3: La Magione

Convalescenza

Riprese conoscenza a tratti e sempre Serna era seduta in fondo al suo letto e gli diceva qualcosa che spesso lui non capiva, ma che lo tranquillizzava.
I due Elfi erano sempre in vista, ma non dissero mai una parola.
Una volta, in piedi al fondo del letto, vide anche la figura fasciata di nero del Geco.

La febbre finalmente calò e lui si svegliò, madido di sudore, ma presente.

Serna era sempre seduta al suo posto, ma, naturalmente, era solo la sua immagine che non spostava le coperte: “Stai meglio, papà?”
Lui annuì cercando di sorridere. Non si fidava ancora della bocca che sentiva impastata.
Uno dei due Elfi arrivò come un fulmine e lo sorresse mentre gli faceva bere qualcosa di dolce.
Ebbe così modo di vedere bene che non si trattava di un Elfo, ma di qualcosa di metallo che gli assomigliava molto. Una corazza? No, le dita erano di metallo, e non dei guanti.
“Ringrazia il Geco”, disse quando ebbe finito.
“Ringrazialo tu, sono sicura che gli farà piacere. Credo che sia qui fuori. Sindel!”
Il Geco apparve pochi secondi dopo. Era un ragazzo bassino, poco più alto di Serna, con due larghe spalle e due occhi scuri e sorridenti: “Il Mago padre si sente meglio, vedo. Asclep ci ha ascoltati.”
“Se sono vivo lo devo a te. Grazie Sindehajad” disse Jona di cuore, poi la curiosità ebbe il sopravvento: “Che cos’era quel canto?”

“La nostra gente, nel deserto, lavora al ritmo del canto. Abbiamo canti per tutti i lavori, spesso li facciamo tutti insieme e il lavoro diventa danza.”
Fece una breve pausa: “Quello è il canto che ci sostiene nella marcia per tornare a casa quando l’acqua è finita.”

Jona esplose una risata gracchiante che terminò in un accesso di tosse.
“A quanto pare funziona anche quando l’acqua è troppa”, riuscì finalmente a dire mentre l’Elfo meccanico lo riadagiava sui cuscini.

Pochi minuti dopo dormiva in un sonno calmo e ristoratore.

Al risveglio successivo si sentiva decisamente meglio, anche se debole come un gattino.
Invece di Serna, ai piedi del letto, c’era Asclep.

Come sta oggi il nostro malato?
Jona cercò di mettersi seduto e l’Elfo meccanico si precipitò a sostenerlo: “Molto meglio, ma mi sento debole.”

Asclep assentì asciutto con il capo: “Normale. Da oggi ricomincerai a mangiare. In pochi giorni dovresti essere in grado di alzarti e affrontare il prossimo compito. Per ora riposa, ne hai ancora bisogno.

“Una domanda, se posso: chi o che cosa sono quelli?”
La risposta ovvia è che sono i miei assistenti. La risposta meno ovvia è proprio quello che dovrai cercare di capire. Adesso, però, pensa a riprenderti.

Il Dio scomparve e i suoi misteriosi “assistenti” gli presentarono un parco pasto che lui fece fatica a terminare.

Il suo Amuleto era sul tavolino a fianco del letto.
“Mentore, da quanto tempo sono su questo letto?”

Dormì molto nei due giorni che seguirono e, ogni volta che si svegliava, si sentiva distintamente meglio e il suo appetito migliorava di pari passo.

La colazione era il pasto principale della giornata, sia dal punto di vista nutrizionale che da quello affettivo; Serna aveva infatti preso l’abitudine di mangiare insieme a lui. Le sette ore abbondanti di differenza la costringevano a ritardare parecchio il pranzo, ma lei lo faceva più che volentieri.

Jona aveva ricominciato a leggere non appena era riuscito a farlo senza che la sonnolenza lo disturbasse troppo e ora stava parlando con la figlia delle novità che aveva appreso dal Djinn di Isto.

“Stavi cercando di dirmi qualcosa, prima che Sindehajad arrivasse a salvarmi la pelle.”

“Non si usa più chiedere il permesso prima di entrare?” Chiese Serna indispettita.
“Non è certo il Maestro che deve chiedere udienza all’allieva, non ti pare?” Ritorse lui con sussiego, “Ma lasciamo perdere queste sciocchezze e parliamo di cose serie.”
Ora stava guardando dritto negli occhi il vecchio Mago che sostenne lo sguardo senza tentennamenti.
Quello che lesse negli occhi di Jona dovette piacergli perché proseguì: “Isto mi dice che ti sei ripreso abbastanza da cominciare la ricerca che ti aspetta. Sei pronto?”
Jona stava per dire di sì, poi ci ripensò: “Senti, Djinn, finora sono stato sballottato da una parte all’altra fino a quasi morire del viaggio; non pensi che sarebbe ora di dirmi che diavolo volete da me?”
“No”, rispose il Djinn con lo stesso tono tranquillo che avrebbe usato se gli avesse chiesto “vuoi ancora qualcosa da mangiare?”.
“Puoi almeno spiegarmi perché non mi volete dare uno straccio di spiegazione?”
“Mentore?” disse il Djinn guardando verso l’Amuleto.
“Non se ne parla nemmeno! Ha studiato Socrate a sufficienza da rispondersi da solo!”
Socrate? Che c’entrava ora?
Il silenzio si prolungò mentre il Djinn continuava a guardarlo come se si aspettasse qualcosa da lui, cosa perfettamente probabile, e Serna rimaneva immobile, ma attentissima.
Jona ingoiò tutte le rispostacce che gli salivano alla mente come bollicine in una coppa di vino frizzante; sapeva che, in qualche modo, avevano ragione loro, solo non riusciva a capire perché.
In mezzo alle altre una bolla un po’ più grande fece “plop”:

