Sedeva pensoso sulla sua poltrona preferita.
Dall’ampia finestra entravano la luce del sole e il profumo del mare, ma tepore e salmastro rimanevano fuori della sua coscienza.
Aveva davanti agli occhi il suo Amuleto, un largo disco che sembrava di legno. Ora era inattivo: un grosso medaglione dai bordi arrotondati. Non mostrava la sua potenza.
Quell’Amuleto era stato la sua vita, fin da quel primo incontro con il vecchio Gerba
Era stato la sua vita, l’aveva plasmata, resa ricca, piena.
Ora parlava di morte, della sua morte.
Sapeva bene, dopo tutti gli anni trascorsi, che a sceglierlo era stato l’Amuleto stesso, reagendo alla curiosità, alla voglia di conoscere e a chissà quale altra misteriosa combinazione di caratteristiche di quel ragazzino che si divertiva più alle meraviglie del Tempio di Isto che a giocare con i suoi coetanei.
I suoi pensieri volarono al giorno in cui quello straordinario oggetto aveva fatto irruzione nella sua esistenza.
Non sentì Gerba arrivare alle sue spalle mentre lui era concentrato sul grande libro che aveva di fronte: il “Libro dei Nodi”.
Pur vivendo in un paese di mare, popolato prevalentemente da pescatori, che di cime, drizze, bracci, scotte e dei metodi per giuntarle, intugliarle, intrecciarle qualcosa ne sapevano, non aveva mai immaginato ci potessero essere tanti modi diversi per annodare fra loro due pezzi di corda.
Senza preavviso il vecchio Gerba — allora gli era sembrato davvero vecchio, ma non era molto più anziano di quanto non lo fosse ora lui — ruppe il silenzio facendolo sussultare: “Sapresti rifare quell’intugliatura?”
Gli stava porgendo un lungo pezzo di cordino.
Il giovane Jona aveva fatto il nodo senza degnare di un’occhiata il libro e allo stesso modo aveva fatto senza errori gli altri che Gerba gli chiedeva.
Avevano continuato a discutere a lungo di nodi, corde, intrecci e dei loro usi, poi Gerba aveva tirato fuori da una tasca appesa alla cintura l’Amuleto che splendeva di una luce gialla pulsante: “Sai che cos’è questo, Jona?”
Jona aveva annuito senza parlare mentre Gerba lo posava sul libro con una strana carezza che lo aveva lasciato inerte e opaco.
“Vogliamo vedere se ti riconosce?” Gli aveva chiesto.
Jona aveva allungato la mano esitante poi, vedendo che il suo dito lasciava una scia gialla sulla superficie liscia, si era divertito a fare disegni che svanivano lentamente.
Gerba lo aveva lasciato fare per un po’ poi, quasi parlando con se stesso: “Proprio come pensavo; è ora di fare una visita ai tuoi genitori”, aveva detto, “prendilo e vieni con me, ti riaccompagno a casa.”
Quando erano arrivati a casa l’Amuleto nelle sue mani brillava di una lieve luce giallissima.
La sera stessa Jona, oramai un emozionatissimo Apprendista, aveva salutato i suoi genitori e si era trasferito nella piccola torre sul mare, dove abitava il vecchio mago.
Jona tornò al presente e allungò la mano verso l’Amuleto che reagì immediatamente splendendo di una calda luce dorata.
Troppo calda.
Troppo dorata.
Al giallo della Magia si stava sovrapponendo il rosso della Morte.
Per ora si trattava solo di una lieve sfumatura e nessun altro l’aveva ancora notata, ma Jona la vedeva crescere di giorno in giorno e ancora non era riuscito a capire la natura della minaccia che si stava avvicinando.
Thano era in caccia e non bisognava lasciarsi cogliere impreparati.
Thano, il Dio Cacciatore, infaticabile e perseverante.
Thano, che, alla fine, raggiunge tutti.
Thano, che non ama le cacce facili e ora lo stava avvertendo del suo imminente arrivo.
Il Mago era ragionevolmente sicuro che l’attacco non sarebbe avvenuto tramite una malattia; aveva consultato sua moglie, anche lei una portatrice di Amuleto, proprio di quello di Asclep: il Dio della flora e della medicina.
Il suo parere professionale sul suo stato di salute era stato più che positivo: per un uomo della sua età sembrava aver sopportato le ingiurie degli anni meglio di tanti altri.
Se Dania aveva avuto dei sospetti alla sua richiesta se li era tenuti per sé, in attesa che lui si decidesse a parlarne.
Lo sguardo del Mago corse al grande specchio che spandeva la luce della finestra per tutta la stanza e quello gli rimandò l’immagine di un viso serio, quasi accigliato, di una persona ancora forte, pur se oramai avviata verso il declino, della quale s’intuiva l’energia latente anche ora che era rilassata sull’ampia poltrona di pelle consumata dall’uso.
Nonostante i sessanta anni suonati aveva ancora la maggior parte dei capelli neri a far da contrasto con la barbetta ben curata ormai quasi completamente candida; solo qua e là qualche pelo conservava ostinatamente il colore della gioventù.
“Questa non è la faccia adatta a cominciare la giornata”, borbottò.
Si riempì i polmoni e, mentre espirava lentamente, passò la mano davanti al viso.
Quello che emerse aveva un’espressione sicuramente seria, ma non corrucciata, e con lampi di allegra energia nello sguardo.