivori non pericolosi?”
L’Occhio di Lince apparve davanti a lui inquadrando un boschetto lontano diversi chilometri.
Per qualche istante vide solo gli alberi agitati da un forte vento, poi mise a fuoco gli enormi animali che stavano brucando gli alberi. Erano incredibilmente grandi, anche al confronto con le piante sicuramente non piccole.
“Diplodocus?”
“Qualcosa del genere.”
“Ma al museo era chiaramente detto che si sono estinti da centinaia di migliaia di anni!”
L’Amuleto rimase zitto.
“Anche gli esseri umani, se devo credere a quanto ho appreso, si sono estinti, ma siamo di nuovo qui. Di chi è opera tutto questo?”
“Dana ha riportato in vita molte specie che si erano estinte. Dice di voler dar loro una seconda possibilità.”
Jona scavò nella memoria per ripescare i nomi di quei giganti dei quali il museo conservava le ossa fossilizzate. Aveva ben presente quel mostro pieno di denti che troneggiava vicino al Diplodoco: “Allosauri, T.Rex?”
“Entrambi presenti, ma molto rari e non credo ce ne siano da queste parti.”
“Devo farti l’elenco di tutti i dinosauri carnivori che conosco o puoi dirmi chi sono quelli presenti da queste parti?”
“Bambiraptors”
Jona frugò nella memoria, contento di aver “sprecato” diversi giorni a studiare quegli esseri che riteneva definitivamente estinti. Si trattava di animali relativamente piccoli che cacciavano in branco, come i lupi.
“Come faccio ad evitarli?”
“Io ti posso dire dove sono, ma si spostano abbastanza velocemente.”
Sulla mappa comparvero alcuni sciami di puntini verdi, molto distanti fra loro.
“Altri predatori? Serpenti? Mammiferi?”
“Non qui attorno. Posso farli comparire sulla mappa, se dovessimo incontrarne.”
Jona rimase un momento a pensare, poi chiese esplicitamente: “Tu non puoi suggerirmi pericoli e, presumibilmente, neppure quali sono i posti che devo visitare, ma, una volta che ho capito, più o meno, puoi aiutarmi ad evitare pericoli e raggiungere posti? O devo chiederti le cose tutte le volte?”
“Ho un elenco preciso delle cose che non ti posso dire, né direttamente né indirettamente finché non ci sei arrivato vicino da solo. Per tutto il resto sono libero di fare come mi pare meglio.”
“”Meglio” per che cosa? Qual è il tuo compito in tutto questo?”
“Non l’hai ancora capito?”
“Se lo dico puoi confermare?”
“Sì.”
Jona raccolse le idee: “Ci sono almeno tre aspetti”, disse poi contando sulle dita, “prima di tutto devi impedirmi di morire inutilmente in incidenti banali, come hai fatto quando mi hai detto di abbandonare la botte prima che affondasse; Thano vuole rendermi la Caccia difficile, ma non impossibile; una singola distrazione può significare la fine di tutto.”
“Secondo: mi pare di capire che gli Dei — non necessariamente Thano — Vogliono che io faccia qualcosa per loro, ma non sono pronto; tu devi guidarmi nella ricerca e garantire che io abbia imparato quel che serve.”
Il Mago esitò a lungo con il terzo dito alzato: “Il terzo, in realtà, non lo so. Sento che c’è qualcos’altro e che, con ogni probabilità, coinvolge Serna, ma non riesco a capire che cosa sia.”
“Per ora accontentati di quello che hai capito”, gli rispose l’Amuleto.
“La prossima destinazione è Washington, vero?”
“Mettiamo subito in chiaro una cosa: a questo genere di domande non risponderò mai.”
“Perché?”
“Perché non voglio neppure correre il rischio che tu prenda l’abitudine di elencare tutte le alternative per farti dire da me qual è quella giusta.”
“Capito. Vediamo se puoi rispondere a questa: Vorrei partire per Washington al più presto. C’è qualche motivo per non andare ora?”