Il Djinn fece un cenno di approvazione con la testa: “Più o meno hai capito, anche se c’è molto di più di questo, naturalmente. Su una cosa, però, hai sbagliato ed è bene che tu lo sappia subito: Non siamo noi che abbiamo bisogno che tu impari. Noi, la nostra vita, l’abbiamo fatta. Ti stiamo aiutando perché sei tu che hai bisogno d’imparare per diventare ciò che serve agli Dei.”
“Per chiarirti il concetto”, intervenne l’Amuleto, “noi ti stiamo dando degli indizi, altrimenti non ti basterebbero dieci vite per capire tutto quel che ti serve, ma devi fare la fatica di capire da solo, altrimenti la tua conoscenza non arriverebbe abbastanza in profondità.”

“Rimarrebbe a livello del pensiero verbalizzato senza penetrare ai livelli del pensiero profondo”, disse Serna, come parlando fra sé e sé, quasi trasognata, “ecco a cosa servono gli esercizi che mi fai fare. Posso insegnarli a papà?”
“Sì, ma non ora e non senza supervisione. Basta sbagliare di poco e si fanno danni invece di aiutare.”
“Allora insegnaglieli tu!”
“No.” Di nuovo quel “no” calmo, ma definitivo; un “no” che diceva: “se ci pensi lo sai il perché”.

Il Djinn confermò con un movimento quasi impercettibile della testa.

“I primi indizi sono questi: c’è un carattere comune a quasi tutte le religioni degli Antichi che è sostanzialmente differente dagli insegnamenti degli Dei. Cerca di capire qual è.”
“Secondo: gli “assistenti” di Asclep non sono stati costruiti originariamente per l’uso che se ne fa ora.”
“Terzo: gli studi di Serna sul linguaggio ti potrebbero aiutare.”

Al Lavoro!

Jona prese un quadernone bianco che si era portato dal museo e cominciò a scrivere mentre elencava a voce alta rivolto a Serna: “In realtà il Djinn ci ha dato molto più che tre indizi. Prima di tutto ha detto che possiamo, e forse dobbiamo, lavorare insieme, cosa tutt’altro che scontata, visti i precedenti, poi ha confermato che questi “assistenti” sono oggetti artificiali, come io avevo cominciato a sospettare, ma non ne ero affatto sicuro.”
“Potrebbe essere che si tratti di manufatti degli Antichi.”
“Degli Antichi? Non sembrano così vecchi. Dovrebbero avere tremila anni.”
“No, intendevo dire che gli originali potrebbero essere stati progettati dagli Antichi. Questi sembrano nuovissimi.”
“Potrebbe essere, ma perché dici questo?”
Serna rimase un momento silenziosa e assorta, poi rispose contando sulle dita: “Perché gli Antichi, da quanto mi raccontavi, avevano un debole per le macchine complicate, spesso facevano le cose tutte uguali, e quei due sono assolutamente identici, gli Dei, per contrasto, fanno crescere le cose che servono loro e, quasi sempre, si tratta di cose l’una diversa dall’altra; guarda gli Amuleti: sono simili fra loro, ma non ne ho ancora visti due esattamente uguali. Che ne dici Mentore?”
“Gli Amuleti sono tutti differenti fra loro.”
Serna stava per ribattere piccata, ma Jona la fermò: “Mentore non ti risponderà a supposizioni; mi ha già detto che non vuole che faccia ipotesi a caso per avere o meno la conferma da lui.”

“Non mi è chiaro quale sia la domanda. Ti posso assicurare che sto cercando di farti la vita più facile possibile.”
“Capito. Andiamo avanti. Altra cosa che il Djinn ci ha detto, tra le righe, è che i tuoi studi sul linguaggio hanno qualcosa a che vedere con gli assistenti. Forse faresti meglio a ricapitolare che cosa hai fatto e che risultati hai avuto, vuoi?”

Serna spiegava e Jona prendeva appunti.
In pratica aveva proseguito dove Tarciso si era interrotto e, nel farlo, aveva seguito il consiglio di Ipno e cercato di capire quali fossero i meccanismi che garantivano la congruenza fra rappresentazione interna e realtà esterna e i loro limiti.
Questo l’aveva portata a due importanti scoperte.
La prima, che esiste, nel nostro cervello, una specie di sordina che ha il compito di zittire tutti i circuiti risonanti “non pertinenti”.
La seconda che l’area deputata al linguaggio è ben precisa e delimitata, tanto che, conoscendo la lingua di chi parla, è possibile “leggere”, nelle attività cerebrali, quello che la persona sta verbalizzando.
Ora, sotto la guida del Djinn di Isto, stava esplorando la parte meno strutturata e più profonda del cervello, soprattutto su sé stessa.

Mangiarono ancora insieme e Jona, stanco, si appisolò di nuovo.

