La base della Torre

La base della Torre affondava nel ghiaccio che la circondava completamente coprendo il punto dove si ancorava sulla roccia. Ora che era più vicino giudicò avesse un diametro che sfiorava i duecento metri.
Il tappeto rosso entrava in una galleria scavata nel ghiaccio e, dopo una breve salita, arrivava ad una porta liscia e bianca che si aprì davanti a lui scivolando di lato senza il minimo rumore.

Dentro si trovò in un ampio vestibolo con il pavimento di roccia vulcanica levigata fino a renderla lucida. L’arredamento era composto da due divani semicircolari, un tavolo con quattro sedie ed una serie di armadi che coprivano quasi interamente due delle quattro pareti.

“In quegli armadi ci sono vestiti che ti dovrebbero andare bene”, gli disse Mentore, “non è il caso di rimanere con la roba che hai addosso. La puoi lasciare tutta nella cesta che troverai nel bagno. Ti verrà restituita pulita quando ne avrai bisogno.”
Ora che le porte si erano chiuse alle sue spalle la temperatura si era alzata sensibilmente e Jona si tolse rapidamente il mantello che era diventato improvvisamente soffocante. Si rese conto di respirare meglio.
“Nella Torre l’aria è arricchita di ossigeno”, gli confermò Mentore, “è meglio che ti sbrighi a cambiarti, prima di sentire la stanchezza.”

Jona sapeva che aveva ragione. Già sentiva la testa leggera per il calo della tensione nervosa dopo l’incontro con Thano. Fece un rapido giro per gli armadi e scelse un completo formato da un’ampia camicia bianca, un paio di pantaloni ed un gilè verde scuro pieni di tasche e un paio di solidi sandali.

Dopo la doccia, rivestito di tutto punto e con l’aria tiepida e ricca di ossigeno si sentì molto meglio.
Varcò la soglia sulla parete opposta a quella da cui era entrato portando con sé solo il suo lungo bastone con l’Amuleto in cima.

Seguendo le indicazioni di Mentore si recò prima in un piccolo refettorio dove ritirò, da un armadietto incassato nel muro, un vassoio con dei piatti fumanti che contenevano pietanze sconosciute, ma gustose.
Terminato il pasto seguì un altro corridoio fino ad un piccolo cubicolo senza finestre che conteneva un tavolino e un letto.

Era stanco, ma non voleva ancora addormentarsi. Sul tavolino c’era una cartellina che conteneva un unico foglio di carta bianca ed una penna. Cominciò a prendere appunti su quello che era successo nella giornata, come era la sua vecchia abitudine, prima che il viaggio lo costringesse ad affidare i suoi ricordi all’Amuleto invece che alla carta.
Riempì quattro facciate della sua scrittura fine ed ordinata prima di accorgersi che aveva girato pagina troppe volte per un foglio solo.
“Che foglio è questo, Mentore?”
“Mi stavo chiedendo quando te ne saresti accorto. Forse è meglio che tu vada a dormire, ora.”
“Hai ragione. Sono stanco, ma prima spiegami.”

“Mi può anche far parlare con Serna?”
“In teoria sì, ma non ora.”
“Me la puoi chiamare tu, allora?”
“No.”
“Sono isolato?”
“Fino a quando non avrai incontrato tutti gli Dei.”
“Devo incontrare tutti gli Dei?”
“Jona, vai a dormire. Non sei più in grado di ragionare. Certo che devi incontrare tutti gli Dei!”
Jona stava per rispondere male, ma si trattenne. Gli occhi gli bruciavano e faceva fatica a mettere a fuoco. Mentore aveva ragione e negarlo non sarebbe servito a nulla.

Sognò suo padre quando, la sera in cui Gerba era arrivato a casa loro riportando il giovane Jona che giocava con l’Amuleto, gli aveva messo un mano sulla spalla e, guardandolo dritto negli occhi, come faceva sempre quando la cosa era veramente importante, gli aveva detto:
Erano rimasti a lungo a guardarsi. Alla fine Jona aveva detto con un filo di voce, ma senza abbassare gli occhi: “Capisco, almeno credo. Grazie papà.”
Anche nel sogno sapeva che, di lì a poco, sarebbe ritornato nella grande cucina, dove Gerba attendeva pazientemente chiacchierando futilmente con i suoi genitori, per annunciare che sì, voleva provare a diventare un Mago, ma il sogno prese altre strade.

Si svegliò perfettamente riposato. E si alzò di scatto, pronto a correre incontro alle novità ed al destino, quasi avesse ancora undici anni e non sessantacinque.

