La mattina era fresca e luminosa. I primi raggi del sole stavano ricacciando sotto gli alberi la bruma notturna.
Tarciso era già uscito e Jona mise a bollire la cuccuma per un caffè mattutino. Aveva quasi esaurito le sue già magre riserve, ma questa volta ce n’era veramente bisogno. Tra poco avrebbe dovuto rinunciare completamente a quel piacere a meno di non riuscire trovarne, cosa che ormai disperava fosse possibile.
Si diresse quindi verso l’Amuleto che aveva lasciato in cima al bastone, vicino al letto improvvisato.
La Bussola era ricomparsa.
Rimase a fissarla, con i pensieri che volavano in tondo come uno stormo di avvoltoi che hanno avvistato una carogna, fin quando il caffè non fu pronto, poi ne versò due tazze generose e uscì a cercare Tarciso.
Lo trovò che stava trafficando nell’orto.
Stava finendo di scuoiare due lepri certo rimaste impigliate in qualcuna delle tante trappole che si vedevano lì attorno.
Vedendo la direzione del suo sguardo Tarciso chiosò: “Cercano di distruggermi l’orto, ma, in fondo, è giusto così: io do da mangiare a loro e loro danno da mangiare a me!”
“Tieni, ho preparato un caffè.”
“Cos’è?”
Tarciso bevve con una certa diffidenza, e parve gradire: “Buono, perché dici che “aiuta a svegliarsi”?”
“Nessun sottinteso. Contiene semplicemente una sostanza blandamente eccitante che aiuta a rimanere svegli.”
“Io devo ripartire presto, forse oggi stesso.”
“Lo so”, rispose Tarciso un po’ abbattuto,
Quegli avvoltoi che stavano continuando a girare nella testa di Jona si fusero in un’aquila luminosa che calò in picchiata: “Perché non vieni con me, almeno per un po’? Tu avresti un sogno divertente da sognare e io, magari, potrei anche imparare qualcos’altro.”
Tarciso scosse la testa sconsolato: “I sogni vanno sempre dove pare a loro.”
“Non è vero, e tu dovresti saperlo, se hai fatto tutti quegli studi sul sonno. Quando si è vicini al dormiveglia si può dirigere i sogni, almeno un pochettino.”
“Ma io non sono nel dormiveglia!”
“Con tutto quel caffè in corpo! Sono stupito che tu non sia del tutto sveglio.”
Tarciso, in fondo, voleva essere convinto e quindi Jona riuscì a convincerlo con una certa facilità.
Passarono la giornata a chiudere l’ingresso della spelonca per impedire agli animali di entrare, a prendere le poche cose che Tarciso si voleva portare e a parlare di cervello, neuroni, coscienza e idee. Jona si era accorto che l’accademico lo stava usando come uno specchio, per mettere, cioè, meglio in fila le sue idee e lo lasciava parlare a ruota libera, intervenendo solo di rado.
Come con Arianna stava applicando la massima che diceva: “Se vuoi apparire un abile conversatore, taci e fai finta di essere interessato a quel che dicono gli altri” e, ancora una volta, verificò che conteneva un’enorme dose di verità: da svogliato e quasi balbettante il suo ospite si era gradualmente trasformato in un conferenziere appassionato..
Jona sentiva che quello che diceva Tarciso era vero
La conclusione finale non gli tornava per niente, anche se sembrava insita nelle premesse. Lui non si sentiva per niente un sogno e non gli sembrava un sogno nemmeno l’altro.
L’indomani partirono di buon’ora, a piedi, dopo aver caricato sul cavallo le provviste.
Si dirigevano quasi esattamente a nord, lontano da tutti i centri abitati.
Poco dopo la partenza Jona presentò ufficialmente a Tarciso l’Amuleto, che divenne il terzo nelle loro interminabili chiacchierate.
L’Accademico non aveva mai visto un Amuleto che si comportasse a quel modo, ma, si sa, nei sogni possono succedere le cose più strane, quindi lo accettò senza problemi.
I giorni passavano lenti nella primavera che avanzava a grandi passi.
L’atteggiamento di Tarciso, intanto, cambiava lentamente e trattava oramai Jona da suo pari, senza chiamarlo “sogno” ad ogni piè sospinto.
Il Mago era contento di questo, anche se era evidente che Tarciso era ben lungi dall’ammettere che la realtà esterna aveva una qualche possibilità di esistere.
Dal canto suo Jona si convinceva sempre più della validità delle analisi dell’Accademico, pur senza riuscire ad arrivare alle stesse conclusioni.
Sentiva che c’era un errore cruciale da qualche parte, ma non riusciva a capire dove.
L’Amuleto aveva le capacità di fare analisi dell’attività cerebrale, anche se non erano raffinate come quelle dell’Amuleto di Sofonte. Gli erano necessarie, disse, per poter poi agire sulle terminazioni nervose “giuste” nelle varie magie.
Confermò appieno i risultati di Sofonte: l’unica differenza fra lo stato di veglia e quello di sogno sembrava essere la disconnessione di apparato sensoriale e apparato motorio durante il sogno. Tutto il resto sembrava essere identico, almeno nei limiti di precisione dell’Amuleto.
Poi Jona fece un sogno
In alto, molto in alto, un Uccello del Tuono di Zeo faceva evoluzioni.
Jona lo salutò con la mano.
Quello si abbassò per rispondere al saluto e esplose il suo grido più da vicino.
Jona lo salutò di nuovo e quello si abbassò ancora.
E ancora, ancora, finché il rombo non divenne assordante.
Si era distratto.
Non si era accorto che la zattera era entrata nelle rapide.
L’acqua gli spruzzava sul viso.
La zattera si agitava sotto di lui scuotendolo
“Adesso capisco!” Esclamò Jona improvvisamente all’erta mentre la pioggia cominciava a cadere con grossi goccioloni ancora radi.
“Che diavolo stai dicendo? Vieni che dobbiamo trovare riparo!”
Jona si tirò il cappuccio sugli occhi e cominciò a raccogliere meccanicamente le sue cose: “Tarciso, cerca di seguirmi”, disse lentamente, “Quello che per noi è, soggettivamente, il mondo è, come hai sempre sostenuto tu, composto della stessa sostanza dei sogni.”
“Appunto.”
“Ma, ed è un “ma” grosso come una casa, i nostri sensi, quando sono attivi, fanno sì che il “sogno” sia compatibile con la realtà esterna, oggettiva.”
Si mossero tirandosi dietro il cavallo sotto la pioggia che batteva.
Camminavano in silenzio da più di un’ora con la guida dell’Amuleto, quando Tarciso disse sottovoce: “Allora non sono davvero pazzo come credevo.”