Sognò gli assistenti di Asclep, migliaia, decine di migliaia, forse di più, tutti uguali, che si muovevano per compiti imperscrutabili come un esercito di formiche.

Si svegliò di soprassalto e decise che doveva vedere il resto della Magione.

I due assistenti erano lì, in piedi accanto alla porta, come due statue.
Quando Jona scese dal letto si mossero all’unisono poi, vedendo che non aveva bisogno d’aiuto, ritornarono alla loro posizione.
Poco dopo Jona si diresse deciso alla porta; i due assistenti non fecero nulla per fermarlo, ma uno di loro — era impossibile distinguerli — si mosse e lo seguì silenzioso.

Fuori c’era un lungo corridoio mansardato con alte finestre da cui entrava la luce del sole oramai calante. Era nel seminterrato. Tutto era pulitissimo ed in perfette condizioni, ma aveva un aspetto antico.
La maggior parte delle porte erano chiuse, ma Jona, girovagando senza una meta precisa, trovò vari magazzini, di cui uno refrigerato ben sotto lo zero, gabinetti, studi e una cucina enorme che doveva servire centinaia di persone. Nella cucina altri due assistenti stavano preparando qualcosa in delle pentole ridicolmente piccole su quei fornelli enormi.
Erano assolutamente identici a quello che lo seguiva, anzi no. Ora che li guardava bene Jona si accorse di un piccolo simbolo sul petto, vicino alla spalla sinistra. I due cuochi avevano un’insegna bordeaux di Dionne, mentre quello che lo seguiva ne aveva una verde di Asclep. Non aveva mai visto i simboli, ma i colori erano indicativi.
D’improvviso Jona capì che stavano preparando la sua cena; quegli assistenti non pareva avessero bisogno di mangiare, almeno non nel senso usuale del termine.

Trovò poi un portone a vetri che dava sull’esterno e fece per uscire, ma la sua ombra fece un passo in avanti e disse: “Fuori fa molto più freddo. Non è prudente uscire, ancora.”
“Ah, ma allora sai parlare.”

Jona si chiese se quell’assistente completamente in lucido metallo l’avrebbe costretto con la forza se si fosse rifiutato, poi decise di fare l’esperimento un’altra volta, anche perché sapeva perfettamente che ora come ora aveva ragione lui.

Rientrando incrociarono un altro assistente che stava facendo delle misteriose manutenzioni. Aveva un simbolo d’argento di Festo sul petto.

I giorni passarono veloci, Jona fu trasferito dalla stanzetta asettica nel seminterrato ad una bella stanza luminosa al terzo piano vicino ad uno studio attrezzato di tutto quello che poteva desiderare e a un posto, chiamato “palestra”, dove poteva esercitare il suo corpo e rimetterlo in efficienza. Gli assistenti erano sempre vicini per ogni necessità, ma tendevano a non farsi vedere.

La mattina si alzava molto presto e lavorava con Serna e il pomeriggio faceva ginnastica e studiava da solo.

Parte della mattina era dedicata agli esercizi di meditazione, che Serna conduceva, sempre alla presenza del Djinn di Isto che sembrava dormire accoccolato in un angolo, ma si svegliava di colpo ogni volta che Serna, a suo parere, si rivelava meno che perfetta. Il Geco spesso partecipava, per poi dileguarsi discretamente appena i due cominciavano a parlare d’altro.

Oramai anche il vecchio Mago riusciva a mantenere la concentrazione senza sforzo e a ragionare senza bisogno di verbalizzare, ma non riusciva a capire l’utilità della cosa. A suo parere Serna aveva accettato senza ragioni sufficienti la parola del Djinn sul fatto che fosse meglio così. Questi li lasciò discutere per un po’ poi si alzò e venne a sedersi sul materassino dove stavano facendo i loro esercizi.
“Non è come dici tu Jona”, disse guardandolo negli occhi, “Serna ha capito con un guizzo d’intuizione e, per questo, ha difficoltà a spiegare in modo completamente razionale, ma ciò non toglie che quel guizzo sia corretto.”
“Può anche essere”, ritorse Jona, “ma ho solo la tua parola per conferma.”
“Capisco che ti sembri un po’ poco”, rispose il Djinn senza la minima ironia, “vediamo se riesco a convincerti in altro modo. Cominciamo a dirci chiaramente qual è il nocciolo del problema, vuoi farlo tu?”
“Va bene. Serna sostiene che il modo di ragionare con il “dialogo interno” è limitante perché non permette di prendere in considerazione più cose alla volta, il metodo “visivo” è di poco migliore perché permetterebbe di considerare un certo numero di fattori insieme — pochi comunque, circa sei — mentre il metodo “cenestetico”, il più antico, permette di valutare moltissime cose contemporaneamente. Io sostengo, invece, che riesco benissimo a tener presenti molte cose anche pensando con il “dialogo interno”.”
“Bene. Mi sembra una sintesi accettabile. Possiamo partire da qui. Sei veramente sicuro di sapere come e cosa stai pensando?”
Jona lo guardò con sospetto: “Certo che sì. Non vorrai mica riprendere le pazzie di Tarciso, vero?”
“No, ma quelle “pazzie” contenevano una certa quantità di verità che faresti bene a non disprezzare tanto. Ti propongo un piccolo esperimento: prendi quella penna, guarda questa lancetta che gira”, un grosso quadrante da orologio apparve con una lancetta che girava molto velocemente, faceva circa un giro al secondo, “poi, quando ti pare, decidi di lasciare la penna e dimmi dove si trovava la lancetta quando hai pensato “ora”. Nel frattempo il tuo Amuleto farà un po’ di misure.”

