Ai piedi del Monte
Jona era stanco.
Da una settimana, oramai, si stava inerpicando lentamente su quella catena di montagne che sembrava non finire mai.
Ogni volta che arrivava a quello che, da sotto, pareva un passo scopriva una valle e un altro contrafforte che portava ancora più in alto. L’Amuleto gli diceva che erano arrivati a poco più di quattromila metri e l’altitudine si faceva sentire. Il respiro era difficile, ma, proprio per la lentezza dell’ascesa, il Mago non subì quei terribili mal di testa che, assicurava Mentore, erano così comuni a quell’altezza.
Jona aveva poca voglia di parlare, ma ascoltava volentieri e, la sera, quando si fermava, guardava le immagini che l’Amuleto mostrava. Cercava di concentrarsi, sapendo bene che presto avrebbe subito quello che gli Dei avevano definito “l’Esame Finale”, ma tendeva a divagare, a distrarsi. Anche quello era un effetto dell’altura, assicurava Mentore; presto si sarebbe abituato.
Finalmente, scavallando l’ennesimo colle, vide la sua meta e tremò.
La Montagna della Torre era di fronte a lui: un cono quasi perfetto che si alzava imponente da un altopiano ondulato, una vasta prateria con pochi alberi sparsi. Impossibile valutare esattamente la distanza in quell’aria tersa, ma doveva esserci almeno una giornata di cammino per arrivare alle pendici e chissà quanto per raggiungere la sommità assediata dai ghiacci che ora scintillavano rosa alla luce del sole al tramonto.
La notte era fredda e lui ringraziò ancora una volta il mantello di morbida lana che gli aveva dato l’assistente-sacerdote dei Figli di Zeo. Quando lo aveva ricevuto era stato di un bianco candido, ora, dopo settimane di uso, era di un colore indefinibile che avrebbe fatto inorridire Dania.
Jona sorrise al pensiero e se lo avvolse ancor più strettamente addosso.
“Non credo di poter proseguire ancora per molto”, disse rivolto a Mentore, mentre riattizzava il fuoco che faticava a riscaldarlo.
“A un giorno di cammino c’è un rifugio sicuro, proprio alle falde della Montagna. Lì potrai riposarti qualche giorno, prima di cominciare la salita. Dovrai essere in discreta forma: ci vogliono due giorni e sono due giorni duri.”
Jona abbozzò un sorriso: “Sono arrivato fin qui e non voglio certo perdermi il gran finale, ma hai perfettamente ragione: devo essere prudente e non posso certo rischiare di compromettere tutto per la fretta.”
Quella notte sognò Darda che lo guardava severamente scuotendo la testa: “Tutti uguali, gli uomini”, diceva con il suo tono a metà fra il rimprovero e la celia, “se non c’è una donna a prendersi cura di loro guarda come si riducono! Sembri uno scheletro in vacanza. Quando hai fatto l’ultimo pasto decente? Ti pare questo il modo di presentarsi agli Dei? Hai deciso di far da te metà del lavoro di Thano?”
La mattina dopo, il sogno era ancora ben impresso nella sua mente.
“Mentore, riguardo a quel rifugio”, chiese dopo essersi lavato accuratamente ed aver riposto la sua roba,
“Cominciavo a pensare che non te ne saresti mai accorto”, rispose l’Amuleto con una vena di sollievo nella voce, “hai bisogno di zuccheri e di vitamine. Fortunatamente andando verso il rifugio ci sono parecchi posti dove puoi trovare tutto quello che ti serve.”
“Bene, fai strada”, disse semplicemente, ma la sua mente analizzava le implicazioni del fatto che, ancora una volta, Mentore non aveva voluto — o potuto — dirgli nulla finché non era stato lui stesso a sollevare il problema.
Il “rifugio” era un’ampia spelonca che recava evidenti segni del passaggio di altri visitatori.
Lungo il cammino aveva raccolto frutta e verdura, principalmente bacche dolci e tuberi che, sosteneva Mentore, erano molto nutrienti e, se cucinati bene, anche molto saporiti.
Campo Base
La mattina dopo evocò Asclep per avere tutti i dettagli sulla fisiologia a quelle quote elevate. In precedenza non aveva mai passato i tremila metri mentre ora era abbondantemente sopra i quattromila e la sua destinazione, sulla cima di quella montagna, era oltre i seimila. Decisamente non era una cosa da affrontare impreparati. Darda aveva ragione: inutile rendere troppo facile il lavoro a Thano.
Passò diverse ore a pianificare le proprie mosse, prima di concedersi il lusso di esplorare completamente quel rifugio sperduto a migliaia di chilometri da ogni essere umano.
Era del tutto evidente che era stato usato da una lunga schiera di Cercatori, prima di lui e, ne era convinto, sarebbe servito a chi fosse venuto dopo.