“No, che io sappia.”
Jona si allacciò lo zaino e afferrò il bastone: “Andiamo, allora, per prima cosa verso quel boschetto di agrumi, poi verso sud cercando di evitare i pericoli. Fai strada.”
Verso Washington D.C.
Il boschetto di agrumi era composto, per la maggior parte da arance amare e cedri pressoché immangiabili, ma i due aranci dolci che trovò avevano ancora abbastanza frutti da riempire lo zaino, dopo aver riempito lo stomaco.
Passò a rispettosa distanza dal branco di una ventina di giganteschi diplodochi che non sembrarono accorgersi della sua presenza e continuarono a brucare metodicamente le foglie degli alberi muovendo solo il lungo collo.
La sera cercava un rifugio sulle biforcazioni delle grandi querce che costituivano buona parte della vegetazione, ben sapendo che nessuno degli animali che frequentavano quella parte del mondo era in grado di arrampicarsi.
Naturalmente i diplodochi non avevano nessun bisogno di arrampicarsi, per raggiungerlo, ma non ne avevano neppure il motivo e poi si spostavano lentamente spogliando metodicamente gli alberi dalle loro tenere foglie primaverili.
Durante le lunghe ore di cammino Jona e l’Amuleto parlavano incessantemente degli argomenti più vari, guidati dall’innata curiosità del Mago che, pur essendo oramai bisnonno, conservava gelosamente l’ingenuità di un bambino.
“Se ricordo bene l’enciclopedia diceva che quasi tutti questi erbivori si nutrivano di felci e di equiseti, che qui non vedo.”
“Vero. A quanto mi risulta alcuni di essi si sono estinti proprio perché le piante che mangiavano sono diventate rare. Non conosco i particolari, ma credo che Dana abbia fatto qualche cambiamento.”
“Magari, già che c’era li ha anche resi un po’ più intelligenti? Ho letto che erano veramente stupidi.”
“Non credo che la Dea si sia avventurata in quel territorio. Non è facile. Hai mai pensato, seriamente, a che cosa significa modificare un animale?”
“Che vuoi dire? Per cambiare un animale o una pianta basta modificare il suo codice genetico. Gli Elfi lo fanno tutti i giorni, Asclep permettendo.”
“Come pensavo. Non ci hai mai pensato davvero.”
Jona guardò l’Amuleto abbastanza stizzito; va bene che non ne sapeva quanto gli Elfi, ma di biologia e genetica aveva qualcosa di più di un’infarinatura, e ne andava orgoglioso: “Nei cromosomi, codificati con le triplette di basi, ci sono informazioni per costruire tutto l’organismo. Su questo Asclep è stato molto chiaro.”
“Sì, ma stai semplificando talmente che ti perdi i punti essenziali.”
“Che sarebbero?”
“Che cosa codificano, esattamente, la sequenze di basi?”
“Non si risponde ad una domanda con un’altra domanda!”
“Beh, visto che stiamo facendo i Peripatetici tanto vale che usiamo anche il metodo socratico, non ti pare?”
“Peripatetici? Metodo socratico? Di che stai parlando?”
“I peripatetici erano gente che amava discutere di cose serie passeggiando in giardino, come stiamo facendo noi, e per quanto riguarda il metodo Socratico, che loro spesso utilizzavano, beh, l’aveva inventato un certo Socrate.”
“Non mi dire! Chi ci avrebbe mai pensato? E in che cosa consisteva, di grazia?”
“Se vuoi poi ti puoi leggere un sacco di cose su Socrate, Platone, Aristotele e la scuola peripatetica, ma adesso andiamo avanti e facciamo a modo mio, almeno per un po’. Dicevamo: Che cosa codificano, esattamente, la sequenze di basi?”
Jona prese mentalmente nota di scavare nell’argomento, ma stette al gioco: “Codificano le sequenze di aminoacidi che costituiscono una proteina. Ci sono anche sezioni di controllo che indicano quando costruire la proteina.”
