5: Hashashin

Duliana

“Cosa posso fare per Lei, Signora?” Gli occhi di Duliana, neri e lucenti come l’ossidiana, la fissavano incerti. Non si era aspettata quella visita nei suoi appartamenti che erano ben più ampi di quanto Serna avesse immaginato.
La Maga si morse un labbro. Inutile girarci attorno: “La prima cosa che mi ha insegnato mia nonna, quando sapevo a malapena parlare, è che, quando si sbaglia, si deve sempre chiedere scusa. Sono qui per chiederti scusa di come mi sono comportata la prima volta che ci siamo visti. Mi sono mostrata come una ragazzina bizzosa che vuole essere al centro dell’attenzione. Scusa”, disse quasi tutto d’un fiato.

Duliana ci mise qualche istante a capire a cosa si riferisse e scoppiare in una risata argentina che doveva aver stregato più di un uomo; anche Serna sentì la potenza del suo fascino.
Si interruppe quasi di colpo, con due occhi che, per un singolo istante, oltre al colore assunsero anche la durezza dell’ossidiana: “Immagino che tua nonna ti abbia anche insegnato a ringraziare chi ti fa un favore, vero?”
Serna si limitò ad annuire e Duliana proseguì: “A me, invece, hanno insegnato a non ringraziare mai. Ad accettare qualunque cosa, comunque gradita, come fosse una cosa normale, dovuta”, vedendo che Serna stava per ribattere, la danzatrice la fermò con un piccolo gesto della mano, “è solo per questo che non ti ho ringraziata prostrandomi ai tuoi piedi, quella sera.” Lo sguardo era molto più dolce, ora:
La maga era interdetta:
Duliana si limitò ad alzare un sopracciglio e ad ignorare quella domanda sconveniente: “Grazie.”

Le due donne si studiarono per qualche istante.
“Ti avevo giudicata molto male: una donna che non ha rispetto di sé stessa e degli altri.”
Duliana rimase silenziosa ancora un po’, poi, cambiando ancora una volta espressione e abbandonando completamente l’atteggiamento seduttivo che sembrava esserle così congeniale rispose: “Anche io, forse, avevo sbagliato a giudicarti, Maga. Forse puoi ancora imparare qualcosa. Immagino che la partenza di quel bamboccio che ti eri portata appresso ti abbia fatto bene.”

Serna stava per replicare qualcosa sferzante, non sapeva bene neppure lei cosa, ma si morse la lingua e tacque. Quello che aveva appena detto Duliana conteneva troppa verità per essere accantonato, anche se era stato detto, intenzionalmente, in modo da irritare.
“Sono sicura che avresti molte cose da insegnarmi”, rispose invece, “quello di cui non sono sicura è che sia un bene, per me, impararle.”
Duliana alzò un sopracciglio in un arco perfetto: “Può essere che tu abbia ragione, Maga, ma perché dici questo?”
“Non lo so, di preciso. Ci sono alcune cose che mi vengono in mente, ma non credo che sia tutto.”

“Non sono sicura che sapere come manipolare gli altri, affascinarli sia quello che voglio fare. Sono sicura, invece, che, almeno fino a che è durata, la relazione con Fermo è stata divertente. Vorrei averne altre, in futuro.”
La danzatrice scoppiò in un’altra risata, sinceramente divertita: “Cosa ti fa pensare che saper saper far innamorare gli altri di te ti impedisca di innamorati degli altri?”
“Non devi essere sempre attenta a come ti muovi, a quello che fai? Come puoi lasciarti andare?”
Duliana scosse la testa facendo ondeggiare la sua massa di lunghi capelli neri: “No, non funziona così”, poi chiese a bruciapelo: “Qual è il modo migliore di mentire?”
Serna non ebbe bisogno di pensare per rispondere: “Dire la verità.”
“Appunto.”
“Vuoi dire che tu ami veramente tutte le persone che seduci?” La voce di Serna era velata da un retrogusto di scetticismo che fu premiato dalla risposta:

Rimasero a parlare a lungo e, se Serna stava sinceramente cercando di capire il punto di vista dell’altra, Duliana si stava sicuramente divertendo a spiegare alcuni dei suoi segreti a quella ragazzina che, sebbene avesse solo pochi anni meno di lei, le sembrava veramente sprovveduta.