Jona si sottopose di buon grado all’esercizio, pur senza capire dove volesse andare a parare il Djinn.
Serna stava a guardare senza muovere un muscolo.
Dopo alcune decine di ripetizioni il Djinn disse: “Dovrebbe bastare così. Mentore che ci dici?”
“Jona ha un’ottima coordinazione fra occhio e pensiero. La distanza fra il momento in cui pensava “ora” e la posizione indicata dalla lancetta sono sempre all’interno di pochi millisecondi.”
“Mi stavi leggendo nel pensiero?”
“Stavo monitorando i tuoi pensieri verbalizzati, Sì.”
Jona stava per inveire per questa patente intrusione nella sua testa, ma il Djinn chiese: “Sì, va bene, ma l’altra misura?”

“E questo cosa vorrebbe dire?”
“A te scoprirlo.”
“Papà, non capisci? Ti ha appena dimostrato che la parte profonda del cervello prende davvero le decisioni e poi le comunica alla parte razionale!”
“Ha capito benissimo, cara ragazza, ma ha anche capito che era lì che volevo portarlo con il mio “trucco”. Ha bisogno di tempo per analizzare i risultati e, presumo, fare altri esperimenti, prima di poter ammettere che le cose stanno, grossomodo, come le hai esposte tu. Ora vi lascio. A domani.”
Jona fece prove ed esperimenti per tutto il giorno, poi trascrisse tutto sui propri appunti e girò decisamente pagina. Tempo di lasciar decantare per almeno una settimana.

L’indomani cominciarono a dedicarsi al problema delle religioni. Serna, che conosceva bene il padre, non cercò neppure di ritornare sull’argomento, ma i due continuarono gli esercizi di concentrazione.

Esaminarono una quantità di religioni differenti sui testi di storia, dal paganesimo greco-romano che sembrava il più affine alla mitologia corrente fino ai monoteismi che sembravano essere in auge poco prima della caduta degli Antichi, passando per una moltitudine di religioni grandi e piccole.

Avevano molti tratti in comune, nonostante le apparenze così diverse, e quasi tutti questi tratti si ritrovavano anche negli insegnamenti degli Dei.
Una cosa che sorprendeva era come, nel mondo degli Antichi, gli Dei fossero sempre presenti e venerati, quando non adorati, ma raramente interferivano veramente con la vita di ogni giorno.

Alla fine trovarono tre differenze che sembravano significative:

Gli Dei del loro tempo non volevano essere adorati, venerati o che si facessero a loro sacrifici; semplicemente esigevano rispetto.

Gli Dei non avevano una gerarchia, erano tutti sullo stesso piano con diverse funzioni e specializzazioni, non c’era un “re” degli Dei, quasi sempre presente in tutte le religioni antiche, quando il Dio non era unico.

Il culto dei morti; in tutte le religioni antiche si diceva che l’uomo possiede un’anima immortale che può essere premiata o punita, mentre i loro Dei dicevano chiaramente che l’immortalità dell’anima è un privilegio di pochi che va conquistato in vita.

Jona sospettava che quell’ordalia a cui Thano lo stava sottoponendo, con il concorso di molti altri Dei, fosse il suo modo di guadagnarsi un’anima immortale, ma non aveva mai immaginato fosse una cosa così complicata e difficile. Possibile che fossero così in pochi a guadagnarsi l’anima?
“Mentore, sai quanti riescono a guadagnarsi l’anima?”
“Pochi. Meno di uno su venti e più di uno su cinquanta.”
Veramente pochi, ma ugualmente lui doveva aver conosciuto parecchie decine di persone che avevano, o avrebbero, avuto il privilegio. Forse si stava sbagliando.

Padre e figlia tornarono ad occuparsi degli assistenti.

Erano forse loro che si occupavano di adorare gli Dei?
Serna scosse la testa. Non capiva bene che cosa significasse “adorare” perché non l’aveva mai fatto in vita sua, ma non sembrava che quegli assistenti metallici facessero qualcosa di simile a quel che raccontava l’enciclopedia: non pregavano, non facevano riti complicati, non ballavano, non cantavano

In quel momento entrò proprio uno degli assistenti con il simbolo di Dionne, probabilmente ad annunciare che il pranzo era pronto, Jona si girò di scatto e chiese a bruciapelo: “Qual’era il tuo nome, da vivo?”
“Non credo di essere autorizzato a dare questa informazione”, fu la risposta, laconica come sempre.

Jona rimase impassibile, ma Serna si illuminò d’improvviso: “Sei un genio, papà!”
“Non cantiamo vittoria troppo presto. Ammesso che gli assistenti siano effettivamente i nuovi veicoli delle anime dopo la morte, restano ancora parecchi indovinelli da risolvere.”
Ma Serna era oramai sicura che quella fosse la strada giusta e si lanciò su quella traccia: “Mentore, ricerca: anima; immortale; eterna.”
“Un milione quattrocentosettantadue mila seicentotrentatré risultati”, annunciò l’Amuleto dopo un istante, mentre una lunga lista compariva davanti a loro.
Al terzo posto c’era “Progetto Anima Eterna”.
“Quello!”

