7: Gadadh

La Fiera

Il caravanserraglio di Gadadh era un grande edificio rettangolare circondato da un alto muro. L’interno era diviso in due parti quasi uguali, una coperta con cinque navate parallele che serviva da ricovero a merci ed animali e un ampio cortile circondato da portici e stanze dove avvenivano le contrattazioni e, più in generale, la vita sociale e collettiva.

Quella sera, come già da alcuni giorni, si esibiva una piccola compagnia di saltimbanchi e acrobati. Paludati nei neri vestiti del deserto avevano appena terminato un numero di acrobazia nel quale i quattro, due uomini e due donne, avevano formato una serie di piramidi umane che si modificavano in continuazione, e avevano intonato uno strano canto ritmato.
Dalla piccola folla di spettatori salirono grida di eccitazione appena riconobbero il canto. Uno spettatore lanciò un piatto di metallo al saltimbanco più vicino che lo afferrò abilmente e lo lanciò ad un compagno, subito dopo arrivò una padella, poi un coltello dall’aspetto affilato
Il canto terminò con quel gesto e i quattro si inchinarono al pubblico.
Il mercante lanciò una grossa moneta d’argento e, dopo di quella, una piccola pioggia di monete gratificò gli sforzi della troupe che, ansante, ringraziava con grandi inchini prima di tuffarsi a raccogliere i risultati di tanta fatica.

All’interno del grande carro coperto Duliana si tolse il velo che le copriva il volto: “Tutto questo è divertente”, sospirò, “ma non credo che ci aiuterà ad entrare a palazzo!”

“Tu hai sempre fretta”, la punzecchiò Serna ridendo, “siamo qui solo da tre giorni, se tra altri tre non sarà ancora successo nulla cercheremo un altro modo. Contenta?”

“Ma cosa dovrebbe succedere, secondo te?”
“Mi piacerebbe tanto essere invitata a Palazzo”, ribatté Serna con occhi sognanti.

In quell’istante un colpo imperioso veniva battuto all’uscio di legno che chiudeva il carro.
Mentre le due donne si ritiravano dietro una tenda Sindehajad andò ad aprire mormorando fra i denti: “Bisognerebbe fare più attenzione a quel che si desidera. Si rischia di ottenerlo!”

L’alto ufficiale in divisa rosso e oro del Califfo aveva un’espressione disgustata mentre diceva: “Il Califfo vi concede il privilegio di intrattenerlo, domani sera. Arriverete a Gadadh entro mezzogiorno e vi presenterete direttamente a Palazzo.”
Non attese nemmeno risposta, ma arricciando il naso aquilino si girò per andarsene, poi, evidentemente incapace di trattenersi, sibilò:

Sindehajad rimase ad osservarlo sulla porta, in atteggiamento di deferenza, finché non fu scomparso fra la folla multicolore del caravanserraglio, poi rientrò lentamente. Il piano di Serna aveva funzionato alla perfezione, ma lui non era sicurissimo ci fosse da esserne contenti.

Tutto era cominciato mesi prima, quando il giannizzero appiedato era arrivato, stanco e seccatissimo alla residenza del Visir, la lettera che Serna gli aveva affidato provocò parecchio movimento.
Il Visir, in un primo momento, fu fortemente tentato di ignorarla ed ordinare a Serna di rientrare immediatamente, ma poi ci ripensò e chiese consiglio a Duliana, anch’essa implicata nel piano.
Ci furono altre discussioni, poi i preparativi.
Quando il carro dei saltimbanchi arrivò a Masq, due settimane dopo, aveva a bordo solo due persone, ma, quella sera stessa, al primo spettacolo, la compagnia era già al completo.

Gadadh

Gli occhi di Sindehajad non avevano la consueta nota divertita mentre scostava la tenda che divideva il carro in due. Gli altri se ne accorsero immediatamente, ma, prima che potessero chiederne ragione, il Geco afferrò un pezzetto di carta e ci scribacchiò sopra: “Probabilmente ci stanno sorvegliando.”
Serna sfiorò il suo Amuleto celato sotto la casacca e rispose con voce piana: “No, non ancora, ma ci sono due Hashashin che si stanno avvicinando rapidamente dal lato senza finestre. Saranno in grado di udirci fra qualche minuto. Si procede con il piano. D’accordo?”
Ricevette tre cenni d’assenso contemporanei.