“Essenzialmente giusto, anche se semplificato; le sezioni di controllo, in realtà, sono parti dove si legano altre proteine che inibiscono la replicazione.”
“Lo so, tutto è sempre più complicato. Se devo specificare non finiamo più!”
“Perché, ti sei già stufato? Abbiamo giorni di cammino davanti.”
“Magari sarebbe il caso di pensare alla cena.”
“Di quella non ti preoccupare. Ho già visto una cosa che credo ti piacerà. Quello che stavo cercando di spiegarti è che, a furia di semplificare, si finisce per perdere di vista l’effettiva complessità del tutto. Proviamo in quest’altro modo: Che differenza c’è tra la tua mano chiusa a pugno e un martello?”
“Che una è attaccata al mio braccio e l’altro no?”
“Vero, ma non è una differenza essenziale; puoi staccare un braccio e quello rimarrà sempre fondamentalmente diverso da un martello.”
“Le differenze sono tante. Uno e di carne e osso, l’altro di legno e ferro.”
“Ma uno è una cosa naturale e l’altro è una cosa artificiale.”
“Ci stiamo avvicinando. Come fai a dire che il maglione è artificiale?”
“Oh, bella! Ho visto filar lana e sferruzzare fin da quando ero bambino.”
“Vuoi dirmi che, se non avessi mai visto fare un maglione, potresti pensare che il maglione è una cosa naturale? Che cresce sugli alberi?”
“Naturalmente no.”
“Perché no? Che hanno di diverso?”
“Si vede che uno è stato fatto da qualcuno e l’altro è cresciuto così. Nulla si arrotolerebbe su se stesso come un filo di lana ritorto.”
“Hai mai visto i viticci?”
“Che c’entra? I viticci si attorcigliano da soli.”
“E la lana no?”
“Mi stai prendendo in giro? Sai benissimo che i viticci, come i capelli ricci, si avvolgono su se stessi per il gioco delle fibre interne, mentre li filo di lana viene ritorto da forze esterne.”
“Quindi è questa la differenza fra le cose naturali e quelle artificiali? Le une sono il prodotto delle forze interne e le altre di quelle esterne?”
Jona ci pensò ancora un momento, prima di rispondere: “Sì, penso di sì.”
“E questo vale a tutti i livelli? O solo a livello macroscopico?”
Altra esitazione mentre cercava di ricordare i particolari: “Sì, penso che valga a tutti i livelli. Sicuramente le proteine, di cui si parlava prima, si ripiegano da sole nella configurazione più stabile, senza che nessuno le “metta in piega”.”
Le proteine erano già abbastanza complicate, costruirle in modo che buttate alla rinfusa si assemblassero in strutture precise era ancora più complicato, ma far sì che queste strutture si unissero fra loro per formare una cellula
Alcune cose erano “facili”, come cambiare un colore, semplicemente producendo o meno un certo pigmento o avere una statura più alta “semplicemente” producendo più ormone della crescita, globalmente. Ma che proteina bisognava cambiare per avere gli zigomi sporgenti? Quale proteina, o quale gruppo di proteine facevano sì che noi abbiamo cinque dita nelle mani?
“No, non è possibile, non può essere così complesso”, sbottò dopo circa un chilometro.
“Ma come funziona? Cosa fanno davvero gli Elfi?”
“Con le piante è molto più semplice, visto che gli homeobox codificano solo un determinato organello. In breve: ci sono dei gruppi di geni che, quando espressi, producono un determinato organo o parte di esso. Ci sono poi gli homeobox che si occupano di attivare l’espressione di questi gruppi in modo sequenziale, partendo dalla testa ed arrivando alla coda.”
Jona continuò a fare domande su come, di preciso un gene, o un gruppo di geni, potessero codificare interi organi.