Era molto tardi quando la Maga si alzò dai cuscini profumati per far ritorno ai suoi appartamenti, nell’ala del palazzo dedicata agli ospiti.
Si fermò un attimo sulla soglia e, prima di uscire, chiese a Duliana: “Ma lui lo sa che l’ami?”
La danzatrice la guardò con due occhi penetranti cercando di capire quanto lei avesse già indovinato, poi si rilassò e rispose:

Palla

Rimase per diversi giorni nei suoi appartamenti a rimuginare, scrivere e pensare.
Adesso rimpiangeva di aver insistito perché Darda ritornasse in patria assieme ad Agio e Fermo. Aveva bisogno di parlare con qualcuno di cui potersi fidare.
Accarezzò l’idea di parlare con suo padre, ma sapeva che non era la persona giusta, in questo caso.

Una mattina, di buon’ora, dopo essersi preparata al meglio, cominciò le invocazioni per la Dea.
Pochi minuti dopo, senza farsi attendere troppo, Palla era di fronte a lei, dritta come un soldato e con quel suo sguardo d’acciaio che era così difficile da sostenere.

“Cerco saggezza, oh Dea.”
Potrai trovarla solo nel tuo cuore.

L’espressione della Dea era imperscrutabile, ma non più del solito, si consolò lei.
“Ho cercato nel mio cuore, ma non ho trovato risposte, o, forse, ne ho trovate troppe.”
La Dea non mosse un muscolo e Serna proseguì: “Ho parlato a lungo con Duliana, la danzatrice e sono confusa. Molte delle cose che mi dice sono sensate, ma sento che sono false. Ho provato a capire dove sbaglia, ma non ci sono riuscita. Ho provato anche a capire se sono io che sbaglio, ma anche qui non ho certezze. Per questo invoco la Tua saggezza.”

Ancora una volta la Dea rimase immobile e silenziosa. L’unico indizio che non di trattasse si una statua di candido marmo erano gli occhi che le scavavano l’anima.

“Duliana mi dice che bisogna vivere nel presente, che è inutile preoccuparsi del domani. In qualche modo anche gli insegnamenti del Djinn di Isto vanno nella stessa direzione”, Serna stava recitando il discorso che si era preparata, accuratamente bilanciato fra la necessità di mostrare che aveva meditato prima di invocare la Dea e la completa inutilità di tediarla con particolari che Lei conosceva benissimo. Proseguì spedita: “Ma questo contrasta con quello che mi ha insegnato mio padre e che sento nel mio cuore: il futuro è importante e le nostre azioni possono modificarlo in modo molto significativo. Non possiamo trascurarlo.”

“Ti prego, guidami oh Dea!”

La Dea rimase algida mentre rispondeva: “Nessuno conosce veramente il futuro. Gli Uomini conoscono, quando lo conoscono, quello che è successo, non quello che avrebbe potuto succedere se avessero fatto altre scelte.

Serna soppesò rapidamente le parole della Dea; sapeva di avere pochi secondi prima che questa svanisse.

La seconda parte è corretta, ma la prima no. Le probabilità sono qualcosa che usate per spiegare quello che fate quando ragionate, ma non è così che ragionate davvero.

La Maga rimase interdetta, poi, con uno dei suoi lampi improvvisi capì: “La mia intuizione. Il capire cosa succederà senza ragionamento. Non sono diversa dagli altri. Anche loro fanno la stessa cosa, ma non lo sanno.”

Ma anche tu ragioni, non è vero?

Cosa intendi, esattamente, per “agire d’istinto”?

Serna deglutì sotto la sferza e vuotò la mente, come le aveva insegnato a fare il Djinn. Si ascoltò poi rispondere: “Quando agisco d’istinto, come in questo momento, le parole o le azioni fluiscono dalla mia mente senza la mediazione del linguaggio. Non penso verbalmente.”

La Dea tornò ad essere solida come il marmo di cui pareva fatta.
E cosa succede a quelli che “non lo sanno”?
“La maggior parte della gente pensa usando il linguaggio e crede che i loro pensieri siano tutti lì, nelle parole.”

C’è qualcosa di male in questo?
“Se sei convinto che le parole siano l’essenza delle cose finisci per guardare le parole che descrivono il mondo, invece di guardare il mando.”

Quindi bisognerebbe, secondo te, abolire il linguaggio?

