I giorni successivi passarono lenti e monotoni.
Jona camminava per buona parte del giorno, poi cercava un posto riparato per la notte.
Non commise più l’errore di dormire vicino a dove aveva mangiato.
Parlava quotidianamente con Serna scambiando informazioni e opinioni o, semplicemente, cercava di dimenticare la nostalgia e la solitudine.
Spesso parlava anche con la moglie rimasta a Tigu, ma raramente chiedeva notizie dei gemelli concepiti così inopportunamente la sera prima della sua partenza. Aveva paura di affezionarsi troppo e dubitava di riuscire a vederli in carne ed ossa.
Una pioggia fina aveva cominciato a cadere a tratti. La temperatura era salita, ma sembrava il contrario.
Jona era stanco. Più mentalmente che fisicamente.
Anche la novità della piana dei grandi rettili stentava a mantenere la sua attenzione.
Serna era nella sua postazione preferita, sulla cima della colonna di Isto e manteneva senza fatica la concentrazione, anche mentre parlava con il padre: “Il Djinn sostiene che il parlare, la verbalizzazione, è solo uno dei modi di pensare, il più moderno, ma anche il più limitato. Dice che tutti questi esercizi servono per imparare a “spegnere” il dialogo interno e lasciar fare alle parti più antiche del nostro cervello. Abbiamo visite.” Serna non aveva cambiato tono di voce né mosso un muscolo, ma un istante dopo una testa avvolta in un leggero panno nero comparve nel campo visivo di Jona.
“Papà, ti presento il Geco.”
“Onorato di fare la Sua conoscenza, Mago Padre”, disse Sindehajad toccandosi la fronte con la mano destra e piegando il capo in segno di rispetto — come riuscisse a fare ciò mentre era ancora aggrappato al fianco della colonna non era facile intuirlo. Un attimo dopo si sedava a gambe incrociate poco dietro Serna.
Jona cercò di imitare il gesto, ma l’effetto venne rovinato dalle gocce di pioggia che scesero dal cappuccio e si infilarono fastidiosamente nel polsino: “L’onore è mio. Mia figlia mi ha parlato di te e ti ringrazio di cuore dell’aiuto che hai dato. Non credo che la missione sul Fiume sarebbe andata a buon fine senza di te.”
“La Maga Figlia sa essere molto convincente, quando vuole. Così ho potuto essere di un qualche aiuto.”
Jona bofonchiò qualche frase di circostanza, dolorosamente conscio del fatto che quel giovanotto lo stava trattando in modo formale e rispettoso, mentre lui non riusciva ad entrare nella parte e si stava comportando come un vecchio infastidito. Meglio essere espliciti: “Mi scuso con te, Sindehajad detto il Geco. Non è un buon momento e questa pioggia mi sta entrando nelle ossa. Vorrei riuscire ad essere più gentile, come sicuramente meriti. Accidenti, non riesco neppure a ricordarmi le più elementari norme di buona creanza. Le chiedo scusa.”
Il Geco assunse un’espressione preoccupata e disse qualche parola a Serna che Jona non capì, poi si rivolse al lui con tono ancora più formale di prima: “Sono io che devo scusarmi di aver scelto un momento tanto inopportuno. Spero che possa perdonarmi questa intrusione maldestra”, e si alzò per andarsene.
“No, resta!” Jona fu stupito dalla sua stessa foga.
Serna era concentrata sul suo Amuleto e quello che vi leggeva non era di suo gradimento: “Papà devi trovare un posto sicuro dove ripararti e riposare. Non credo tu stia molto bene.”
“Temo che abbia ragione, ma il rifugio sicuro più vicino è la Magione. Se resisti puoi arrivarci prima di notte.”
“Che cos’ho?”
“Polmonite. Sto facendo quello che posso per tenere bassa la temperatura, ma da queste parti non ci sono erbe medicinali adatte.”
Il Geco incominciò uno strano canto, parole ritmate, una specie di nenia semplice che andava a tempo con i suoi passi.
Jona si trovò a seguire quelle parole che non conosceva e si perse in esse fino a che non si trovò davanti ad una parete rosa con una piccola porta aperta che lo invitava ad entrare.
No. La parete era bianca, ma il sole al tramonto la tingeva. Aveva anche smesso di piovere, anche se il cielo era ancora pieno di grosse nuvole scure.
“Adesso puoi smettere, credo. Grazie.” La voce di Serna era preoccupata e quella del Geco molto più roca di quanto lo fosse la mattina.
Dietro il muro c’era un giardino e, poco più in là un immenso palazzo sormontato da una grande cupola.