Author: mcon

  • Ricerca

    Jona si svegliò con tutti i sensi all’erta.
    Le luci erano tutte accese.
    Aveva la gola riarsa.
    Si tirò a sedere sul letto.
    La mente era sveglia, ma il corpo dolorante e mezzo anchilosato.
    Una domanda a quello stupido amuleto gli confermò quel che intuiva: erano passati quattro giorni dal suo incontro con Thano.
    Doveva rimettersi in moto o presto sarebbe stato troppo debole per farlo.
    Bevve un sorso d’acqua dalla bottiglia che aveva sul tavolino, poi un altro, con attenzione.
    Si trascinò in bagno e sciacquò il viso.
    La faccia che lo guardava dallo specchio non gli piacque per niente.

    Si costrinse a fare una mezz’oretta di ginnastica leggera ignorandole proteste di muscoli e giunture.
    Sapeva che mantenersi in una discreta forma fisica era essenziale per mantenere la necessaria lucidità mentale.
    Dopo la ginnastica fece una lunga doccia calda e infine si costrinse a mangiare qualcosa.
    Non aveva fame; questo era un pessimo segnale e lui ne era perfettamente cosciente.

    Oramai sapeva che cosa fosse quel posto e indovinava chi lo aveva costruito, ma tornare subito da Thano sarebbe stata follia.
    Aveva molte cose da imparare, prima di andarsene e poco tempo per farlo.

    Quando le luci cominciarono a spegnersi, molte ore dopo, aveva pianificato un altro pezzo della sua vita.
    Poteva restare lì ancora due mesi circa, se razionava accuratamente le sue provviste e non sorgevano imprevisti.
    Aveva deciso che avrebbe affrontato il Dio Cacciatore in buone condizioni fisiche e con provviste per un’altra settimana.

    Tutto il giorno era rimasto rintanato nel suo appartamentino, ma da domani doveva cominciare la routine che si era prefisso.
    Mise da parte il foglio su cui aveva appuntato il suo programma e tornò a coricarsi.

    Le giornate presero a correre lente e uguali: si alzava presto e faceva ginnastica per almeno un’ora filata, poi si lavava, faceva colazione e trascorreva lunghe ore in biblioteca. A sera, dopo una parca cena, tirava le somme di quello che aveva imparato.
    Annotava le risposte che aveva trovato, compilava una nuova lista di interrogativi e, cosa alla quale dedicava particolare attenzione, sceglieva gli argomenti su cui si sarebbe concentrato l’indomani.

    Ci mise poco a capire che i libri si dividevano in due grandi categorie: quelli divulgativi, con grandi figure, facili da capire, ma molto superficiali e, a volte, pieni di racconti fantastici, e quelli tecnici, spesso concentrati su aspetti estremamente particolari, pieni di parole che lui non conosceva, ma che sembravano più attendibili.

    Dopo due settimane trovò il primo tesoro: una serie di trentadue pesanti volumi neri sulla cui costola era impresso in oro “Britannica”.
    Da quel momento il lavoro si fece più spedito e i fogli su cui annotava meticolosamente le sue scoperte formarono una pila che cresceva a vista d’occhio, ma il numero delle questioni irrisolte non accennava a diminuire, anzi.

    Alla fine del primo mese decise di impiegare qualche giorno per cercare di trovare la versione “elettronica” dell’enciclopedia che, se quanto leggeva era vero, poteva essere trasportata facilmente.

    La ricerca lo portò ad approfondire il concetto di “calcolatore”, oggetto indispensabile per utilizzare l’enciclopedia “elettronica”. Si perse per qualche ora nelle descrizioni, zeppe di parole che non conosceva e che venivano definite usando termini altrettanto ignoti prima di arrendersi all’evidenza: non ne sarebbe venuto a capo nel breve tempo che aveva a disposizione.
    A malincuore tornò ad argomenti più pressanti e comprensibili.