I due spioni incaricati di sorvegliarli sentirono solo parlare di preparativi per un grande evento e qualche commento piccato sull’ufficiale. Tutto condito con gridolini eccitati per la grande occasione e la nota generosità del Califfo.
Rimasero in ascolto tutta la notte, ma non sentirono nulla di anormale, data la situazione.

La mattina successiva, all’alba, aprirono il fianco del carro e tirarono un grande telo nero attorno. Parecchi curiosi e non solo i due Hashahsin cercarono di sbirciare le prove del nuovo spettacolo.

Era poco prima di mezzogiorno quando il carro di legno, trainato da due muli che sembravano insufficienti allo scopo, si presentava alle mura circolari di Gadadh.

Entrarono dalla porta nord seguendo la strada che univa Gadadh al caravanserraglio dopo aver attraversato i campi che circondavano la città.
Il funzionario che li aveva contattati la sera prima li stava attendendo alla porta e li scortò per tutto il complicato percorso per arrivare al Palazzo.
La prima cinta di mura aveva quattro porte dirette secondo i punti cardinali e conteneva case e le botteghe degli artigiani.

La seconda, più alta, aveva solo due porte ad est e ad ovest e circondava i magazzini e le botteghe degli armaioli.
Passarono dalla porta ovest e proseguirono il giro per arrivare all’unica porta del palazzo, a sud.

Nonostante sapesse cosa doveva aspettarsi Serna rimase comunque impressionata dall’aria cupa e tetra che regnava a Gadadh. Non si sentivano voci e risa. Ognuno sembrava indaffarato e faceva il suo lavoro in modo efficiente con una faccia seria e tesa.

Mano a mano che si procedeva verso il palazzo centrale diminuivano le persone che si vedevano, finché, alla grande porta, si vedevano solo Hashashin nelle loro uniformi rosso cupo.

Il carro riuscì a stento a passare attraverso le tre porte successive poste ad angolo acuto che davano accesso al giardino interno. Qui una profusione di fiori e di colori li accolse a far da contrasto violento con tutto il resto della città. Il palazzo vero e proprio era addossato alla parte settentrionale della cinta circolare e si spingeva fin quasi al centro dove c’era una gran piazza circolare piastrellata di splendide ceramiche rosse.

Di fronte al palazzo, ornato da balconi finemente intarsiati, sorgeva un gran palco di pietra con il palcoscenico in legno dove avrebbe dovuto svolgersi lo spettacolo. Sul lato opposto un piccolo edificio ricurvo, poco più di uno spesso muro, chiudeva il palco e fungeva da sfondo e quinta.

Portarono il carro dietro l’edificio e cominciarono subito a preparare le loro attrezzature. Poco dopo si presentò il solito funzionario che li informò che lo spettacolo si sarebbe svolto al tramonto, dopo la cena del Califfo, alla quale, ci tenne a precisare, non erano invitati. Non degnò neppure di un’occhiata le due donne, ma l’espressione era di profonda disapprovazione.

Spettacolo nei giardini

Il sole era appena calato all’orizzonte quando i balconi si aprirono e i cortigiani cominciarono a sciamare fuori. Per ultimo apparve il Califfo: un uomo piuttosto piccolo, non più giovane, ma non ancora anziano, paludato in vesti dalle larghe spalle imbottite che erano evidentemente fatti per farlo apparire più imponente.

Dalla quinta uscirono i quattro giocolieri reggendo ciascuno quattro clave. Il Geco accese una lampada al centro del palcoscenico e lo spettacolo ebbe inizio.