Iniziato nel 2073 vide un iniziale interesse che portò a rapidi successi, ma venne altrettanto rapidamente chiuso dopo la scomparsa del suo finanziatore avvenuta nel 2086
Serna aveva oramai fiutato la preda e procedeva per balzi logici enormi.
“Quella”, disse puntando una riga molto in fondo alla lista dei risultati; diceva: “Presentati al pubblico i nuovi automi del Dipartimento della Difesa”.

Dalla fotografia allegata all’articolo li guardava sorridente un attempato ufficiale che portava il camice bianco sopra la divisa; a fianco stava uno degli assistenti, perfettamente riconoscibile nonostante fosse stato dipinto a chiazze irregolari verdi e marroni.

Conferme

La mattina, per la consueta seduta di meditazione, invece del Djinn si presentò Isto in persona.

I due rimasero silenziosi in attesa e il Dio proseguì:

“Dove devo andare?”

Jona rimase in silenzio a guardarsi la punta delle scarpe.

“Speravo di poter rimanere qui ancora un po’. Questo era il centro operativo di una delle più grandi nazioni degli antichi. La loro civiltà mi affascina.”

Jona capì immediatamente che di tempo ne aveva poco, anche se non sapeva perché, e sprecarne sarebbe stata una vera sciocchezza; forse era meglio essere diretti: “Capisco”, disse lentamente, “forse potresti indicarmi le ragioni della loro scomparsa. Tutto quello che ho letto sembra la storia di una continua ascesa. Come sono caduti?”

Isto fece un sorriso ancora più asciutto del solito:
“Ma Voi non eravate ancora presenti, a quel tempo, vero?”

Jona assorbì l’informazione: a quanto pareva non erano stati gli Dei a causare la scomparsa degli Antichi, ma credere che questa specie di staffetta fosse solo un caso sembrava improbabile.
Isto lo riportò al presente:

Jona lo sapeva e ora si rendeva anche conto che era il pensiero di ripartire che lo spaventava.
Era stanco e la parvenza di normalità di quei giorni, se aveva fatto meraviglie per il suo corpo, aveva anche portato allo scoperto il logorio psichico di quel continuo viaggiare senza poter mettere radici in nessun posto.

In un certo senso si sentiva più malato adesso di quando era arrivato. Inoltre avrebbe perso anche il conforto del lavoro con Serna. L’unico punto fisso nel suo universo era Mentore.
Isto aspettava la risposta con l’aria di chi ha tutta l’eternità davanti, ed era proprio così.
Mentore.
Jona cominciò a parlare come in sogno, ascoltando con interesse le parole che pronunciava, come fosse veramente un altro a parlare. Forse c’era del vero in quel che diceva il Djinn.
“Gli Amuleti sono un altro dei “ricettacoli” per le anime, vero? Mentore è stato vivo e ora lavora per Voi come addestratore, vero?”
Isto inarcò un sopracciglio:

Isto tagliò corto con uno dei suoi sorrisi tirati:
Poi, rivolto al Mago:
“Voi potete spostare le anime a Vostro piacimento, vero? Thano, almeno, ha fatto entrare Mentore nel mio Amuleto, e poi lo ha sostituito con qualcos’altro al museo, per poi farlo ritornare. Puoi farlo anche tu, vero?”

Jona si rendeva conto di parlare in modo strano, ma la sensazione di sdoppiamento era ancora fortissima e lui poteva solo osservare quel che stava facendo “quell’altro” Jona e, se cominciava a capire dove voleva andare a parare, non aveva un vero controllo su di “lui”.
“Potresti trasferire Mentore? Potresti trasferirlo in un assistente?”

“Gli assistenti non devono essere visti. Quando ritornerò in mezzo agli Umani Mentore tornerà ad essere un Amuleto. Sì, credo di capire.” Il senso di sdoppiamento era cessato quasi d’improvviso e Jona era di nuovo presente a sé stesso, anche se il “ricongiungimento” gli stava provocando una leggera nausea.

Ci fu un breve lampo rosso e Isto confermò:

Il Bando dei Motori

La presenza di una persona, sia pure meccanica, che poteva considerare amica diede a Jona la forza di superare, almeno in parte, il disagio che lo stava attanagliando, ma sapeva che si trattava solo di un palliativo. Doveva trovare un’altra soluzione in tempi ragionevolmente brevi.

I preparativi per la partenza furono assai rapidi. Gli assistenti fornirono loro quello di cui avevano bisogno e riempire gli zaini fu il lavoro di pochi minuti.

Il Mago sapeva bene che quell’elfo meccanico avrebbe potuto trasportare facilmente il doppio di quanto portavano in due, ma si divisero equamente il peso e le provviste, delle quali Mentore non aveva nessun bisogno.

Partirono dalla Magione all’alba di una bella giornata di primavera. I figli di Zeo abitavano sulle alte montagne al di là delle Pianure Centrali, quindi, per prima cosa, si diressero a ovest verso le montagne che racchiudevano la Piana dei Rettili.

Dovettero fare anche un ampio giro per evitare una zona
infestata da bambiraptors, piccoli carnivori che cacciavano in branco.

Mentore chiacchierava allegramente come aveva sempre fatto e, se lasciava la maggior parte del lavoro manuale a Jona questi non se ne lamentava; dopotutto era lavoro che faceva per sé stesso. Mentore non sembrava aver bisogno né di mangiare né di dormire.