Molto presto l’Amuleto smise di rispondere e Asclep in persona fece una lunga lezione che lasciò Jona frastornato e conscio dell’immensa complessità della vita
Si chiuse in un silenzio meditabondo mentre le sue gambe continuavano a muoversi automaticamente.
Il sole stava già calando verso i monti a ovest quando l’Amuleto ruppe il silenzio: “Sotto quelle ninfee c’è la tua cena, se hai ancora fame.”
Erano arrivati ai bordi di una palude dove uno dei fiumi che scendevano dalle montagne deviava bruscamente verso sud.
Nell’acqua bassa trovò uno strano animale, delle dimensioni di un cane, a metà strada tra un’istrice e una tartaruga che l’Amuleto aveva paralizzato. Fece un po’ fatica a trovare il modo di piantare il suo coltello fra le placche ossee per ucciderlo. Se lo mise in spalla e proseguì; l’Amuleto gli aveva trovato un posto sicuro sulle basse colline dall’altra parte del fiume.
Quando arrivò al rifugio, una bassa caverna quasi cilindrica lunga non più di una decina di passi, aveva il fiatone ed era decisamente stanco. Fu ben lieto che l’Amuleto gli desse una mano ad accendere il fuoco.
Mise a cuocere l’animale direttamente sui carboni ardenti, utilizzando la pelle corazzata del dorso come recipiente di cottura.
Mentre aspettava pazientemente che si cuocesse riprese la conversazione con l’Amuleto: “Non posso continuare a chiamarti “Amuleto”. Non hai un nome?”
“Perché non mi puoi chiamare “Amuleto”?”
Jona alzò gli occhi al cielo; cominciava ad odiare questo Socrate, chiunque esso fosse stato, con tutte le sue forze, anche se poteva intuirne le motivazioni: “Perché “Amuleto” è un nome comune di cosa, generico, di un oggetto, per quanto complicato, mentre tu sei evidentemente una “persona”, quindi vorrei usare un nome proprio di persona. Va bene così?”
“Veramente non capisco: che differenza c’è tra un oggetto e una persona?”
“Ce ne sono parecchie di differenze, anche se definirle con la precisione che vuole il tuo Socrate non sarebbe per niente facile e, comunque, ora sono troppo stanco per provare. Vuoi dirmi il tuo nome o devo cominciare a chiamarti, che so, “Luigi”? O magari “Socrate”?”
“Socrate no. Sarebbe un po’ blasfemo, dal mio punto di vista. “Luigi” va bene come qualunque altro nome, ma se sei proprio in vena di classici, puoi chiamarmi “Mentore”, non è il mio nome, come non lo è Luigi, ma suona meglio.”
“Va bene, vada per “Mentore”, allora. Sono troppo stanco per discutere ancora. Fammi leggere qualcosa su questo Socrate, per favore.”
Il grosso volume dell’enciclopedia si aprì sulla pagina dedicata a Socrate e Jona cominciò la scoperta dei filosofi del mondo antico.
Una visita sgradita
Un sibilo insistente lo risvegliò d’improvviso.
Fuori era ancora notte fonda.
l’Amuleto smise di fischiare.
“Che succede?”
“Che hai la possibilità di dimostrare praticamente la superiorità dell’intelligenza dell’Homo Sapiens contro la forza bruta di questi stupidissimi dinosauri.”
“Chi c’è là fuori?”
“Nessuno, per ora, ma un grosso e cattivo T.Rex ha fiutato gli avanzi della tua cena.”
Jona stava già raccattando le sue cose mentre il cervello lottava per scacciare le ultime nebbie del sonno; sentì distintamente l’adrenalina che gli entrava in circolo quando il nome venne associato allo scheletro che aveva visto al museo.
Un palazzo con più denti di una sega a quattro mani, ognuno lungo un palmo.
“Quanto è lontano?”
“Poco più di un chilometro.”
Jona si stava allacciando lo zaino: “Può entrare qui dentro?”
Jona si bloccò: “Quindi è uno solo.”
“Esatto.”