Le clave cominciarono a passare rapidamente di mano in mano formando un cerchio che, mano a mano che la luminosità del cielo diminuiva diventava sempre meno visibile. Duliana manovrò per trovarsi esattamente fra la lampada ed il Califfo che poté constatare come i suoi abiti neri fossero quasi trasparenti, in controluce. Dopo pochi istanti il ritmo variò e le clave presero a passare direttamente sopra la lampada incendiandosi all’istante; l’ultima passò più bassa delle altre e spense la lampada centrale.
Ora tutta l’illuminazione veniva dalle clave, trasformate in torce, che ardevano di una fiamma azzurrina.

Lo spettacolo proseguì intercalando esercizi di abilità e forza con canti e balli, con Sindehajad e suo cugino che dimostrarono una notevole abilità con i loro complicati strumenti a corde.

Dopo un breve intervallo ritornarono in pista ed ebbero la sorpresa di vedere che il Califfo aveva lasciato il balcone per riapparire, pochi istanti dopo su uno dei piccoli balconi che ornavano il muro di quinta. Le luci erano completamente sbagliate per quella prospettiva e, mentre le riposizionavano, Duliana ne approfittò per offrirgli una splendida visione in controluce del suo abito trasparente.

Il Geco si esibì in un esercizio di abilità su una piccola trave sospesa ad un paio di metri da terra e Serna in una danza che sicuramente nessuno aveva visto in quelle terre così lontane dalla sua Ligu.

Alla fine dello spettacolo, quando, al termine di una danza indiavolata ritmata dal roteare di una lunga lancia che costringeva i ballerini a salti e rotolamenti per evitarla, spense tutte le lampade con un solo colpo della lancia rotante, il Califfo si unì all’applauso dei suoi cortigiani.

Il Califfo

Puntualmente, l’indomani mattina, mentre stavano preparandosi a ripartire, si presentò il solito funzionario sussiegoso che li informò che il Califfo, nella sua infinita benevolenza, aveva deciso di ammetterli alla sua presenza durante il pranzo, dopo le udienze della mattina.
Dal suo tono di voce sembrava proprio non capisse il perché di quel capriccio!

Il pranzo si rivelò abbastanza noioso, con la piccola troupe di saltimbanchi, relegata ad un’estremità del lungo tavolo a mezzaluna, nel punto più distante possibile dal Califfo.
Il funzionario faceva del suo meglio per tenere occupato il sovrano e fargli dimenticare la presenza degli artisti.

Erano oramai al termine quando Duliana, approfittando di un ampio vassoio di confetti colorati, ne prese una manciata e li lanciò verso il Geco che, quasi senza guardare, li prese al volo e li reindirizzò verso Serna.
In pochi istanti una catena di dolcetti dai colori sgargianti passava rapidamente dalle mani all’aria e viceversa.

“INSOMMA!” gridò il funzionario e i quattro si immobilizzarono mentre attorno a loro una piccola cascata di confetti rimbalzava sul pavimento.

Duliana sembrava incapace di sollevare gli occhi dal pavimento: “Chiedo scusa”, farfugliò,

Il funzionario, gonfio come un gallinaccio e rosso come un tacchino, sembrava sul punto di esplodere, ma il Califfo si mise a ridere: “Questi pasti sono troppo seri. Lasciali fare, Zebadiah. Parleremo dei ribelli più tardi.”

Il funzionario si inchinò e si ritirò alle spalle del Califfo, non senza aver prima lanciato un’occhiata che non prometteva nulla di buono.

Risalendo l’Arkansas

I giorni passavano pigri e i quattro indiani procedevano ora più lentamente pagaiando contro corrente per risalire il fiume che gli antichi chiamavano Arkansas.

Non si erano visti uomini-alligatore, almeno per il momento, ma qualche alligatore vero lo avevano incontrato, nei pressi della confluenza fra il Mississipi e l’Arkansas. Il Mago era sempre stato all’erta, ma nessuno si era avvicinato.

La sua occupazione principale, oltre a scandagliare il fiume limaccioso per scoprire eventuali pericoli, era stata aiutare Serna e i suoi compagni di avventura a preparare, nel poco tempo che avevano avuto a disposizione, uno spettacolo che li facesse sembrare una troupe navigata, almeno agli occhi non particolarmente allenati dei fenarabi di Gadadh.