Procedevano lentamente, anche perché quella catena montuosa era, in realtà, composta da molte catene parallele l’una all’altra, separate da valli più o meno ampie e loro dovevano attraversarle tutte per arrivare alle piane centrali.
Per diversi giorni avevano seguito il corso del fiume che passava vicino alla Magione e si era scavato un varco attraverso molte di quelle catene, ma poi, quando questo si era ridotto ad un ruscello, avevano deviato decisamente verso est affrontando le non irresistibili pendenze di quei monti boscosi.

“Gli antichi avevano una rete di strade che attraversava questi monti e infiniti mezzi per coprire le distanze. Da quanto ho capito il viaggio che stiamo facendo avrebbe richiesto solo poche ore, non mesi.”
“Vero. E allora?”
“Non capisco. Festo potrebbe darci moltissime cose che ci risparmierebbero un bel po’ di fatica. Sembra quasi che sia deciso a farci sudare per tutta la vita”, disse sbuffando su un tratto particolarmente erto.

“Uhm, tu e Dania avete lasciato che i vostri figli seguissero la strada più facile? Pensa alla figlia di Pallio il sarto.”

Jona inarcò un sopracciglio. Che ne sapeva Mentore di Pallio? La storia era semplice e a Tigu la conoscevano tutti.

Pallio aveva perso la moglie, morta quando la sua unica bambina, Sira, aveva appena cinque anni. Il sarto guadagnava bene e aveva riversato sulla bambina tutte le sue attenzioni, viziandola in un modo indecente. Alla morte del padre la ragazza, che aveva rifiutato sdegnosamente tutti i, pochi, pretendenti, si era ritrovata sola e senza il becco d’un quattrino, anzi aveva scoperto che il padre, per pagare i suoi continui capricci si era anche indebitato. Si era ridotta a fare la serva in casa di parenti che avevano anche dovuto insegnarle a fare le faccende domestiche.

“Che intendi dire? Che gli Dei ci stanno rendendo la vita difficile perché impariamo?”
“Io non “intendo dire” nulla. Ti dico, e ti invito a controllare personalmente i documenti, che la stragrande maggioranza degli antichi, soprattutto quelli che vivevano nei paesi opulenti che sembrano piacerti tanto, non sarebbero riusciti ad arrivare nemmeno a Mila.”
“Oh, certo che ci sarebbero arrivati, e senza consumarsi la suola delle scarpe, anche. La verità è che gli Dei non vogliono che si sappia che cosa fanno gli altri umani. Io non sapevo nemmeno esistessero Elfi e Nani, per non parlar dei draghi”, rimase per qualche tempo silenzioso, in parte per riprendere fiato, poi proseguì con voce più riflessiva: “Ho capito da parecchio tempo che gli Dei ci tengono ad avere tante zone quasi separate; hanno strutturato buona parte del mondo per questo. Ho studiato le mappe degli antichi e certe barriere non c’erano, o erano molto meno difficili da passare, come quella, per esempio.”
Erano arrivati al crinale e le vista poteva spaziare sulla stretta valle che avevano davanti, fino alla prossima catena. Sulla cima si vedeva chiaramente una parete rocciosa che spiccava come una cresta bianca sul dorso della montagna. Erano quasi arrivati al Muro.
“Quella cosa non esisteva, sembra naturale, ma sono sicuro che è stata fatta apposta per separare due territori. Riusciremo a passare, ma sono sicuro che non sarà facile. Quello che non capisco è il perché. Perché vogliono tenerci separati?”
“Qui, in particolare, c’è un ottimo motivo: non vogliono che le creature che vivono qui si mescolino con le altre, ma hai ragione, gli Dei non vogliono che sia troppo facile viaggiare, così come non vogliono che sia troppo facile uccidere. Per questo c’è un bando assoluto su diverse cose: motori, armi da fuoco e alcune altre cose di cui non ti sei ancora accorto.”
“Ma perché?”
“Questo lo dovrai capire da solo.”
“Un altro indovinello?”
“No. Nessuna “prova”. Questa volta la ragione è un’altra.”
“E sarebbe?”
“Non mi crederesti.”
“Mettimi alla prova.”
“No. Non è il caso. Accontentati di sapere che la ragione esiste e penso l’avrai capita prima che venga l’inverno.”

Jona non si diede per vinto facilmente, ma Mentore si richiuse in un mutismo ostinato finché lui non si decise a cambiare argomento.

La sera si accamparono su uno spuntone roccioso che usciva dal fianco della montagna e offriva riparo e una splendida vista sulla valle.

Jona era seduto accanto al fuoco e scorreva il testo e le immagini che restavano a mezz’aria davanti a lui, storie di vita quotidiana degli antichi. Bastava indicare, con un breve gesto della mano, un argomento o una singola parola e subito compariva una breve spiegazione del significato, seguito da una lunga lista di argomenti collegati; era facile perdersi in quella selva di riferimenti incrociati.

Ad un certo punto smise di muoversi e gli occhi cessarono di vedere quello che avevano davanti mentre lui seguiva un filo di pensiero che lo portava lontano, non tanto nello spazio quanto nel tempo. Mentore, che sapeva perfettamente quali erano gli argomenti che il Mago aveva consultato — li aveva mostrati lui, sia pure con funzioni semiautomatiche — attese pazientemente che seguisse il filo e arrivasse alle conclusioni.