“Non dovresti avere problemi a metterlo fuori combattimento.”
“Vuoi dire che non sei disponibile a collaborare?”
“No. Sono disponibilissimo a collaborare, solo vorrei che tu non mi chiedessi di fare nulla direttamente su quel bestione. Considerala come un test delle tue capacità.”
Jona era oramai completamente sveglio e la lieve esaltazione provocata dall’adrenalina era ben presente: “Tra quanto arriverà qui?”
“Quindi corro più veloce di lui, anche con lo zaino?”
Ancora una volta l’Amuleto era rimasto sul vago. La risposta era chiara, ma il tono conteneva una nota dubitativa che non sfuggì al Mago:
“Temo di sì.”
“E, se lo lascio arrivare qui fuori non se ne andrà tanto presto vero?”
“Non posso saperlo, ma di solito sono piuttosto testoni.”
“Me l’immaginavo. C’è, qui attorno qualcuna delle sue prede abituali? Sei disposto ad aiutarmi contro di quella?”
“Sì a entrambe le domande. C’è il padre della tua cena, che non ha ancora fiutato il T.Rex.”
“Quindi si trova dalla parte opposta? Andiamo!”
La consueta striscia gialla apparve e Jona uscì al piccolo trotto mentre in lontananza si cominciavano a sentire i passi pesanti del bestione a cui stava cercando di sfuggire.
Lo zaino era pesante, conteneva tutti i suoi averi, e Jona era concentrato su dove mettere i piedi. Prendere una storta ora sarebbe stato come precipitare in un burrone.
Il ruggito di delusione alle sue spalle lo informò che il bestione aveva trovato i resti della sua cena, lasciati poco fuori della caverna per attirarlo e che non si dichiarava soddisfatto. Presto avrebbe ripreso la caccia.
Quando alzò lo sguardo perché la pista gialla era terminata si trovò faccia a faccia con un brutto muso ricoperto da grosse piastre ossee. Il muso scomparve mentre l’animale si girava per fuggire, nonostante fosse ben più massiccio di Jona e sicuramente ben corazzato. Il Mago sentì il sibilo della coda che arrivava e si lasciò cadere faccia a terra mente urlava: “Ala Ipni!”
La coda passò fischiando sopra la sua testa mentre il bestione crollava paralizzato.
“Se mi prendeva mi staccava la testa! Che cos’è questa “cosa”?”
“Un Ankylosauro”, rispose serafico l’Amuleto mentre Jona estraeva il suo coltello e cercava un punto vulnerabile nella gola dell’animale per finirlo.
Jona cercò di ricordare. Tutti i dinosauri avevano quei nomi strani e impronunciabili. Poi vide la coda.
“Se quella mazza mi prendeva mi staccava la testa!”
“Probabile. Meglio che ti sbrighi.”
Jona si rese conto che il martellare che sentiva non era il suo cuore, ma i passi pesanti del T.Rex che lo inseguiva.
Il coltello finalmente trovò un varco tra le piastre più sottili che ricoprivamo la gola dell’ankylosauro e un fiotto abbondante di sangue cominciò a scorrere allargandosi sul terreno.
Il Mago pulì accuratamente il coltello sull’erba e riprese a trotterellare allontanandosi verso sud.
Pochi minuti dopo un ruggito di vittoria gli confermò che la preda era stata trovata.
Il mostro avrebbe avuto da fare per parecchi giorni.
Jona rallentò il passo mentre l’alba schiariva il cielo a est.
Su una piccola altura poco lontana si concesse un momento di riposo e la curiosità di guardare il Tirannosauro da distanza di sicurezza.
Era ancora più brutto di come se lo fosse immaginato.
Serna
Riprese il cammino e chiese a “Mentore” di mettersi in contatto con la figlia, Serna, che si trovava nelle terre dei Fenarabi, a ‘Rruth.