Come metti d’accordo le tue ultime due affermazioni?
“Il linguaggio è importante per rappresentare la realtà e i nostri pensieri. L’errore sta nel confondere la rappresentazione con l’oggetto rappresentato. Le parole sono una semplificazione, a volte estrema, della complessità della realtà.”

Solo questo?
“No”, Serna esitò un attimo, “a volte lo uso anche per comprovare le mie intuizioni”, disse, sentendo che si stava infilando in un dedalo pericoloso.

Quindi anche le tue “intuizioni” possono sbagliare?
“Sì”, rispose a malincuore, “anche se succede di rado.”

E, dimmi, come mai? Mi stai dicendo che si basano sul mondo reale, non su una rappresentazione, vero?” La Dea sembrava sinceramente interessata alla risposta e si era chinata per osservarla meglio; la Maga sudava freddo.
“Probabilmente perché anche quelle si basano su una rappresentazione; più completa delle parole, ma pur sempre una rappresentazione nel mio cervello.”

Hai idea di che genere di rappresentazione usi?
Serna scosse la testa: “A volte ho come l’impressione di entrare dentro le cose che voglio capire e guardarle da dentro, farle agire come se si trattasse del mio stesso corpo, anche se si tratta di cose inanimate.”

La Dea tornò dritta e statuaria, con un leggerissimo sorriso che poteva anche essere solo un’impressione o un’ombra:

La Dea non si curò di rispondere.

Serna si rabbuiò: “Ma cosa c’entra questo con quel che mi diceva Duliana?”
Lo chiedo a te”, fu la laconica risposta.

La Dea le aveva già detto qualcosa che le era sfuggito. Da dove erano partiti? Ah, certo!

Per la seconda volta la Dea rispose con voce sferzante e la ragazza sentì la pelle bruciare come fosse stata veramente frustata: “No. Come puoi dire una cosa così sciocca? Duliana sa perfettamente quali sono le conseguenze delle proprie azioni. Conosce alla perfezione l’effetto che può avere anche un semplice movimento della mano o un’inflessione della voce. Dovresti averlo ben capito.

La Dea aveva ragione, come sempre, ma Serna sapeva anche che, a dispetto delle apparenze, quello che aveva detto era vero. Lo sentiva con tutto il suo essere. Come potevano essere conciliate le due cose? Dimenticare l’umiliazione. Concentrarsi su quel piccolo nucleo duro al centro del suo corpo

E tu lo sai?” La voce era sempre dura, ma almeno non sprezzante.
“No, naturalmente. Anche se non lo avessi chiaramente detto tu non sono così sciocca da pensare di poter prevedere il futuro.”

E allora? Dov’è la differenza?
Ancora una volta Serna rispose d’istinto, quasi sorpresa mentre ascoltava le parole che le uscivano di bocca: “Penso sia una questione di intenzioni, di interesse. A me interessa veramente cercare di capire quali saranno le conseguenze delle mie azioni e se posso influenzare il futuro per il meglio. Per quello che ritengo il meglio, voglio dire. Forse sono solo troppo presuntuosa, ma penso anche di riuscirci.”

Serna tremava dalla tensione, ma si costrinse a rilassarsi e a lasciar fluire i pensieri. Il nodo si sciolse lentamente mentre rispondeva:

La Dea stava ora sorridendo apertamente:
“So che quasi tutti si preoccupano solo delle impellenze immediate — e non si parla solo di Duliana, naturalmente, che è persona tutt’altro che ordinaria. Penso sia stata l’influenza di mio padre e il suo insegnamento.”

Non solo, giovane maga. Prova a chiedere a Dana.
Dana? La Dea della fauna? Che c’entrava? Dana era anche quella che le aveva spiegato le ferree leggi della selezione naturale, quelle che Thano faceva rispettare a tutti gli esseri viventi, mentre Dana inventava sempre nuovi modi per aggirare le difficoltà della Vita che si oppone alla Morte. Possibile che avesse pensato anche a questo? Evidentemente sì.
“Si può pensare al futuro solo quando non si è in pericolo immediato. Gli animali vivono sempre nel presente, preoccupati di sopravvivere ora per prolificare il più presto possibile. L’umanità ha ereditato questo”, si interruppe un attimo, sorpresa dalla sua stessa idea, “mi stai dicendo che Dana sta cambiando il nostro modo di pensare? Che io e mio padre siamo parte di un Suo Disegno?”