Non c’erano messaggi scritti, solo oggetti, per lo più riposti ordinatamente come se il proprietario li avesse lasciati per poi tornare a prenderli più tardi.
Da diversi indizi arrivò a capire che quella grotta, probabilmente artificiale, veniva usata diverse volte all’anno. Un piccolo, ma continuo, flusso di persone — Cercatori come lui — tentava la salita verso la torre.
Rimase una settimana intera per cercare di acclimatarsi all’altitudine, poi quasi un’altra perché il tempo volse improvvisamente al brutto e una densa coltre di nuvole prese possesso della cima, mentre venti impetuosi spazzavano l’altopiano. Non piovve molto, ma non era certo il momento di mettersi in cammino.
Quando il sereno tornò a rallegrare l’altopiano, Jona dovette frenare ancora l’impazienza per ricostruire le provviste che aveva consumato nella settimana nella quale era rimasto tappato nella spelonca.
Due giorni dopo, dopo un’ultima preghiera a Zeo che gli garantisse almeno due giorni di bel tempo, decise che era pronto, o, meglio, si corresse mentalmente, non sarebbe mai riuscito ad essere più pronto di così.
Salita
Affrontò la salita lentamente, molto più lentamente di quanto sentisse il bisogno di fare. Si sentiva bene, ma aveva oramai capito che lo sforzo, a quell’altitudine, doveva essere dosato con particolare cautela.
La vegetazione, già bassa e rada, scomparve quasi completamente e si ritrovò a camminare su per una superficie spoglia, punteggiata da massi di tutte le dimensioni.
In alto si vedeva lo scintillio della neve.
Si arrampicò sopra un costone ed ebbe la prima visione della Torre.
La cima della montagna terminava con una struttura conica molto allungata, simile al collo di una bottiglia particolarmente lunga, tanto lunga da diventare una specie di corno che puntava dritto verso il cielo.
Riportò gli occhi sul sentiero e riprese a salire.
Dopo pochi passi, nel superare una fenditura nella roccia, vide il primo scheletro. Qualcuno, dopo essere arrivato fin lì, era rimasto affascinato dalla Torre ed era caduto. In posti come quello anche una semplice distorsione poteva costituire un’invocazione a Thano.
Jona pensò un momento se dare una qualche sepoltura a quell’ignoto compagno di avventure, ma decise che poteva essere più utile lì dov’era. Sfilò un lungo nastro rosso che ornava il suo pesante maglione e lo legò ad una pietra da una parte e ad un osso dall’altra. Un po’ macabro, si disse, ma era impossibile che qualcuno, passando di lì, ignorasse l’avvertimento.
Mise fermamente la Torre al di fuori dei suoi pensieri e riprese la salita con gli occhi piantati sul sentiero.
Presto arrivò alle prime tasche di neve annidate in avvallamenti o spaccature che l’avevano protetta dai raggi del sole.
Nel primo pomeriggio scese dal crinale che aveva seguito per portarsi più in basso.
Scese in diagonale di quasi trecento metri. Il pensiero di dover, l’indomani mattina, riguadagnare quella quota non lo rallegrava affatto, ma sapeva di dover dare un po’ di sollievo ai suoi polmoni affamati d’ossigeno.
Sputò le foglie che stava masticando — come Asclep gli aveva consigliato — e si diresse verso il secondo rifugio che sapeva essere sotto un piccolo strapiombo, ma non lo vedeva; chiese aiuto a Mentore che gli mostrò la solita stradina gialla che andava dritta verso una parete di ghiaccio.
La colata di candelotti gelati aveva completamente occultato l’ingresso. Con qualche colpo della punta ferrata del suo bastone Jona ottenne un varco appena sufficiente per scivolare dentro un’altra caverna, incredibilmente asciutta, considerando che tutt’intorno la roccia era completamente bagnata dallo scioglimento delle nevi e dei ghiacci.
Lo sforzo, pur moderato, lo costrinse a diversi minuti di recupero.
Tolse dallo zaino parecchi dischi di sterco di lama secco, estremamente leggeri, e li utilizzò per accendere il fuoco — ringraziò mentalmente Festo per quel suggerimento; trovare legna a quell’altezza era assolutamente impensabile e la temperatura stava rapidamente calando assieme al sole.
La notte venne improvvisa, quasi che qualcuno avesse soffiato su una candela, non appena il sole calò oltre le lontane montagne, tutte più basse di lui.
Faticò un po’ ad addormentarsi, poi la stanchezza ebbe il sopravvento.
La mattina dopo la luce del giorno venne con la stessa incredibile rapidità con cui se n’era andata esattamente dodici ore prima. In pochi minuti le stelle sparirono per lasciar posto al sole.
Jona era irrigidito dal freddo e dalla stanchezza. Sapeva bene che Mentore gli aveva dato una mano a rimaner caldo. L’ampio mantello e i maglioni non sarebbero bastati e aveva consumato buona parte della sua scorta di combustibile.