Aveva allenato Serna fin da quando era bambina a giochi ed evoluzioni che richiedevano destrezza di mano e agilità. Come gli aveva insegnato il vecchio Gerba (sorrise fra sé al pensiero che lui, ora, era più anziano del Gerba che aveva conosciuto, ma il suo maestro rimaneva sempre il “vecchio” Gerba) la professione del mago, oltre che in un corretto rapporto con l’Amuleto, si fondava anche su una quantità di abilità personali che assomigliavano molto a quelle di un prestidigitatore con una forte empatia per il suo pubblico.

La biblioteca che ora l’Amuleto gli aveva messo a disposizione era una vera miniera di trucchi, giochi e altre meraviglie, tutte meticolosamente descritte, anche con l’aiuto di filmati che lasciavano veramente poco all’immaginazione.
Molti erano incomprensibili o utilizzavano cose che Jona non aveva mai visto nel suo mondo, ma altri erano perfettamente utilizzabili, soprattutto da gente, come Serna e i due giannizzeri, abituati ad usare le proprie mani con precisione chirurgica.
Anche Duliana si era rivelata in possesso di una manualità eccezionale che faceva da complemento alle sue già note doti di danzatrice.

Jona si era divertito non poco a selezionare, provare ed insegnare una miriade di trucchi ed esercizi ai quattro.

Ora, su richiesta della figlia, stava cercando fiabe da narrare la sera.
Come tutte le fiabe dovevano avere una morale, ma non doveva essere troppo evidente.
Mentore si stava divertendo quasi quanto lui.

Le grandi montagne, intanto, si facevano sempre più vicine, mano a mano che procedevano verso occidente.
Il fiume, che prima disegnava meandri nelle pianure, pigro e grasso, ora scorreva fra ripe boscose, più asciutto e nervoso.
Il viaggio in canoa volgeva al termine proprio quando la primavera aveva finalmente ceduto il passo all’estate piena.
La piccola imbarcazione oramai, nonostante gli sforzi, percorreva più o meno la stessa distanza che lui avrebbe potuto percorrere a piedi.
Era ora di rimettersi in cammino.
Erano trascorsi quattro mesi da quando avevano lasciato l’accampamento Navajo e l’Amuleto l’informava che avevano già percorso quasi quattromila chilometri. Mille chilometri al mese. Più di trenta chilometri al giorno di media. Tutto a forza di braccia. Sarebbe stato duro rimettere in funzione le gambe. Sarebbe stato ancora più duro rimanere nuovamente solo dopo tanto tempo passato con i suoi compagni.

Sulle sponde di un grande lago frastagliato, lì dove si restringeva per ritornare ad essere fiume, si accamparono a quello che sarebbe stato il capolinea di quella avventura.
Rimasero una settimana, con i Navajo che cacciavano e preparavano provviste secche e Jona che faceva lunghe corse fra i boschi per rimettere in funzione le gambe rimaste per troppo tempo ferme nell’angusto spazio della canoa.

Scelse con cura quel che doveva portarsi nello zaino e lasciò molti dei suoi averi nella canoa, assieme ad un pezzo del suo cuore, poi, in una bella mattina d’estate si caricò il suo zaino sulle spalle, rimise l’Amuleto di vedetta in cima al suo bastone e marciò deciso verso le montagne mentre la canoa riprendeva il suo viaggio a ritroso.

Il fiume era ancora molto largo e poco profondo, ma le sponde, prima larghe e sabbiose, ora si facevano più scoscese e boscose.

Dopo tre giorni di cammino arrivò ai piedi delle grandi montagne.
Il fiume scendeva ora impetuoso, dopo essersi tagliato a forza la via attraverso la roccia viva.
La sera, accanto al fuoco, stava esaminando la mappa che Mentore gli mostrava: “Dici che dobbiamo arrivare fin quaggiù”, disse dubbioso, “mi pare che ci sia molta strada, e non mi pare nemmeno agevole!”
“I figli di Zeo sono lì. Non credo che scenderanno dai loro monti per venirti incontro.”
“Non pretendevo tanto, ma, a occhio, rischio di spendere tutto quel che rimane dell’estate per arrivare lì. Questi monti sono alti e il clima dev’essere rigido.”