Jona aveva controllato anche quei luoghi sui libri degli Antichi e aveva scoperto che loro chiamavano quella regione “Libano”, con capitale Beirut. Anche il nome della popolazione era derivato da due delle antiche popolazioni che avevano abitato la zona: Fenici e Arabi.
Quel che non collimava, invece era flora e fauna: dove gli Antichi descrivevano un deserto di rocce e sassi ora c’era una terra verde e boscosa, il deserto era stato respinto per qualche centinaio di chilometri, dietro le alture costiere.
Serna apparve accanto a lui, accoccolata su un grande cuscino dai colori vivaci. Era decisamente strano vedere quel vecchio camminare metodicamente appoggiandosi al suo lungo bastone con a fianco una giovane donna in vestiti decisamente troppo leggeri per quel clima che gli fluttuava a fianco a bordo di un enorme cuscino volante, ma Jona ci era oramai abituato e non notò neppure più la cosa.
“Ciao papà, sei già sveglio?”
“Ho avuto visite.”
“Qualcuno che conosco?”
“Non credo proprio. Mentore, puoi farle vedere?”
“Uhm, bel lucertolone.”
“Non è a dimensioni reali, vero Mentore?”
“Aaaah! Che cos’è questo mostro?”
“Un antenato parecchio lontano, per fortuna, che Dana ha ritenuto bene riportare in vita.”
“Esatto. Ti assicuro che dal vivo fa una certa impressione.”
“Anche in immagine. Ho ancora i capelli dritti in testa.”
“Spero che l’Amuleto non abbia esagerato con il realismo.”
“Chi? Io? Nient’affatto. Ho anche abbassato il volume del ruggito!”
“Capisco.”
“Cambiamo argomento. Come vanno le cose lì?”
Serna cambiò umore d’improvviso, come se le avessero spento la luce dentro:
Jona si riempì i polmoni e cominciò a far uscire un sibilo leggero e vibrante che durò per quasi un minuto.
“Serna, non mi prendere in giro. Che cosa c’è che non va?”
Serna esitò ancora un momento mentre il padre continuava a mettere un piede davanti all’altro con quel passo lento che macinava i chilometri.
“Si tratta di Fermo. Non lo capisco. Qualunque cosa faccia non gli va bene. Ora si è messo in testa di ripartire immediatamente per Gena!”
“E tu?”
Jona era paziente, ma stava per dire qualcosa quando, un chilometro abbondante più tardi, Serna riprese con voce mesta: “Ieri sera abbiamo avuto una lite furiosa. Ha detto che se non riparto con lui dopodomani posso considerare rotto il fidanzamento.”
Jona non ebbe nessun bisogno di chiedere per sapere cosa avesse deciso la figlia che, infatti, dopo un’ulteriore pausa, proseguì.
“Ho chiesto ospitalità al Visir. Il Sultano sarebbe stato più che lieto di avermi a palazzo, ma non voglio dare strane idee a suo figlio.”
Il Mago continuò a tacere, lasciando che lei si sfogasse.
In realtà aveva visto arrivare la burrasca da parecchio tempo, ma aveva ritenuto meglio non intromettersi. Ora si stava mentalmente congratulando con sé stesso per la saggia decisione.
“Perché tutti gli uomini vogliono che faccia quello che dicono loro? Per un po’ sembrano persone normali, poi ti mettono le mani addosso e sono convinti di poter decidere tutto loro! Tu non sei mai stato così!”
“I rapporti sono lievemente diversi, non ti pare?”
“Certo, ma non ti ho mai sentito fare scenate di gelosia nemmeno con la mamma.”
Jona ricordava bene una scenataccia, tanto tempo prima, molto prima che Serna nascesse. Dania l’aveva fatto, verbalmente, a fettine perché lui non si era dimostrato geloso.
“Non credo che sia il caso di tirarmi in ballo.”
“Perché? Non sei un uomo, forse?”
“Non saprei. Tu pensi che io sia un uomo?”
“Certo che sei un uomo! Che razza di idee.”
“Comunque non credo di essere una buona pietra di paragone.”