Fece un’abbondante colazione ed esaminò, ancora una volta, il contenuto dello zaino. Lasciò nella grotta il combustibile residuo e il cibo che non contava di consumare nella giornata. Se non fosse riuscito a raggiungere la cima doveva rientrare lì prima di notte. Altrimenti altre ossa sarebbero rimaste a monito per i Cercatori che sarebbero arrivati dopo di lui.
Riguadagnò la cresta dalla quale era disceso la sera prima e continuò a seguirla fin dove poté.
Alla sua sinistra un grande ghiacciaio riempiva completamente il canalone che portava verso la vetta.
La vetta somigliava una sella, con un poggio più basso ed uno leggermente più alto, sulla cui sommità sorgeva la Torre.
Il ghiacciaio riempiva completamente la sella e tracimava oltre la cresta che stava seguendo. Davanti a lui non c’era più roccia. Solo bianco.
Alzò gli occhi verso la Torre. Ora la poteva vedere bene. Era una struttura enorme. Circolare. Altissima. Bianca come il ghiaccio e altrettanto scintillante. Probabilmente si trattava della stessa schiuma di vetro di cui era formata la montagna di Nayokka. Cercò di valutare l’altezza, ma era impossibile, da quella posizione, capire quanto si restringesse realmente e quanto fosse un effetto prospettico. Sembrava veramente una bottiglia, aveva anche un evidente svaso sulla cima. Possibile ci fosse una terrazza circolare, lassù?
“Quanto è alta la Torre, Mentore?”
“Non molto. Solo seicento metri.”
Il sole aveva già passato lo zenit e lui aveva ancora del cammino da compiere.
Si ficcò in bocca una manciatina di foglie e cominciò a masticarle mentre esaminava la superficie del ghiaccio.
Qui sembrava uniforme e compatta, ma più a valle aveva visto che era fratturata da una miriade di crepacci che, nonostante lo splendido colore blu, erano pronti ad inghiottire chiunque fosse stato abbastanza imprudente da avvicinarcisi troppo. Aveva cercato di sbirciare dentro uno, ma non era riuscito a vedere il fondo.
“Ci sono crepacci sulla strada?”
“Ce ne sono diversi, ma sono coperti da uno spesso strato di neve compattata dal gelo. Dovrebbe reggere il tuo peso senza problemi.”
“Dovrebbe?”
“I nevai sono sempre instabili, lo sai. Quando ne attraversi uno farai bene ad evitare di fare movimenti troppo bruschi.”
“Puoi dirmi dove sono?”
Mentore non rispose, ma tre linee blu apparvero sul ghiaccio davanti a lui.
Il primo riuscì a evitarlo completamente facendo un piccolo giro.
Il secondo era coperto da neve gelata che aveva una crosta vetrosa e Jona camminò leggero riuscendo a non scalfirla nemmeno.
Il terzo era proprio al centro della sella, dove il ghiacciaio si divideva per scorrere sui due lati della vetta secondaria. Oltre la neve era compatta e solida fino alla Torre. Esitò un attimo, poi strinse i denti e si avviò con cautela.
Quando arrivò al centro del crepaccio si fermò, alzò gli occhi al cielo e disse con voce chiara:
Thano
La traccia azzurra che segnava il crepaccio si era trasformata in un’enorme bocca spalancata e irta di denti aguzzi. Il Mago poteva ancora sentire il ghiaccio scricchiolare sotto la suola dei suoi scarponi, ma gli occhi gli dicevano che era sospeso a mezz’aria, pronto a precipitare in fauci fameliche.
Riportò la sua attenzione sul Dio che lo guardava beffardo dal ciglio di quel burrone e bandì la bocca, evidentemente lì solo per distrarlo, dalla sua mente. Sapeva di non aver nulla da temere da quella parte
“Così saresti pronto?”
“Nessuno è mai pronto davvero, ma presto sapremo se sono pronto abbastanza, credo.”
La bocca sembrò diventare un po’ più piccola. Jona sorrise. Se usata correttamente quella cosa spaventosa poteva essergli d’aiuto. Doveva solo farla chiudere completamente.
Inaspettatamente la bocca si restrinse ancora un po’.
Il Mago guardò di nuovo Thano che sogghignò e chiese: “Già, perché?”
“Perché ho capito come usare la bocca.”
Nuovamente la bocca si restrinse e, stavolta, Jona la stava guardando attentamente.
Se continuava così gli sarebbe bastato rispondere correttamente a una decina di domande.
“Veniamo a cose più interessanti: Chi siamo noi?”
Jona ci aveva pensato, naturalmente, e rispose con una certa prontezza, ma anche con molta circospezione: “Credo che siate i discendenti degli antichi, di quegli antichi che si sono trasferiti nello spazio.”