Jona si accarezzò la barba: “Non mi pare che gli Dei siano veramente intenzionati a mettere alla prova la mia resistenza fisica. Piuttosto il mio grado di adattabilità e di comprensione dei problemi.”
“Vero, a quanto posso capire.”

“Un cavallo? Non credo che sarebbe una buona idea, magari un asino che ti portasse la roba, ma non andresti più in fretta.”
“Veramente non stavo pensando ad un quadrupede, ma a due bipedi.”
Mentore emise una buona imitazione di uno sbuffo di impazienza: “Che intendi dire? Devo confessare che non ti seguo. L’aria di montagna ti ha dato alla testa?”
Jona sorrise: “No, anzi, mi sembra di essere tornato a casa, anche se queste montagne sembrano ben più alte e massicce dei miei Penn.”

“Dana? come mai?”
“So per certo che ha parecchi assistenti da qualche parte, non troppo lontani da qui. Magari può prestarcene un paio.”

Dana

La mattina dopo, alle prime luci dell’alba, ben prima che il sole sorgesse dalle basse colline che lo separavano dalle grandi pianure che aveva attraversato per arrivare fin lì, Jona cominciò le invocazioni per evocare la Dea.

Che la tua stirpe sia forte e numerosa, Jona.
“Esisto per proteggerla. Lavoro per educarla.”

La Dea si presentava come una donna matura, di struttura massiccia, senza essere sovrappeso, con grandi mani forti che sembravano essere fatte per lavorare e un ampio sorriso che faceva sentire bene accetti. La madre ideale per tutte le creature della Terra.

Perché mi invochi?

Vorresti tornare a casa? Dimenticare tutto questo?” Chiese la Dea a bruciapelo interrompendolo.

Jona, che non si aspettava questa reazione e, soprattutto, non si aspettava lo sguardo severo, quasi fosse un marmocchio colto con il dito nel vasetto della marmellata, esitò un attimo prima di rispondere: “No e No. Mi piacerebbe tornare a casa e rivedere i miei cari, ma sento che questo viaggio ha uno scopo importante, anche se ancora non mi è del tutto chiaro quale sia.”

Non senti il bisogno di proteggere la tua stirpe e di educarla?” La voce della Dea era beffarda, come se lo stesse prendendo in giro
“Ho lasciato la mia stirpe in buona salute ed in buone mani. Ho cercato di educarla ad essere forte ed indipendente e, debbo dire, sono molto soddisfatto dei risultati che, ne sono cosciente, sono dovuti solo in piccola parte ai miei sforzi.”
Quindi, avendo fatto il tuo dovere, ti puoi prendere un periodo di vacanza.

Jona rimase attonito, poi dovette fare uno sforzo per non scoppiare a ridere: considerare quell’ordalia come una vacanza era quanto di più improponibile si potesse pensare.
Infine venne la realizzazione.

Vedo che hai studiato molto bene gli antichi”, disse la Dea accennando un mezzo sorriso che era impossibile stabilire fosse d’incoraggiamento o derisione, “un anno sabbatico veniva concesso a quegli studiosi che, dopo aver dimostrato di esserne degni, presentavano un progetto di studio che doveva essere ben congegnato e mostrare prospettive concrete. Quale sarebbe il tuo “progetto”?

Jona pesò accuratamente le parole:

Quindi?

Torniamo a noi: perché mi hai invocata?” Chiese poi la Dea con tono decisamente più leggero e come se la discussione precedente fosse stata solo un lieve inciso.

Come sicuramente sai il mio progetto, la mia missione, mi porta fra le montagne alla ricerca dei figli di Zeo. Volevo chiedere se fosse possibile avere qualcuno di quegli “assistenti”, gli Elfi Meccanici, per aiutarmi a superare le montagne, come hanno fatto gli Elfi nell’Hinnerwald.
No”, il tono della Dea era calmo, ma ultimativo. Nessuno spazio per mediazioni. Il volto rimaneva sorridente e la Dea non accennava a svanire.

