Esattamente il giorno del solstizio d’estate la piccola flotta, composta da quattro grandi navi Viknuit e dal piccolo “vascello alato” — come avevano preso a chiamarlo scherzosamente i pescatori — prese il mare con la marea che si abbassava aiutandoli a uscire del fiordo.
La giornata era perfetta e spirava un debole vento da nordest.
Le navi girarono attorno ad un’ansa del fiordo e il villaggio scomparve alla vista; la Grande Migrazione era cominciata.
Una volta in mare aperto puntarono verso nord seguendo da lontano l’alta costa frastagliata. Procedevano ad una certa distanza l’una dall’altra in modo da poter manovrare con tutta calma.
Jona stava imparando la lingua dei Viknuit, più per gioco che per altro, faceva i suoi turni al timone e per le altre corvee di bordo ed era sempre disponibile a parlare con gli altri, ma, per la maggior parte del suo tempo, stava seduto su un gran rotolo di corda con la schiena appoggiata all’albero a studiare. Leggeva i libri immagazzinati dall’Amuleto, studiava con lui la lingua dei Nani, rimaneva in contatto con casa sua a Tigu.
Le giornate si succedevano tutte uguali mentre la piccola flotta procedeva lentamente lottando contro il vento che cercava di allontanarla dalla costa, poi un giorno la costa rimase indietro e attorno a loro non ci fu che acqua.
Jona, grazie all’Occhio dal Cielo, sapeva esattamente dove erano e dove erano diretti: un gruppo di isole quasi esattamente a nord: le isole della Piccola Migrazione.
Si trattava di mari molto pescosi e lì sarebbe cominciato il lavoro vero.
Quello che Jona non capiva era come riuscisse Troomsin a guidare la flotta in mare aperto, senza l’ausilio di un Amuleto.
“Hai visto che Tromsin fa misurazioni all’alba e al tramonto?”
“Un orologio?”
“Una specie. Si tratta di un oggetto molto piccolo, più piccolo di me, ed estremamente preciso. Se hai quello anche la longitudine è facile da calcolare: basta vedere in che momento, esattamente, sorge — o tramonta — il sole. Se non hai il cronografo i calcoli diventano molto più complicati e bisogna calcolare l’altezza di certe stelle quando sorge il sole.”
L’Amuleto cercò anche di spiegargli nel dettaglio quali fossero i calcoli necessari e Jona comprese l’idea generale, ma dubitava fortemente di riuscire ad eseguirli in pratica con la necessaria precisione.
La stima che aveva di Troomsin crebbe.
Poi gli venne un dubbio: “Ma se il cielo è coperto?”
“Allora si è nei guai. I Viknuit hanno buoni metodi per valutare la direzione di marcia e la velocità, ma sono efficaci solo per percorsi brevi. Per questo, a volte perdono intere flotte.”
Le isole della Piccola Migrazione apparvero davanti a loro nella bruma del mattino.
Si infilarono in un lungo canale fra due isole dove scorsero alcune vele lontane. Jona era vicino al timoniere e gli chiese: “Queste isole sono abitate?”
“Certo, ci sono ben cinque villaggi su queste isole. Quelli”, aggiunse indicando le vele, “sono quelli che non hanno potuto partecipare alla loro Grande Migrazione.”,
“Non ci fermiamo da qualche parte?”
Il timoniere lo guardò inorridito: “Sei matto? La Grande Migrazione deve essere fatta senza toccare mai terra!”
“Scusa, non lo sapevo”, rispose Jona con un’aria talmente contrita da strappare un largo sorriso al timoniere.
Questi era un tipico Viknuit: non molto alto — Jona lo sovrastava di una decina di centimetri, pur non essendo certo un gigante — con una faccia rotonda caratterizzata da un naso camuso, da due occhietti piccoli che sembravano due fessure orizzontali e da una larga bocca spesso atteggiata al sorriso.
Jona rimase a lungo a fissare quelle vele lontane e a meditare sulla vita di quel popolo che, pur essendo vitale e vigoroso, perpetuava gli usi e costumi tramandati attraverso le generazioni quasi ciecamente, senza pensare di poterli cambiare.
La piccola barca conteneva cinquanta persone: quarantacinque pescatori migranti e cinque ragazzine di dieci anni, orgogliose del loro ruolo di “trasmigranti”.
Jona aveva impiegato parecchio tempo a capire questa funzione ed era dovuto ricorrere all’aiuto di Asclep; i Viknuit, infatti, gli avevano solo spiegato che cosa facevano: ogni anno la Grande Migrazione portava con sé un certo numero di ragazzine che venivano “scambiate” con loro coetanee nella grande festa d’inverno, così che i migranti tornavano a casa con lo stesso numero di ragazzine che presto avrebbero avuto il menarca e “quindi” non si sarebbero più potute muovere dal villaggio.
I Viknuit narravano storie tremende di villaggi che avevano rinunciato a questa tradizione ed erano incorsi nell’ira degli Dei.
A Jona tutta questa storia non quadrava assolutamente e quindi chiese spiegazioni ad Asclep.
“C’è parecchio di vero in quello che raccontano”, gli disse il Dio, “I Viknuit hanno un senso dell’olfatto e del gusto particolarmente sviluppato e tutti, ma soprattutto le femmine, sviluppano una specie di assuefazione per odori e sapori del luogo di origine. Naturalmente il fatto di essere fermamente convinti che andandosene saranno infelici rafforza questo effetto.”
“Per quanto poi riguarda il fatto che la tradizione è funzionale questo è del tutto vero e mi stupisce”, proseguì Asclep con un tono particolarmente severo, “che tu non ci sia arrivato da solo. I villaggi, come sai, sono composti da poche centinaia di persone. Senza scambi si finisce per essere tutti strettamente imparentati, e tu sai quanto questo sia negativo, dal punto di vista genetico.”
“Ma il menarca?” aveva chiesto Jona, pur sentendosi un po’ a disagio di fronte all’atteggiamento professorale del Dio.