Nemesi

La zattera oscillava placida sull’acqua calma. Jona era molto meno calmo. Aveva cercato di dare giustificazioni per il comportamento dei suoi ex compagni di viaggio, ma ora non riusciva a giustificare un accidente. Si erano comportati da briganti di passo e l’avevano costretto a una deviazione lunga, faticosa e, soprattutto pericolosa. Era deciso a fargliela pagare cara, ma prima bisognava trovarli.

Mwanga mwili (luce del corpo)” alcune parti della zattera assunsero una luminosità rosata. Era fortunato. Tracce del calore dei corpi era ancora presente. Forse si potevano seguire quelle tracce. Voltò l’Amuleto verso il pontile e fu ricompensato da aloni rosati a forma di mani e di piedi che salivano. Il sorriso durò poco. Una volta sul pontile le macchie scomparvero inghiottite da una fiumana rossa. Con tutta la gente passata di lì era impossibile tener dietro le tracce più vecchie.

Kupata chanzo cha kupanda (trova la sostanza della pianta)” Obbediente l’Amuleto analizzò la struttura delle cellule della pianta e cominciò a cercare in giro frammenti che combaciassero. Una scia di pagliuzze di un verde scintillante si dirigevano verso la strada che costeggiava il fiume. La buccia della zucca era coperta da una fine peluria che, rimasta addosso ai ladri, ora gli indicava la strada. Questa non era difficile da seguire.
Colto da un’ispirazione improvvisa tagliò la corda e lasciò che la zattera seguisse la corrente, poi tornò a seguire la traccia. In caso d’inseguimento, dopo quello che aveva in animo di fare, avrebbero inseguito una zattera vuota.

Non dovette fare molta strada. La scia di lucciole verdi si infilava nel portone di una grande casa dai muri verde pallido. Il portone era sbarrato, ma a fianco pendeva la catena di una piccola campana. Jona tirò con decisione.
Si sentì in rumore di passi affrettati e uno spioncino si aprì: “Chi suona a quest’ora?”
“Devo vedere il tuo padrone.”

“Per te, forse, non certo per lui!” Disse sbattendo di malagrazia lo spioncino.
“Come previsto. Come stanno le tue riserve di energia?”

Jona, intanto lo aveva sistemato in cima al bastone dove scintillava di luce di un purissimo giallo, senza traccia di rosso. Che stesse continuando a ricordargli le parole di Thano? Non ce n’era bisogno: a Jona non erano mai piaciute le morti inutili e nella sua lunga carriera era sempre riuscito a evitarle.

Protese il bastone verso la campana che si intravedeva incastrata in una fessura del muro, sopra il portone: “kuomboleza wafu (lamento dei morti)!”.
La campana cominciò a vibrare emettendo un suono lugubre che Jona modificava sia con piccoli spostamenti delle mani che con il mormorio che gli usciva dalla bocca.
Si sentiva vociare dietro il portone.
tetemeko mungu wa dunia (terremoto di Festo)!” Il protone cominciò a vibrare violentemente e quando alcuni calcinacci di staccarono là dove i cardini di ferro battuto erano infissi nelle travi di sostegno, si spalancò e quattro uomini armati di lunghe spade si lanciarono verso di lui.
Jona era pronto: “miguu kulala (gambe che dormono)!” disse facendo percorrere al suo bastone un ampio arco orizzontale. Come se avesse passato una falce gli uomini caddero a terra incapaci di reggersi in piedi paralizzati dalla cintola in giù.
Passò in mezzo a loro piantando la punta ferrata del suo bastone nella mano di uno che stava cercando di usare la spada anche da quella scomoda posizione.

Il portone, dopo un breve corridoio dava in un ampio cortile con al centro un pozzo di ceramica bianca. Jona si sedete sul muretto e disse ad alta voce: “Allora, si può parlare con il padrone di questa bicocca?”
Una finestra, alle sue spalle si aprì cigolando lievemente:

Per quasi un minuto il buio e il silenzio regnarono incontrastati, poi una porta si aprì e si fece avanti un uomo di mezza età, più basso di Jona, il che lo rendeva un nanerottolo, da quelle parti, e decisamente sovrappeso. Era avvolto in una vestaglia sfarzosa. Al suo fianco aveva due armigeri segaligni che lo facevano sembrare ancora più basso e grasso. Cercava, con un certo successo, di darsi un contegno.
“Chi mi cerca?”

Jona lo ignorò completamente e si rivolse verso l’uomo alla sua destra: “Che piacere ritrovarti in buona salute, Ivan. Fatto buon viaggio?”
“Ivan, conosci questo “signore”?” Ivan si era fatto terreo. Lo si vedeva chiaramente anche alla fioca luce della lanterna che reggeva.