“Posso conoscerne le ragioni?” Chiese il Mago con il tono più dimesso che riuscì a trovare nella sua delusione.
Ti darò una risposta che non risponde e ti regalerò una domanda che lo fa”, cominciò la Dea mentre il suo sorriso si velava di malizia ammiccante, “La risposta è: “gli assistenti, così come la maggior parte degli apparati meccanici, sono ad uso esclusivo degli Dei e dei loro Prescelti”
La domanda, invece è: “Perché sono scomparsi gli antichi?”

Jona accantonò immediatamente la domanda, troppo complessa nella sua apparente semplicità per essere discussa ora, e si concentrò sulla risposta, che sembrava fornire appigli interessanti: “I “Prescelti” sono le anime preservate, vero? Quelli che sono stati prescelti dagli Dei per sopravvivere alla morte del corpo?”
Esatto.
“Allora un corpo meccanico per Mentore forse si potrebbe avere?”
Mentore?
“Chiamo così l’anima che sta rinchiusa nel mio Amuleto, in mancanza di un nome migliore.”
Sì, questo si può fare, ma ricorda: gli assistenti non devono essere visti.
“Immagino che Mentore sia perfettamente in grado di sapere quando dovrà rinunciare al suo corpo meccanico.”
E sa anche qual è la pena per chi se ne dimentica.” Il tono era minaccioso e Jona si allarmò non poco, ma subito dopo si addolcì mentre la Dea proseguiva: “Ma, in questo caso particolare, non ci sono problemi: i Figli di Zeo ed i loro amichetti sono già abituati agli assistenti.
“Chi sarebbero “i loro amichetti”?”
Quando li incontrerai lo saprai”, tagliò corto Dana e Jona si affrettò a cambiare argomento.

“C’è qualche modo, che io possa usare, per arrivare fra i monti più rapidamente?”

Detto questo la Dea sparì senza preavviso lasciando solo un’esile sentiero marrone che si inerpicava lungo il fiume.
Dopo pochi istanti il sentiero ai piedi del Mago cominciò a svanire e lui si affrettò ad allacciarsi lo zaino alle spalle e a inseguirlo. Lo raggiunse rapidamente e vide che quello spariva ad un ritmo regolare che corrispondeva ad un passo relativamente lento.

Svolta

Duliana, che era rientrata da poco nel piccolo appartamento che il Califfo aveva messo a loro disposizione, cominciò a sbuffare e, poco dopo disse a Serna con voce lamentosa: “Stasera fa più caldo del solito, andiamo a farci un giro in giardino?”
La Maga, che stava facendo roteare cinque clave quasi senza guardarle, le ripose in bell’ordine sul tappeto che copriva quasi tutto il pavimento e rispose: “Proviamo, ma non mi pare che ci sia nemmeno un alito di vento.”

Pochi minuti dopo passeggiavano in giardino, mentre le ombre della sera si allungavano attorno a loro.

“Ora puoi parlare”, disse ad un certo punto Serna, “l’Amuleto mi dice che nessuno ci può sentire, ma continua a comportarti normalmente, visto che due Hashashin ci sorvegliano dalle finestre.”

“Meglio così. Che è successo, di preciso?”

Sospetti

Duliana si stiracchiò pigramente sul grande letto a baldacchino, tanto alto che era necessaria una specie di scaletta per salirci sopra, e si rigirò a guardare il Califfo che era appena sceso e stava ricominciando a rivestirsi.
Senza una parola scese anche lei e, completamente nuda com’era, cominciò ad aiutarlo a stringere gli innumerevoli lacci del suo vestito rosso sangue.

Si aspettava di vederlo uscire senza guardarsi indietro, come aveva sempre fatto, ma, questa volta, vestito di tutto punto, si girò verso di lei e la squadrò con occhi che sembravano voler penetrale l’anima: “Non mi tradiresti, vero?”
“Il mio Signore è geloso?” chiese Duliana abbassando gli occhi con un atteggiamento civettuolo che voleva indicare come si sentisse lusingata al pensiero.