“Perché?” Serna si era fatta attenta; lo sfogo era dimenticato. Il Mago stava cercando di dirle qualcosa di importante.
“Dove sono?”
“In America, credo, comunque parecchio lontano verso est.”
“E perché sono qui?”
“Perché Thano ti ha mandato in missione.”
“Quanti uomini conosci che siano stati mandati in missione da Thano?”
“Nessuno, cioè, nessun altro. Insomma: uno.”
Silenzio.
“Va bene. Ho capito. Non sei esattamente il prototipo dell’uomo medio. Ciò non toglie tu, come uomo, possa capire Fermo meglio di me.”
“Probabile.”
“E allora: mi spieghi?”
“Cosa?”
“Perché i maschietti sono così dannatamente possessivi?”
“Non generalizzare.”
“Ma se hai detto tu che sei quasi unico!”
“Non ricordo di aver detto nulla del genere, anche se è vero per ciascuno di noi.”
“Certo che ognuno è unico, a modo suo, ma non è questo che intendevo. Sei stato tu a tirare in ballo la Missione di Thano!”
“Vero. Che c’entra con la possessività dei maschietti?”
Stavolta fu Serna a cantare l’OM come le aveva insegnato il Djinn. Un suono lungo e profondo, una vibrazione intensa e uniforme.
Quando riaprì gli occhi aveva un vago sorriso: “Va bene, stavi solo dicendo che non posso considerarti come “uomo medio”, ma che la differenza potrebbe non aver niente a che fare con il fatto di esser geloso o meno. Penso invece che c’entri e parecchio.”
“Perché?”
“Questo non lo so, ci devo pensare. Un’altra cosa di cui sono sicura è che hai le idee molto più chiare di quanto tu voglia far apparire sulla questione della possessività dei maschietti.”
“Può essere. Di che specie sarebbero questi “maschietti”?”
“Mi prendi in giro? Che vuoi che mi interessi dei maschi di cervo o di dromedario?” La voce le si spense lentamente e Serna ricominciò a cantare.
Jona si sentì mancare il respiro mentre cercava inconsciamente di tener dietro la lunga espirazione della figlia.
“Mi stai dicendo che quel comportamento è normale, in quanto è il retaggio di millenni di evoluzione, ma che può essere modificato”, disse alla fine incredula.
“Milioni di anni, cara, molti milioni di anni.”
“Ma allora non c’è niente da fare?” Serna sembrava sconsolata.
“Non puoi impedire al sole di calare la sera”, le disse Jona sorridendo, “ma puoi procurarti una lampada che ti faccia luce nella notte.”
“Dove la trovo questa lampada?”
“Prima spiegami perché vuoi la lampada.”
“Perché non voglio rimanere al buio.”
“E chi ti dice che rimarrai al buio?”
“Se?”
Un istante di confusione, poi il viso di Serna si illuminò:
Il collegamento si era appena chiuso che l’Amuleto si produsse in un’omerica risata che lasciò Jona di stucco: “Che ti prende?”
“Pare che il vecchio Socrate abbia un altro discepolo.”
“Ma che dici?”
“Vuoi risentire la tua conversazione con Serna? Bada bene a non lamentarti mai più se ti faccio domande invece di darti risposte, sai?”
Il Geco
I giorni successivi passarono lenti e monotoni.
Jona camminava per buona parte del giorno, poi cercava un posto riparato per la notte.
Non commise più l’errore di dormire vicino a dove aveva mangiato.
Parlava quotidianamente con Serna scambiando informazioni e opinioni o, semplicemente, cercava di dimenticare la nostalgia e la solitudine.
Spesso parlava anche con la moglie rimasta a Tigu, ma raramente chiedeva notizie dei gemelli concepiti così inopportunamente la sera prima della sua partenza. Aveva paura di affezionarsi troppo e dubitava di riuscire a vederli in carne ed ossa.