Seguendo le indicazioni di Mentore si preparò e varcò un’altra porta.
Non sapeva bene cosa aspettarsi, ma sicuramente la vista lo stupì. Era in un cortile circolare che occupava tutta la base della Torre. Al centro, per metà incassata nel pavimento di roccia nera troneggiava un’enorme ruota che girava lenta.
Cavi neri scendevano giù dal cielo e lassù tornavano, dopo aver girato attorno alla ruota.
Guardò in alto e vide che la Torre non era conica come gli era sembrato, ma, da circolare che era, diventava un’ellisse molto allungata in alto in modo da lasciar spazio ai cavi che sembravano vibrare su una frequenza troppo bassa per essere percepita. Nulla si muoveva oltre la grande ruota.

“Sei pronto per il viaggio?”
“Dove andiamo, stavolta?” Chiese Jona, ma già indovinava la risposta.
“In cielo, ovviamente!”
“Fai strada.”

Una rampa portava ad un’alta struttura sopra la ruota, in mezzo ai cavi.
Lassù c’era una fila di cabine vetrate e cassoni di tutte le dimensioni da una cassetta di circa un metro cubo ad un enorme scatolone che doveva misurare almeno dieci metri per dieci ed essere alto almeno venti.

Mentore lo guidò verso una cabina di due metri per due, con un alto soffitto a cupola; l’intera struttura era in vetro trasparente, anche il pavimento.
Dentro c’era una comoda poltrona fornita di un tavolinetto e di un poggiapiedi.
Dall’altro lato c’era un armadietto.

La porta si chiuse con un sibilo tagliando fuori qualsiasi rumore. Il silenzio era inquietante. Quel vetro doveva essere molto più spesso di quanto sembrasse.

Jona obbedì senza fare commenti.

Appena si fu accomodato la cabina cominciò a muoversi senza scosse su binari incassati nel pavimento e presto venne a trovarsi proprio sopra la ruota, vicino ai cavi che erano alle spalle di Jona.
“Puoi girare la poltrona per vedere meglio, se vuoi”, lo informò Mentore.

Dopo aver girato la poltrona si trovò a guardare direttamente i cavi che erano sei e molto spaziati fra loro, tanto che la cabina riusciva a prendere solo i due centrali. Quella che, vista di lato, gli era sembrata una singola larga ruota, si rivelò essere un insieme di sei ruote che giravano in sincronia. Su ognuna passava un cavo nero che arrivava giù dal cielo e verso il cielo ritornava.

Sul retro della cabina c’erano due serie di ruote grige, forse di ceramica, destinate a impegnare i cavi; una serie direttamente attaccata alla parete della cabina, mentre l’altra si allungava all’esterno sorretta da un supporto e fungeva da controspinta. Le due serie di ruote di ruote, avvicinandosi, imprigionavano il cavo ancorando ad essa la cabina.
Ora le ruote giravano vorticosamente mentre i cavi correvano via veloci.
Una nota metallica ruppe il silenzio.
“Stiamo per partire. Rilassati.”
Altra nota, leggermente più acuta. Poi una terza. Le ruote cominciarono a rallentare e Jona si sentì diventare più pesante e affondare nella poltrona mentre la cabina schizzava verso l’alto.
Quando uscì dalla cima della torre sentì una leggera vibrazione mentre la cabina veniva investita dal vento.
Le ruote che la legavano ai cavi erano oramai ferme e ancoravano solidamente la cabina ai cavi; era in viaggio.

Anche il suo peso era ritornato normale.
Fece per alzarsi, ma Mentore gli disse che gli conveniva rimanere seduto ancora per un po’, tra poco sarebbero stati fuori dall’area delle turbolenze.

Sotto di lui la Terra fuggiva via veloce e poteva abbracciare con lo sguardo l’intero altopiano. Si sforzò di capire da dove era passato, ma non ci riuscì. Quella vista era simile all’Occhio dal Cielo, ma anche diversa. Troppi particolari confondevano e distraevano.

“Quanto stiamo andando veloci?” Chiese.
“Circa quattrocento chilometri orari. Tra cinque ore saremo arrivati.”
“Duemila chilometri di altezza? Così tanto?”
“Saremo appena al di fuori dell’atmosfera terrestre. E solo il primo gradino della scala che porta in cielo. Chiedi a Zeo”, gli rispose Mentore con una certa aria di sufficienza.

Jona invece prese la cartellina con il foglio di carta magico e cercò l’indice dell’enciclopedia. Dopo alcuni tentativi a vuoto trovò quello che cercava: “Ascensore Spaziale del Chimborazo” e cominciò a leggere avidamente.

Quella costruzione era recente, realizzata in vista dei progetti di ristrutturazione del continente sudamericano che sarebbero cominciati di lì a poco.
Le cinque ore che lo separavano dalla “Stazione Suborbitale” passarono senza che lui se ne rendesse nemmeno conto. Solo di tanto in tanto distoglieva gli occhi dal foglio per spaziare sul panorama che si allargava sempre più mentre il cielo diventava sempre più nero.

Le note che indicavano l’inizio della decelerazione lo colsero di sorpresa. Alzò gli occhi e vide l’enorme struttura metallica che gli correva incontro.