Il Califfo scoppiò in una breve risata: “No, sono guarito da quella malattia tanti anni fa, forse prima che tu nascessi, bambina.”

Duliana che, nonostante avesse superato la trentina, manteneva la freschezza di una ventenne, si guardò bene dal contraddire l’ultima affermazione, facendo finta di non capire dove lui volesse andare a parare.

La prese per le braccia stringendo abbastanza da farle sentire la sua forza, ma non tanto da farle davvero male, e la sollevò mettendola a sedere sul davanzale della finestra. Ora i loro occhi erano allo stesso livello e quelli del Califfo avevano ripreso ad essere indagatori.

Duliana inghiottì, sbattendo gli occhioni neri, come se avesse difficoltà a capire che cosa volesse veramente dire il Califfo, poi parve capire e si portò una mano sulla bocca per nascondere un sorrisino, si tirò dritta dritta e, con l’aria di una bambinetta che recita una poesia per la gioia del parentado riunito, declamò:

Il Califfo guardava le viole che ornavano il davanzale su cui aveva appoggiato Duliana, poi riportò i suoi occhi su quelli della danzatrice: “Conosci il Visir di ‘Rruth?”
“Ho danzato per lui diverse volte.”
“Ti ha mandato lui qui?”
“Certo! Te l’ho detto, no?”

Il Califfo scoppiò in un’altra risata, più sincera e liberatoria:
Duliana era evidentemente incapace di capire che cosa stesse succedendo, tanto che lui si sentì in dovere di spiegare: “Vedi quelle viole? Sono fiori rari e preziosi: viole del pensiero.”
Vedendo che lei ancora non capiva proseguì:

Duliana si limitò ad annuire con due occhioni spaventati, poi si girò verso i fiori e sibilò: “Spioni!”
Quindi si alzò con tutta la dignità offesa che riuscì a racimolare e si allontanò, andando a raccogliere i suoi vestiti.

Dittatori

“Quello che non capisco è perché siano diventate rosse quando ho detto che ero stata mandata per sedurlo.”

Duliana era ancora turbata e non sembrava lo fosse per lo scampato pericolo.
“Che cosa ti disturba, Duliana?”
La danzatrice scosse il capo facendo ondeggiare la massa dei suoi capelli neri:

Serna sorrise annuendo: “No. Lo ho osservato anch’io. Non è quel mostro che appare da fuori.”
“Mi sono fatta un’idea”, proseguì, senza dire che quell’idea veniva da molto lontano; ne aveva discusso a lungo con il padre e ancora non riusciva a capire bene da dove lui avesse preso certe informazioni. Le stava ancora nascondendo qualcosa, a quanto pareva.

“E quale sarebbe, quest’idea?”
Serna si accorse di essersi persa nei suoi pensieri e ci riscosse:
“Come quell’orribile Zebadiah!”
“Beh, Zebadiah, nel nostro caso, ha ragione. Non siamo qui per dare un aiuto al Califfo e al suo staff, dopotutto.”
“Quello che non capisco è perché ti sei opposta così fermamente all’idea di toglierlo semplicemente di mezzo. Anche prima di conoscerlo, intendo dire.”
“Avresti preferito Zebadiah al suo posto?”
Duliana rabbrividì al pensiero: “No, certo, ma tu non potevi conoscere nemmeno lui!”
Serna fece sentire la sua risata argentina: “No, non lo conoscevo di sicuro, ma attorno ai grandi dittatori ci sono sempre stuoli di Zebadiah che gli girano attorno come mosche attorno al miele. Talmente tanti che il miele non si vede più. Si vede solo un cumulo di insetti ronzanti.”
Si fece seria: “No. Niente scorciatoie. Non faremmo che peggiorare le cose.”

Rimase ancora qualche istante in silenzio mentre i servitori cominciavano ad accendere le lampade vicino alle porte che davano accesso al giardino per allontanare le ombre che si facevano sempre più estese.
“Vieni, è meglio che rientriamo”, disse con il tono di chi ha appena preso una decisione,
Esitò abbastanza a lungo, mentre si avvicinavano alla porta, da indurre Duliana a chiedere con urgenza: “E la seconda?”