Jona fece un passo indietro lasciando che i due si spiegassero, intanto istruiva l’Amuleto su come e cosa controllare, per evitare spiacevoli sorprese lì, nel mezzo di una casa piena di personale sicuramente non amichevole.
Rimase in silenzio a guardare il signorotto. Adesso sembrava molto più sicuro di prima. In fondo si era aspettato qualcosa di peggio. Quando cominciò a inveire pesantemente contro Ivan:
“Non agivano sotto i tuoi ordini? mwanga wa ukweli (aura di Isto!)”
“I miei ordini? No, certo che no!”

L’effetto fu guastato sia dalle gocce di sudore che gli imperlavano la fronte sia dall’improvvisa luce rossa che gli circondò la testa.
“Non ci siamo capiti. Se io faccio una domanda esigo una risposta sincera. Mi spiego? ghadhabu ya Mungu ya kifo (ira di Thano)!”
L’Amuleto cominciò a emettere infrasuoni e bagliori rossi che avevano come effetto quello di provocare terrore nella vittima. I due sgherri si accartocciarono colpiti dalla paralisi, oltre che dalla paura.

Ora Jona e il signorotto erano virtualmente soli.
“Come ti chiami?” chiese Jona gentilmente.
“Vadym”, rispose quello cercando ancora di mantenere una parvenza di dignità.
“Bene, Vadym. Io sono Jona il Mago. Vengo da lontano e non ho tempo da perdere con gente come te. Ora mi spiegherai, con parole semplici e chiare, che cosa hai mandato a fare quei quattro tagliagole fino a Baal.”
“Che ti interessa? Sono affari miei e degli Elfi!”
“Risposta sbagliata.”
Mosse appena la mano sul bastone e un formicolio doloroso cominciò ad attanagliare il petto di Vadym che aprì e chiuse la bocca come un pesce fuor d’acqua. Jona allentò la presa.
“Riproviamo. Che volevi dagli Elfi?” Vadym si decise, finalmente, a parlare, mentre la rabbia gli dava nuovo vigore.
“Quei maledetti non sentono ragioni! Ho provato in tutti i modi. Niente, non vogliono commerciare, non vogliono vendere le loro dannatissime piante. Secondo loro non siamo degni di usarle! Non vogliono oro, non vogliono pelli, non vogliono nemmeno le nostre ceramiche!”
“Ma ora gliel’ho fatta vedere io! Non si rifiutano le offerte generose di Vadym! Non volevano vendere? E allora mi sono preso quello che volevo! Ora ho una pianta dei semi tutta per me! Ora potrò far nascere tutte le meravigliose piante degli Elfi! Chi ha più bisogno di loro?”

Jona cominciò a ridere. Incapace di fermarsi. Aggrappato al suo bastone per non cadere continuò a ridere mentre Vadym lo guardava interdetto chiedendosi se il Mago fosse impazzito o cosa.
Quando riuscì a fermarsi, con le lacrime agli occhi, Jona spiegò fra i singulti delle risate trattenute a stento: “Sei ancora più stupido di quanto sei avido e sei più ignorante di quanto sei stupido. Nemmeno gli Elfi controllano le piante dei semi! Le controlla Asclep in persona. Quando deciderai di chiedergli di farla funzionare per te, ti prego, chiamami: Non vorrei perdermi la scena per nulla al mondo.”

Vadym aveva le orecchie rosse come il fuoco. Non avrebbe dimenticato presto l’umiliazione, né l’avrebbero dimenticata i suoi accoliti, incapaci di muoversi, ma ben svegli. Ora doveva guardarsi anche dai pettegolezzi e se la storia veniva fuori lui sarebbe stato lo zimbello di tutta Minz. Un duro colpo per il suo amor proprio, che aveva l’aria di essere maggiore del suo, pur considerevole, giro-vita.

Jona si girò per andarsene e Vadym, pensando di non essere visto, estrasse un solido pugnale e si avventò silenziosamente contro di lui.
“Bisogna dire che non sai proprio perdere!” disse Jona e, senza curarsi di usare l’Amuleto, calò il pesante bastone sulla testa di Vadym facendolo stramazzare al suolo mentre il sangue gli colava dalla tempia.
Raccolse il bel pugnale e se lo mise alla cintura: “Questo lo terrò io per ricordo. Tu il ricordo lo terrai in faccia”, aveva visto abbastanza ferite da sapere che quella stupida palla di lardo non sarebbe morta, ma che la cicatrice sarebbe rimasta.
Quell’uomo gli riusciva veramente odioso.