L’enorme bocca da pescecane si spalancò e fece per inghiottirlo, ma, come fosse stata frenata da un invisibile guinzaglio ritornò al suo posto; non si era mossa di un millimetro.
“Non pare proprio la risposta esatta”, ghignò il Dio che sembrava godesse nel vedere come Jona si dibatteva nella sua rete, “che cosa è successo?”
“Posso pensare a due cose: la meno probabile è che, dopo tutta la fatica che avete fatto per farmi arrivare fin qui — tralasciando la fatica che ho dovuto fare io — non vogliate mandare tutto all’aria per una singola risposta sbagliata.”
Thano rise di quel suo riso beffardo e, in questo caso, particolarmente cattivo:
La bocca si era aperta un po’ di più, poco, ma era più aperta.
Jona fece un gran respiro che non portò molto ossigeno ai suoi polmoni, ma contribuì ugualmente a calmarlo:
La bocca si chiuse un altro po’.
“La prima risposta era sbagliata perché, evidentemente, non sei assolutamente disposto a fare compromessi su quello che Ti serve da me. Meglio ricominciare tutto daccapo con qualcun altro che accontentarsi di qualcosa di “seconda scelta”. Ti faccio notare che questa è un’informazione nuova che mi dai; prima potevo supporlo, ma non esserne sicuro.”
“Vero, ma torniamo alla domanda originale: Chi siamo noi? Ma prima spiegami: come ti è venuta l’idea che fossimo degli antichi?” La voce era più amichevole, anche se con una punta di miele di troppo. La bocca era un pochino meno minacciosa.
“Ci sono parecchie cose che mi hanno spinto in quella direzione”, rispose il Mago contando sulla punta delle dita,
“Capisco, ma ti posso assicurare”, disse Thano senza il suo naturale tono beffardo, ma con una vena di tristezza nella voce, “che quando abbiamo cominciato a ripopolare la Terra, usando le piante utero, la specie Homo Sapiens, con tutto il genere Homo, si era veramente estinta, sia sulla Terra che altrove. Abbiamo veramente dovuto ricostruire il vostro DNA quasi da zero, risintetizzandolo ex-novo.”
“E allora? Lo chiedo io a te!” Ritorse il Dio tornando al suo sorriso beffardo.
“Hai confermato tu stesso che la mia prima risposta conteneva una dose di verità”, cominciò Jona lentamente, “quindi, se mi dici che l’umanità si era estinta, non posso che pensare che siate le anime di antichi.”
La bocca si restrinse ancora di più; ora era larga solo una decina di metri.
“Passiamo alla domanda successiva: Che cosa vogliamo da te, Jona?”
Il Mago inghiottì a vuoto. Si era aspettato la domanda, naturalmente, e aveva delle risposte pronte, ma se aveva sbagliato là dove si sentiva così sicuro
Sotto di lui il ghiaccio tornò ad essere ghiaccio, lucido e compatto. Accanto al Dio una immensa pantera nera come la notte lo guardava con due occhi gialli mentre si leccava ostentatamente i baffi.
“Hai qualche idea?” Lo canzonò Thano.
“Sì, più di una, ma non so davvero quale scegliere.”
“E chi dice che debba essere tu a scegliere?”
Un lampo improvviso rischiarò la mente di Jona che disse lentamente:
“Vero, ma non pensare di cavartela così. Devi dirmi almeno una delle cose che potremmo volere da te.”
La pantera, nel frattempo, si era ridotta fino ad essere delle dimensioni di una vera pantera nera e continuava a fissarlo sferzando con la coda la superficie ghiacciata.
“Ce n’è una della quale sono piuttosto sicuro”, rispose guardando il Dio dritto negli occhi, “anche se credo ci sia ben di più in gioco.”
“Potreste aver bisogno di un altro Mentore che guidi altri Cercatori come me.”
“Bene. La risposta è valida. Veniamo all’ultima domanda”, la pantera non era cambiata; la risposta era valida, ma fin troppo ovvia, “perché si sono estinti gli antichi, secondo te?”
Jona stava sudando, nonostante il freddo del tardo pomeriggio e il vento che aveva cominciato a spirare gelido. Si era posto anche questa domanda, naturalmente, ma le risposte che aveva trovato lo aveva lasciato sempre molto insoddisfatto.
“Sintetizza!” Lo interruppe Thano, “Venti parole!”
La voce lo colpì come una sferzata. Rimase un minuto in silenzio con gli occhi chiusi, poi rispose scandendo le parole e contandole sulla punta delle dita: “Due motivi: erano diventati troppi per il pianeta; avevano cambiato l’ambiente tanto che non erano più adatti ad esso.”
Thano era scomparso, al suo posto un lungo tappeto rosso si srotolava rapidamente fino a raggiungere la base della torre.