Jona si riscosse e meccanicamente riattizzò il fuoco che languiva.
“Gli antichi avevano tutto questo”, disse facendo un gesto vago che comprendeva il libro immateriale che aveva davanti, Mentore stesso e chissà che altro, “avevano mezzi di comunicazione istantanei, trasmissione di immagini, enciclopedie e libri elettronici, video e riproduzioni audio sia per il divertimento che per la didattica e tante altre cose. La differenza è che quelli erano apparecchiature che loro costruivano e controllavano. Ora questa cose sono indubbiamente molto migliori — almeno per quel che ho capito — ma sono dei regali degli Dei, sui quali noi non abbiamo alcun controllo.”

Mentore rimase silenzioso senza muovere un muscolo, ammesso che ne avesse.

“Ci trattano come bambini!”

“Quanto ci hanno messo gli antichi ad arrivare al culmine della loro potenza?”
“Poco più di duemila anni.”
Mentore scoppiò in una risata mentre scuoteva decisamente la testa: “No, no. Stai facendo confusione. Quel periodo è poco dopo il 2000 Dopo Cristo, guarda.” Una piccola sbarra luminosa apparve davanti a i suoi occhi.
“Questo è il periodo nel quale sono stati disponibili tutti gli apparecchi di cui parlavi, circa trecento anni.”
La sbarra si allungò notevolmente con una sezione di un colore diverso: “Questo è invece il periodo dalla nascita di Cristo, data convenzionale per gli antichi.”
La barra crebbe ancora, più che triplicando: “Questo è invece il periodo cosiddetto “storico”, del quale avevano testimonianze scritte dirette.”
La sbarra schizzò via allungandosi nella notte, tanto che Jona non riuscì ad avere un’idea esatta di dove arrivasse: “Questo è, invece, il periodo dalla comparsa sulla Terra del primo Umano geneticamente identico a te.”

Jona lottò per mettere nella giusta prospettiva quei periodi lunghi oltre ogni possibile immaginazione, ma Mentore proseguì: “Quanti anni annovera la storia di Tigu?”
Jona rispose meccanicamente: “Siamo nell’anno 2735 dalla discesa degli Dei sulla Terra, ma i primi Umani sono stati creati nel 2100. Non più di seicento anni”, intanto il suo cervello cercava di riadattarsi alla nuova prospettiva; effettivamente, vista in questo modo, l’Umanità era veramente un bimbo in fasce che gli Dei stavano facendo crescere a tappe forzate.

Canoa

Il Muro era una normale parete rocciosa, quello che la rendeva straordinaria era il fatto che correva per centinaia di chilometri, quasi senza fratture, formando un’insormontabile barriera per qualunque dinosauro e un formidabile cimento anche per arrampicatori migliori di Jona.
Ora si trovava proprio davanti ad uno di quei “quasi”: una stretta fenditura poco più larga delle sue spalle, ingombra di massi che lo costringevano ad arrampicarsi con mani e piedi.
Arrivò sulla cima che era senza fiato e si sedette sulla pietra più liscia che riuscì a trovare calandosi il cappellaccio sugli occhi per difenderli dal sole che si riverberava sulla roccia bianca.
“C’è un punto relativamente comodo per discendere poco più avanti”, disse Mentore indicando verso sud.
Jona stava guardando verso occidente, da quel punto elevato vedeva una serie di basse montagne coperte di boschi che si perdevano nella foschia dell’orizzonte.
Il suo stato di scoramento si dipinse così chiaramente nei suoi occhi che Mentore si mise a ridere: “Il Muro, tra l’altro, fa da spartiacque.”
La mano di Jona corse verso l’orecchio sinistro.
“Ci sono fiumi che si possano scendere?”
“Scendere e risalire, ma avrai bisogno di una buona barca.”
“Possiamo costruire una zattera.”
“Difficile e pericoloso. Gli alberi qui sono relativamente pesanti. Non è legno buono per una zattera. Dovresti farla troppo grossa per portarci. Troppo massiccia per essere maneggevole nelle rapide.”
“Allora?”
“Da queste parti si usavano le canoe in corteccia di betulla.”
“Corteccia di betulla?”
“Sì, corteccia di betulla, radici di abete e legno di cipresso.”
“Immagino che tu sappia come farne una.”
“Mai fatta una in vita mia, ma Festo dice che ce la possiamo fare.”
Jona capì immediatamente che avrebbe rimpianto presto la sua vecchia zattera elfica, ma si alzò e si riaffibbiò lo zaino sulle spalle: “Per ora scendiamo da qui e cerchiamo un posto per accamparci, non vedo l’ora di mettere arrosto quel lucertolone che abbiamo acchiappato stamane.”

La sera erano occupati a costruirsi un riparo meno precario delle fronde degli alberi dove riposare. Sapevano bene che avrebbero passato un po’ di tempo da quelle parti. La capanna risultò comoda e spaziosa, coperta da un telo impermeabile che faceva parte della dotazione dell’assistente.

Rimasero lì, accanto al fiume, ancora poco più che un torrente, guadabile senza bagnarsi il petto, per quasi tre settimane alternando alla costruzione della barca la preparazione di provviste seccate al sole.