La Dea stava scuotendo il capo, ma sorrideva ancora e la voce era dolce: “No. Anche se, alle volte, gli Dei creano delle intere razze, non ci è permesso modificare il modo di pensare cambiando le strutture cerebrali, una volta che è stata creata.
“Non ci è permesso”; permesso da chi? Serna non fece la domanda. Sapeva bene che a quel genere di domande gli Dei non rispondevano mai. Dopo una breve pausa Palla proseguì: “Naturalmente possiamo coltivare i germogli spontanei che riusciamo a scorgere.

“Perché è tanto importante questo modo di pensare?”
Sono sicura che tuo padre ti ha parlato degli antichi”, rispose la Dea con un tono che indicava come il colloquio fosse al termine; altre domande non sarebbero state gradite.

La Dea sorrideva ancora mentre lentamente svaniva. Serna, improvvisamente, le chiese:
Palla ritornò completamente solida con un lampo sinceramente divertito negli occhi:

Rapimento

La guardia era stata molto formale quando era venuta a chiederle se poteva, per favore, essere così gentile da concedere l’onore di un colloquio al Visir, ma il senso di urgenza era palpabile e Serna non si era fatta pregare.
Ora stava percorrendo a rapidi passi il lungo corridoio arabescato che conduceva agli appartamenti privati del Visir.
Si vedevano dodici giannizzeri armati di tutto punto che montavano la guardia vicino ad ogni porta.
Il senso di urgenza, se possibile, crebbe ulteriormente.

Il Visir era scuro in volto, ma si sforzò di sorridere e offrì cortesemente una tazza di te scuro e profumato, poi, con tutta la velocità consentita dalle elaborate regole di ospitalità del sultanato, venne al punto: “Il capo dei miei giannizzeri è sparito”, disse guardandola dritto negli occhi,
La Maga ebbe un tuffo al cuore. Il Geco? Rapito? Qui a Palazzo? Non c’era da stupirsi che il Visir fosse nervoso.

Sapeva bene cosa aveva in mente, così come sapeva che gli obblighi di ospitalità gli impedivano di chiedere; gli venne in aiuto offrendo spontaneamente la sua collaborazione: “Chiedo umilmente il permesso di cercare di essere d’aiuto. Sindehajad è un amico e sono profondamente preoccupata per la sua sorte.”
Il Visir non perse neppure il tempo necessario per un sospiro di sollievo. Ringraziò con un cenno del capo mentre chiamava due giannizzeri che non sembravano attendere altro e diceva loro con un tono che non ammetteva replica: “Accompagnate la Maga negli appartamenti di Sindehajad e fate qualunque cosa vi chieda di fare.”

Si accomiatò dal Visir con la massima celerità consentita dal cerimoniale e filò dritta come un siluro verso gli appartamenti con i due giannizzeri alle calcagna.

Serna non era mai entrata nelle stanze riservate al Geco, ora pesantemente sorvegliate e, mentre si avvicinava, si chiese oziosamente che cosa aspettarsi. Sindehajad era un guerriero e un uomo d’azione. L’aveva dimostrato più volte. Si rendeva improvvisamente conto di non sapere assolutamente cosa facesse quando non era in servizio come capo dei giannizzeri

Varcò la soglia sentendosi quasi un’intrusa. L’appartamento era composto da una singola stanza, molto ampia e quasi quadrata. Il letto occupava un angolo poco più in là, in bell’ordine, c’era l’assortimento di armi da lancio e da taglio che Serna si era aspettata, ma che pareva minuscolo al confronto sia della libreria, che occupava un’intera parete, sia della collezione di strumenti musicali a fiato e a corde.
Libri e strumenti sembravano molto usati.
Alcuni bassi tavolini circondati da cuscini e due cassapanche sotto le finestre completavano l’arredamento.

