Gli occhi di Sindehajad non avevano la consueta nota divertita mentre scostava la tenda che divideva il carro in due. Gli altri se ne accorsero immediatamente, ma, prima che potessero chiederne ragione, il Geco afferrò un pezzetto di carta e ci scribacchiò sopra: “Probabilmente ci stanno sorvegliando.”
Serna sfiorò il suo Amuleto celato sotto la casacca e rispose con voce piana: “No, non ancora, ma ci sono due Hashashin che si stanno avvicinando rapidamente dal lato senza finestre. Saranno in grado di udirci fra qualche minuto. Si procede con il piano. D’accordo?”
Ricevette tre cenni d’assenso contemporanei.
I due spioni incaricati di sorvegliarli sentirono solo parlare di preparativi per un grande evento e qualche commento piccato sull’ufficiale. Tutto condito con gridolini eccitati per la grande occasione e la nota generosità del Califfo.
Rimasero in ascolto tutta la notte, ma non sentirono nulla di anormale, data la situazione.
La mattina successiva, all’alba, aprirono il fianco del carro e tirarono un grande telo nero attorno. Parecchi curiosi e non solo i due Hashahsin cercarono di sbirciare le prove del nuovo spettacolo.
Era poco prima di mezzogiorno quando il carro di legno, trainato da due muli che sembravano insufficienti allo scopo, si presentava alle mura circolari di Gadadh.
Entrarono dalla porta nord seguendo la strada che univa Gadadh al caravanserraglio dopo aver attraversato i campi che circondavano la città.
Il funzionario che li aveva contattati la sera prima li stava attendendo alla porta e li scortò per tutto il complicato percorso per arrivare al Palazzo.
La prima cinta di mura aveva quattro porte dirette secondo i punti cardinali e conteneva case e le botteghe degli artigiani.
La seconda, più alta, aveva solo due porte ad est e ad ovest e circondava i magazzini e le botteghe degli armaioli.
Passarono dalla porta ovest e proseguirono il giro per arrivare all’unica porta del palazzo, a sud.
Nonostante sapesse cosa doveva aspettarsi Serna rimase comunque impressionata dall’aria cupa e tetra che regnava a Gadadh. Non si sentivano voci e risa. Ognuno sembrava indaffarato e faceva il suo lavoro in modo efficiente con una faccia seria e tesa.
Mano a mano che si procedeva verso il palazzo centrale diminuivano le persone che si vedevano, finché, alla grande porta, si vedevano solo Hashashin nelle loro uniformi rosso cupo.
Il carro riuscì a stento a passare attraverso le tre porte successive poste ad angolo acuto che davano accesso al giardino interno. Qui una profusione di fiori e di colori li accolse a far da contrasto violento con tutto il resto della città. Il palazzo vero e proprio era addossato alla parte settentrionale della cinta circolare e si spingeva fin quasi al centro dove c’era una gran piazza circolare piastrellata di splendide ceramiche rosse.
Di fronte al palazzo, ornato da balconi finemente intarsiati, sorgeva un gran palco di pietra con il palcoscenico in legno dove avrebbe dovuto svolgersi lo spettacolo. Sul lato opposto un piccolo edificio ricurvo, poco più di uno spesso muro, chiudeva il palco e fungeva da sfondo e quinta.
Portarono il carro dietro l’edificio e cominciarono subito a preparare le loro attrezzature. Poco dopo si presentò il solito funzionario che li informò che lo spettacolo si sarebbe svolto al tramonto, dopo la cena del Califfo, alla quale, ci tenne a precisare, non erano invitati. Non degnò neppure di un’occhiata le due donne, ma l’espressione era di profonda disapprovazione.