Canoa

Il Muro era una normale parete rocciosa, quello che la rendeva straordinaria era il fatto che correva per centinaia di chilometri, quasi senza fratture, formando un’insormontabile barriera per qualunque dinosauro e un formidabile cimento anche per arrampicatori migliori di Jona.
Ora si trovava proprio davanti ad uno di quei “quasi”: una stretta fenditura poco più larga delle sue spalle, ingombra di massi che lo costringevano ad arrampicarsi con mani e piedi.
Arrivò sulla cima che era senza fiato e si sedette sulla pietra più liscia che riuscì a trovare calandosi il cappellaccio sugli occhi per difenderli dal sole che si riverberava sulla roccia bianca.
“C’è un punto relativamente comodo per discendere poco più avanti”, disse Mentore indicando verso sud.
Jona stava guardando verso occidente, da quel punto elevato vedeva una serie di basse montagne coperte di boschi che si perdevano nella foschia dell’orizzonte.
Il suo stato di scoramento si dipinse così chiaramente nei suoi occhi che Mentore si mise a ridere: “Il Muro, tra l’altro, fa da spartiacque.”
La mano di Jona corse verso l’orecchio sinistro.
“Ci sono fiumi che si possano scendere?”
“Scendere e risalire, ma avrai bisogno di una buona barca.”
“Possiamo costruire una zattera.”
“Difficile e pericoloso. Gli alberi qui sono relativamente pesanti. Non è legno buono per una zattera. Dovresti farla troppo grossa per portarci. Troppo massiccia per essere maneggevole nelle rapide.”
“Allora?”
“Da queste parti si usavano le canoe in corteccia di betulla.”
“Corteccia di betulla?”
“Sì, corteccia di betulla, radici di abete e legno di cipresso.”
“Immagino che tu sappia come farne una.”
“Mai fatta una in vita mia, ma Festo dice che ce la possiamo fare.”
Jona capì immediatamente che avrebbe rimpianto presto la sua vecchia zattera elfica, ma si alzò e si riaffibbiò lo zaino sulle spalle: “Per ora scendiamo da qui e cerchiamo un posto per accamparci, non vedo l’ora di mettere arrosto quel lucertolone che abbiamo acchiappato stamane.”

La sera erano occupati a costruirsi un riparo meno precario delle fronde degli alberi dove riposare. Sapevano bene che avrebbero passato un po’ di tempo da quelle parti. La capanna risultò comoda e spaziosa, coperta da un telo impermeabile che faceva parte della dotazione dell’assistente.

Rimasero lì, accanto al fiume, ancora poco più che un torrente, guadabile senza bagnarsi il petto, per quasi tre settimane alternando alla costruzione della barca la preparazione di provviste seccate al sole.

Jona imparò una quantità di cose che non avrebbe mai neppure sospettato, come il fatto che il legno di certi cipressi ha le fibre dritte come il filo di una spada e che è più facile ottenere buone tavole spaccando il tronco seguendo le vene che cercando di tagliarle con una sega o che gli abeti hanno delle radici lunghe e flessibili che possono essere usate per legare solidamente.

Mentore fu di grande aiuto soprattutto per i lavori pesanti o di particolare precisione, ma lasciò a Jona una quantità enorme di lavori manuali tra i quali la produzione di un’enorme pentolone di terracotta dove far bollire l’acqua calda necessaria per rendere malleabili legno e corteccia.

Jona imprecò come uno scaricatore del porto di Gena quando la prima pentola si ruppe mentre l’acqua bolliva, spegnendo il fuoco e andando molto vicina ad ustionarlo.

L’albero da cui tolsero la corteccia era una betulla enorme e dritta come una colonna. Era un vero peccato abbatterla e Jona lo disse a voce alta.
Si può togliere la corteccia anche senza abbattere l’albero, se non vi serve il legno. Resterà un po’ più debole e soggetta ai parassiti per un paio d’anni, ma ce la dovrebbe fare a sopravvivere”, disse Asclep che era apparso all’improvviso accanto a lui, “dovrai fare un po’ più fatica. soprattutto per le parti in alto, ma il bosco te ne sarà grato.
Scomparve, lasciando dietro di sé un’immagine che si avvolse attorno al tronco indicandogli dove tagliare e come staccare la corteccia.

Il libro diceva che gli indiani d’America impiegavano meno di un’ora per questa operazione. Lui impiegò mezza giornata, ma alla fine tornò all’accampamento con un lungo nastro che, srotolato, sarebbe stato quasi sette metri per due in bilico su una spalla e un sorriso di soddisfazione in volto che non aveva da parecchio tempo.

La barca prese lentamente forma, venne piegata, rinforzata, cucita, impermeabilizzata, sagomata e, alla fine, messa in acqua.

La pozza calma e chiara, troppo piccola per essere chiamata “laghetto” fu testimone di parecchi tuffi involontari mentre Jona imparava a pagaiare su quell’imbarcazione molto più nervosa e maneggevole, ma anche molto più instabile di quelle che aveva conosciuto in precedenza.

Mentore incise a fuoco “Rotbaadsmand”, il “Barcaiolo Rosso” in fini caratteri elfici sui due lati della prua di quell’imbarcazione lunga più di sei metri e che sarebbe stata in grado di portare una mezza dozzina di persone.

Quella sera stessa smontarono gran parte del campo e rimisero negli zaini la maggior parte delle loro cose.
L’indomani mattina alle prime luci dell’alba caricarono i loro zaini al centro della canoa e impugnarono le pagaie. La posizione di voga era tutt’altro che comoda, inginocchiati sul fondo, ma Jona scoprì presto che, per seguire il filo della corrente, poteva anche stare comodamente seduto sulla panchetta. La pagaiata era meno potente, ma le sue ginocchia lo ringraziarono, nonostante l’allenamento fatto durante le meditazioni con il Djinn.

Il fiume correva veloce in una stretta valle che si era tagliato, in chissà quanto tempo, fra le montagne che diventavano sempre più rotonde e basse.
Dopo tre giorni di navigazione arrivarono ad un grande lago poco prima del punto dove il Cheat confluiva con il Mongahela — Jona e Mentore avevano preso l’abitudine di chiamare i luoghi con i nomi che gli avevano dato gli antichi.
Furono costretti a pagaiare sulle acque calme per molte ore, prima che il fiume riprendesse velocità. Quando arrivarono alla confluenza le montagne erano oramai basse colline e i boschi regnavano ininterrotti.