La maga abbracciò l’intera stanza con lo sguardo.
Il letto era sfatto e i cuscini sparsi. C’erano segni di una breve colluttazione. Probabilmente il Geco era stato sorpreso nel sonno e ridotto rapidamente all’impotenza. Nessuno aveva sentito nulla.
Da dove lo avevano portato via? Non certo da una finestra. Come molte finestre dei piani bassi del Palazzo erano rinforzate da un’elegante grata di pietra finemente lavorata; un braccio sarebbe potuto passare, ma un corpo no, nemmeno un corpo snodato ed agile come quello di Sindehajad; legato o incosciente, poi

Una coscienziosa ricerca, però, non rivelò altre uscite. Dietro i pesanti tendaggi c’erano, è vero, alcune porte che conducevano a piccole stanze, al bagno e ad alcuni ripostigli, ma erano tutte cieche e l’unico ingresso era quello dal quale era entrata lei. Anche gli altri non sapevano spiegarsi come fosse sparito. Anche di notte i corridoi interni erano sorvegliati e un corpo non è esattamente un oggetto facile da nascondere. Nessuno ricordava di aver visto qualcuno portare ceste, casse, e nemmeno tappeti arrotolati.

Che nessuno avesse visto o ricordasse non significava che non fosse successo, naturalmente, e i giannizzeri stavano interrogando tutti con estrema coscienziosità. Avevano cominciato con i propri commilitoni, poi erano passati alla servitù e Serna non dubitava che sarebbero arrivati ad interrogare lo stesso Visir, pur di ritrovare il loro comandante.

La Maga non era per niente convinta, senza sapere nemmeno lei perché, che quella fosse la via giusta, ma si guardò bene dal dirlo.
Riprese, invece, ad esaminare la stanza con l’aiuto dell’Amuleto. Gli fece esaminare il letto, la tazza da cui aveva bevuto, gli strumenti ed i vestiti finché non fu certa che l’Amuleto aveva imparato a riconoscere le tracce corporee di Sindehajad meglio di qualsiasi cane da caccia. Poi cominciò a fargli esaminare la stanza ed i corridoi.
Inutile. C’erano tracce dappertutto. Impossibile trovare un nesso. Il Geco, tenendo fede al suo nome, si era arrampicato anche in cima ad una finestra.

Un momento. Il cuore di Serna saltò un battito. C’erano tracce solo in cima alla finestra. Come ci era arrivato?
La scala apparve quasi per magia pochi istanti dopo che l’aveva chiesta.
C’erano alcuni brandelli di un tessuto nero che assomigliava molto a quello che Sindehajad si drappeggiava sul viso.
Una larga sezione della grata di pietra, vicino al soffitto, era stata segata, spostata e poi rimessa a posto fissandola con una qualche colla, in modo che non cadesse.
Il taglio era quasi invisibile anche con l’aiuto dell’Amuleto. Senza sarebbe passato completamente inosservato.

Chiese di restare sola. Gli altri si dileguarono rapidamente, ma i due giannizzeri ai quali l’aveva affidata il Visir si rifiutarono ostinatamente di lasciarla sola. Spazientita Serna ingiunse loro di rimanere sulla porta, poi tornò alla finestra e, coprendo col suo corpo la loro visuale, estrasse il ruhmal e lo usò sulla grata di pietra. Si tagliò senza rumore e senza sforzo. Il taglio era identico a quello da cui avevano fatto uscire Sindehajad.

Visir

“Hai dei nemici potenti, oh Visir.”
Erano soli nel piccolo studio del potente commerciante che rimase perfettamente immobile. L’affermazione di Serna, infatti, era talmente ovvia da essere accomunata a un’estensione degli elaborati saluti che l’etichetta fenaraba imponeva.
“Sindehajad è stato rapito dagli Assassini.”
Fece una breve pausa per lasciare che il nome facesse il dovuto effetto e quindi proseguì: “O, almeno, un ruhmal è stato usato per tagliare la grata della sua finestra.”
“Hanno un’intera notte di vantaggio, ma sono sicura di poter trovare le loro tracce. Dovremo agire rapidamente, ma in segreto, se vogliamo sperare di salvare il tuo giannizzero.”
Il Visir era visibilmente preoccupato: “Siamo arrivati alla resa dei conti, dunque? Speravo di essere riuscito a mantenere un basso profilo nella lotta contro il Califfo, ma non è uno sciocco e ha finalmente capito chi tiene le fila dell’opposizione”, disse con un sospiro, “Finora si è trattato di azioni prevalentemente commerciali, ma da ora in poi sarà lotta aperta fra noi e gli Hashashin, temo.”
“Hashashin?”
“Sì quello è il loro nome. Noi li chiamiamo comunemente Assassini, ma è considerata una storpiatura dispregiativa. Ora che la guerra è stata dichiarata è bene riconoscere al nemico dignità e rispetto. Mai sottovalutarlo.”