Jona imparò una quantità di cose che non avrebbe mai neppure sospettato, come il fatto che il legno di certi cipressi ha le fibre dritte come il filo di una spada e che è più facile ottenere buone tavole spaccando il tronco seguendo le vene che cercando di tagliarle con una sega o che gli abeti hanno delle radici lunghe e flessibili che possono essere usate per legare solidamente.

Mentore fu di grande aiuto soprattutto per i lavori pesanti o di particolare precisione, ma lasciò a Jona una quantità enorme di lavori manuali tra i quali la produzione di un’enorme pentolone di terracotta dove far bollire l’acqua calda necessaria per rendere malleabili legno e corteccia.

Jona imprecò come uno scaricatore del porto di Gena quando la prima pentola si ruppe mentre l’acqua bolliva, spegnendo il fuoco e andando molto vicina ad ustionarlo.

L’albero da cui tolsero la corteccia era una betulla enorme e dritta come una colonna. Era un vero peccato abbatterla e Jona lo disse a voce alta.
Si può togliere la corteccia anche senza abbattere l’albero, se non vi serve il legno. Resterà un po’ più debole e soggetta ai parassiti per un paio d’anni, ma ce la dovrebbe fare a sopravvivere”, disse Asclep che era apparso all’improvviso accanto a lui, “dovrai fare un po’ più fatica. soprattutto per le parti in alto, ma il bosco te ne sarà grato.
Scomparve, lasciando dietro di sé un’immagine che si avvolse attorno al tronco indicandogli dove tagliare e come staccare la corteccia.

Il libro diceva che gli indiani d’America impiegavano meno di un’ora per questa operazione. Lui impiegò mezza giornata, ma alla fine tornò all’accampamento con un lungo nastro che, srotolato, sarebbe stato quasi sette metri per due in bilico su una spalla e un sorriso di soddisfazione in volto che non aveva da parecchio tempo.

La barca prese lentamente forma, venne piegata, rinforzata, cucita, impermeabilizzata, sagomata e, alla fine, messa in acqua.

La pozza calma e chiara, troppo piccola per essere chiamata “laghetto” fu testimone di parecchi tuffi involontari mentre Jona imparava a pagaiare su quell’imbarcazione molto più nervosa e maneggevole, ma anche molto più instabile di quelle che aveva conosciuto in precedenza.

Mentore incise a fuoco “Rotbaadsmand”, il “Barcaiolo Rosso” in fini caratteri elfici sui due lati della prua di quell’imbarcazione lunga più di sei metri e che sarebbe stata in grado di portare una mezza dozzina di persone.

Quella sera stessa smontarono gran parte del campo e rimisero negli zaini la maggior parte delle loro cose.
L’indomani mattina alle prime luci dell’alba caricarono i loro zaini al centro della canoa e impugnarono le pagaie. La posizione di voga era tutt’altro che comoda, inginocchiati sul fondo, ma Jona scoprì presto che, per seguire il filo della corrente, poteva anche stare comodamente seduto sulla panchetta. La pagaiata era meno potente, ma le sue ginocchia lo ringraziarono, nonostante l’allenamento fatto durante le meditazioni con il Djinn.

Il fiume correva veloce in una stretta valle che si era tagliato, in chissà quanto tempo, fra le montagne che diventavano sempre più rotonde e basse.
Dopo tre giorni di navigazione arrivarono ad un grande lago poco prima del punto dove il Cheat confluiva con il Mongahela — Jona e Mentore avevano preso l’abitudine di chiamare i luoghi con i nomi che gli avevano dato gli antichi.
Furono costretti a pagaiare sulle acque calme per molte ore, prima che il fiume riprendesse velocità. Quando arrivarono alla confluenza le montagne erano oramai basse colline e i boschi regnavano ininterrotti.

Saluto

Il territorio era corrugato e i fiumi si erano scavati la strada, spesso tagliando valli relativamente strette, ma le alture ai lati diventavano sempre più basse, le rapide rare e il fiume largo e lento. Pagaiare diventava una necessità, altrimenti avrebbero fatto ben poca strada ogni giorno.

“Tra non molto arriveremo alla confluenza con l’Ohio”, disse ad un certo punto Mentore, dopo parecchi giorni di navigazione tranquilla.
“Lo so, è la terza volta che me lo dici. Mi sono perso qualcosa?”
“Sulla sponda destra dell’Ohio c’è il territorio dei Navajos.”
“Uhm, contiamo di incontrarli?”
“Non credo dipenda solo da noi.”
“Tu tornerai nell’Amuleto, vero?”
“Penso sia la cosa più saggia.”
Un velo di tristezza passò sul viso di Jona:

“No. Non mi aiuta. Ho sempre considerato il proverbio “mal comune è mezzo gaudio” una vera idiozia.”
“Mi fa piacere sentirtelo dire e sono d’accordo con te, ma mi piacerebbe sapere perché tu pensi una cosa del genere.”
“Semplice”, rispose Jona con la sicurezza di chi ha rimuginato a lungo sulla cosa,
“Sia come sia. Questa è l’ultima notte che passerò in questo corpo. Domattina l’Amuleto tornerà a brillare.”
“L’avevo capito. Sarò costretto a pagaiare da solo.”
“Non è detto. Sei in possesso di un oggetto prezioso, che i Navajos non sanno costruire. Potresti cercare di barattare la canoa con un aiuto a raggiungere le grandi montagne.”