Una pioggia fina aveva cominciato a cadere a tratti. La temperatura era salita, ma sembrava il contrario.
Jona era stanco. Più mentalmente che fisicamente.
Anche la novità della piana dei grandi rettili stentava a mantenere la sua attenzione.
Serna era nella sua postazione preferita, sulla cima della colonna di Isto e manteneva senza fatica la concentrazione, anche mentre parlava con il padre: “Il Djinn sostiene che il parlare, la verbalizzazione, è solo uno dei modi di pensare, il più moderno, ma anche il più limitato. Dice che tutti questi esercizi servono per imparare a “spegnere” il dialogo interno e lasciar fare alle parti più antiche del nostro cervello. Abbiamo visite.” Serna non aveva cambiato tono di voce né mosso un muscolo, ma un istante dopo una testa avvolta in un leggero panno nero comparve nel campo visivo di Jona.
“Papà, ti presento il Geco.”
“Onorato di fare la Sua conoscenza, Mago Padre”, disse Sindehajad toccandosi la fronte con la mano destra e piegando il capo in segno di rispetto — come riuscisse a fare ciò mentre era ancora aggrappato al fianco della colonna non era facile intuirlo. Un attimo dopo si sedava a gambe incrociate poco dietro Serna.
Jona cercò di imitare il gesto, ma l’effetto venne rovinato dalle gocce di pioggia che scesero dal cappuccio e si infilarono fastidiosamente nel polsino: “L’onore è mio. Mia figlia mi ha parlato di te e ti ringrazio di cuore dell’aiuto che hai dato. Non credo che la missione sul Fiume sarebbe andata a buon fine senza di te.”
“La Maga Figlia sa essere molto convincente, quando vuole. Così ho potuto essere di un qualche aiuto.”
Jona bofonchiò qualche frase di circostanza, dolorosamente conscio del fatto che quel giovanotto lo stava trattando in modo formale e rispettoso, mentre lui non riusciva ad entrare nella parte e si stava comportando come un vecchio infastidito. Meglio essere espliciti: “Mi scuso con te, Sindehajad detto il Geco. Non è un buon momento e questa pioggia mi sta entrando nelle ossa. Vorrei riuscire ad essere più gentile, come sicuramente meriti. Accidenti, non riesco neppure a ricordarmi le più elementari norme di buona creanza. Le chiedo scusa.”
Il Geco assunse un’espressione preoccupata e disse qualche parola a Serna che Jona non capì, poi si rivolse al lui con tono ancora più formale di prima: “Sono io che devo scusarmi di aver scelto un momento tanto inopportuno. Spero che possa perdonarmi questa intrusione maldestra”, e si alzò per andarsene.
“No, resta!” Jona fu stupito dalla sua stessa foga.
Serna era concentrata sul suo Amuleto e quello che vi leggeva non era di suo gradimento: “Papà devi trovare un posto sicuro dove ripararti e riposare. Non credo tu stia molto bene.”
“Temo che abbia ragione, ma il rifugio sicuro più vicino è la Magione. Se resisti puoi arrivarci prima di notte.”
“Che cos’ho?”
“Polmonite. Sto facendo quello che posso per tenere bassa la temperatura, ma da queste parti non ci sono erbe medicinali adatte.”
Il Geco incominciò uno strano canto, parole ritmate, una specie di nenia semplice che andava a tempo con i suoi passi.
Jona si trovò a seguire quelle parole che non conosceva e si perse in esse fino a che non si trovò davanti ad una parete rosa con una piccola porta aperta che lo invitava ad entrare.
No. La parete era bianca, ma il sole al tramonto la tingeva. Aveva anche smesso di piovere, anche se il cielo era ancora pieno di grosse nuvole scure.
“Adesso puoi smettere, credo. Grazie.” La voce di Serna era preoccupata e quella del Geco molto più roca di quanto lo fosse la mattina.
Dietro il muro c’era un giardino e, poco più in là un immenso palazzo sormontato da una grande cupola.