“Chiedo il permesso di cercare di recuperare il tuo guerriero. Non c’è molto tempo. Vorrei agire immediatamente. Imploro rispettosamente di non far nulla che possa insospettire gli Hashashin fino al mio ritorno”, disse Serna a capo chino.
Il Visir la guardò con un lampo malizioso negli occhi: “Vedo che mi si chiede il permesso, ma poi si danno ordini. Hai ancora molto da imparare, Maga, nonostante i tuoi sforzi.”
Serna si sentì avvampare mentre il Visir proseguiva: “Il permesso che chiedi è accordato, ma ad una condizione.”
“Quale, oh signore?”
“Sindehajad non deve arrivare vivo a Gadadh. Se riuscirai a salvarlo bene, molto bene, ma se non ci riuscirai non deve essere messo in condizioni di rivelare quello che sa. In nessun caso. I carcerieri del Califfo sanno essere molto convincenti, purtroppo”, terminò con voce cupa.
Serna esitò il tempo necessario a far capire che aveva valutato le conseguenze:

“Di che cosa hai bisogno?”
“Di quattro guerrieri fidati, di cinque cavalli e di provviste per alcuni giorni”, rispose la Maga facendo il gesto di alzarsi, per poi trattenersi mordendo il freno.
“Li troverai nel cortile, ma, prima di andare, prendi questo”, disse porgendole il più piccolo dei suoi anelli, quello che ornava il mignolo sinistro.

Inseguimento

Era un giannizzero molto piccolo con delle ampie spalle quello che si avvicinò di corsa ai quattro che attendevano Serna e balzò agilmente sul cavallo libero gridando: “Andiamo!”
La grossa fibbia di legno alla cintura del nuovo arrivato brillò brevemente di luce gialla e il volto di Serna apparve sotto il tagelmust.

L’Amuleto non brillava più, ma era in piena attività e stava analizzando milioni di campioni di terreno per confrontarli con i dati personali di Sindehajad.

Girarono al galoppo attorno al muro di cinta finché la traccia non riapparve, esile, ma chiara. Serna sorrise. Il Geco doveva aver usato molte volte le sue abilità per lasciare il palazzo senza scomodarsi ad usare la porta principale; c’erano molte tracce, ma questa era certamente la più recente, puntinata da piccoli frammenti del velo nero che Sindehajad stava evidentemente strappando per lasciare una traccia.

Gli occhi di Serna seguivano la flebile galassia di lucciole gialle che solo lei poteva vedere.

Seguirono stradine polverose lontane dal centro cittadino per poi arrivare alla grande porta dell’est da cui partiva la lunga pista che portava, attraverso il deserto, fino alla valle di Gadadh.

La pista si inerpicava su per i monti boscosi dell’entroterra, dominati dai grandi cedri. I cinque cavalieri procedevano al piccolo galoppo che quei corsieri erano in grado di reggere a lungo senza sfiancarsi.
Serna aveva ceduto le briglie al capo del drappello, un cugino del Geco e si lasciava trasportare, assecondando automaticamente i movimenti del cavallo, concentrata sulle immagini che l’Occhio dal Cielo le mostrava.

Avevano oramai lasciato alle spalle le ultime abitazioni e la strada era chiara, ben battuta e, soprattutto, notò lei con un sorriso, univoca: non c’erano deviazioni per molti chilometri, fino alla grande valle fluviale che vedeva dall’alto con villaggi sparsi fra i campi coltivati. Oltre riprendeva la pista per Masq, sul limitare del deserto che racchiudeva la grande valle di Gadadh.

Si concentrò sul tratto di strada che avevano davanti che si snodava lungo il fiume risalendolo.
Se i rapitori erano usciti all’alba, all’apertura delle porte, e stavano procedendo alla massima velocità possibile dovevano essere pressappoco da queste parti.
Nonostante il sentiero fosse, per larghi tratti, coperto dalle fronde degli alberi non tardò a individuare il gruppo di tre cavalieri che li precedeva. Erano più vicini di quanto si aspettasse, ma erano strani. Qualcosa non andava.
Invocò l’aiuto di Zeo, che la rapì su uno dei suoi falchi che si librava nelle vicinanze. Le immagini erano nettissime, anche se con strani colori.
Serna imprecò fra i denti: i rapitori viaggiavano a dorso di mehari, più lenti del cavalli, ma anche molto più resistenti. Non sarebbero riusciti a raggiungerli.
Il falco riprese quota e la portò a fare un ampio giro sulle montagne e fino ai bordi della pianura del fiume ‘Llitan, poi le immagini si interruppero bruscamente.

Quando i cavalli cominciarono a schiumare, mostrando di essere vicini al limite della loro resistenza, il drappello si fermò in un verde prato vicino al fiume.
Mentre i giannizzeri toglievano le selle ai cavalli e li asciugavano la maga si accoccolò con la schiena appoggiata al tronco di un grande cedro e cominciò a scrivere due lettere.

L’Amuleto le comunicò che i cavalli avevano smaltito le tossine della corsa con un breve sussurro.
Serna chiamò due dei giannizzeri: il più alto e massiccio e il più mingherlino, un ragazzo che pesava forse meno di lei, ma si era già distinto per coraggio ed abilità, e affidò loro le lettere, entrambe sigillate con il sigillo del Visir.

Cambio di programma

“Ah, vedo che ce l’ha fatta ad arrivare fin qui”, disse il mercante allo stalliere che stava finendo di asciugare due cavalli evidentemente stremati.
“Sì, è arrivato, si è preso due dei nostri cavalli migliori ed è ripartito come il vento”, rispose l’uomo senza alzare gli occhi dal suo lavoro,

I due mercanti si scambiarono un’occhiata, uno dei due lanciò una piccola moneta di rame che lo stalliere afferrò al volo quasi senza girarsi continuando a borbottare ai cavalli mentre loro giravano intorno alla casa verso la tettoia riservata ai dromedari e, dopo averli impastoiati, li liberarono dal loro carico.
Nessuno notò il piccolo brandello di stoffa nera che cadeva da un buco di una delle due ceste da carico.

Agguato

Era pomeriggio inoltrato quando i due mercanti lasciarono la pista principale per imboccare lo stretto sentiero che piegava verso nord-est.
Chiunque li aspettasse a Masq avrebbe atteso a lungo.
I dromedari avrebbero sofferto un po’ la strada, preferivano di gran lunga le sabbie del deserto, ma il sentiero era addirittura più breve.
Più breve ma poco battuto. Uno dei due scese dalla sua cavalcatura e percorse un lungo tratto a piedi, poi risalì soddisfatto.
“Da qui non è passato nessuno da giorni”, disse, mentre riprendevano la corsa nella stretta valle.

A sera si fermarono al “solito posto”, una piccola radura riparata da uno sperone roccioso vicino ad un rivolo di acqua fresca, dove accesero il fuoco in un cerchio di pietre già annerite dall’uso.

La notte era scura. La falce di luna sarebbe sorta solo molto più tardi, dopo la mezzanotte.
La notte era scura, nera come l’ala di Ipno che si abbatté improvvisa su di loro facendoli crollare, senza nemmeno accorgersene, in un sonno profondo e innaturale.

Quattro figure ammantate di nero scesero rapidamente il pendio a fianco della roccia e, dopo averli spogliati completamente, legarono solidamente i due mercanti con lunghe fasce di tela nera.

La scena era illuminata da una spettrale luce gialla.
Quando una delle figure si avvicinò alle ceste per esaminarne il contenuto una voce acuta gridò: “No, aspetta! C’è qualcosa che non va!”

Serna si avvicinò di corsa indicando il dito che, fuoriuscito da un buco nella cesta, si agitava convulsamente.
Esaminò la cesta con l’aiuto dell’Amuleto e staccò, con un sospiro di soddisfazione, l’anello di ottone fissato al coperchio della cesta.
La aprì delicatamente cercando di non disturbare il filo si seta nera che correva attorno al collo del Geco, avvolto come una mummia in fasce che gli impedivano sia di muoversi che di parlare; solo le mani erano visibili e lui le aveva usate per strappare pezzi di benda nera e farli uscire dalla cesta.

Ci misero diversi minuti per liberare Sindehajad dalle fasce, ma ne occorsero molti di più per riattivare la circolazione e consentirgli di muoversi dopo due giorni di immobilità forzata.