    Il filone principale delle sue ricerche rimase per tutto il tempo la Storia e le Religioni.
    Aveva cominciato cercando riferimenti agli Dei e ne aveva trovati troppi e troppo diversi.
    Aveva attraversato molti paesi, ma tutti riconoscevano l’autorità degli stessi dodici Dei.
    Le storie che leggeva qui, invece,parlavano di parecchie grandi religioni molto diverse l’una dall’altra, con dei che spesso sembravano molto presenti in epoche remote, ma poi si ritiravano e non interagivano più di frequente, tanto che c’erano persone che negavano l’esistenza di un qualunque dio. Neppure gli abitanti degli Stati Guerrieri dubitavano dell’esistenza e del potere degli Dei, solo non volevano averci a che fare, o meglio: non volevano avere a che fare con i loro sacerdoti.
    Chissà che stava facendo Reginald ora.

    Un’altra cosa che sentiva avere una grande importanza era la storia della “civiltà” e del “progresso”.
    Quei libri parlavano di imperi e nazioni che avevano un’immensa potenza.
    Potenza spesso usata per distruggere.

    Quei libri erano stati stampati nell’anno 2056.
    Non sapeva quanto tempo fosse passato da allora
    Cominciò a cercare la mappa che aveva visto qualche giorno prima.
    La costa non era cambiata molto. Non ebbe nessuna difficoltà a trovare il luogo dove si trovava ora: una grande città con, diceva l’enciclopedia, più di dieci milioni di persone.
    Il numero gli fece girare la testa. Non ce n’erano così tanti in tutte le terre che aveva attraversato messe assieme.
    Eppure non poteva sbagliarsi, anche il nome corrispondeva, più o meno: “New York” non suonava poi tanto diverso da “Nayokka”.
    La montagna non c’era, ma quella sapeva bene che l’aveva costruita Festo, il Parco, invece, sì ed era stato costruito intorno al 1850, ovvero circa duecento anni prima che fosse stampata quell’enciclopedia, che doveva essere vecchia di duemila e ottocento anni. Sicuramente non li dimostrava. Sembrava molto più nuova di alcuni dei suoi libri. Nonostante ciò prese a trattarla con un rispetto ancora maggiore di quello che riservava normalmente a tutti i libri.
    C’era anche una piantina del Parco Centrale.
    Era un grande rettangolo, allora come oggi.
    Lui si trovava pressappoco a metà del lato ovest.
    Il cuore perse un colpo mentre leggeva “Museo Americano di Storia Naturale”.
    Sfogliò febbrilmente le pagine per trovare la definizione che cercava:

    Le luci che si spegnevano lo colsero di sorpresa mentre lui stava ancora seguendo i riferimenti incrociati, cercando definizioni e spiegazioni di termini.
    Il lavoro era improbo: la lingua era quella dei Nani — o, meglio: i Nani parlavano inglese, si corresse mentalmente — ma il contesto era completamente differente e molti termini non avevano alcun riscontro nel mondo che Jona conosceva.

  • Verso ‘Rruth

    Quando, a Zeo piacendo, la tempesta si placò e loro poterono uscire trovarono il ponte coperto da uno spesso strato di sabbia finissima.

    Agio stava per aprire il boccaporto quando Serna lo bloccò con un grido improvviso.

    Il Djinn di Isto si mise a ridere fragorosamente: “Brava”, disse battendo le mani con le lacrime agli occhi, “Mi hai fatto vincere una bella scommessa! Non credeva ci avresti pensato!”

    Fermo rimase imbambolato: “Pensato a cosa? Scommessa?”
    “Che quella è terra del Continente Proibito e, forse, non è il caso di camminarci sopra”, gli rispose Sindehajad, mentre Serna aspettava pazientemente che il Djinn smettesse di ridere e si spiegasse.

    “Non c’è problema. Isto dice che potete tranquillamente toccare la sabbia portata dal vento. A volte la sabbia del Continente arriva fino a ‘Rruth, anzi a volte, quella più fine, cavalca i venti fino in Ligu e oltre. Toccandola non incorrerete nell’ira degli Dei. Parola di Isto”, le ultime parole le disse con un tono formale e senza la minima ironia.

    Serna tirò un sospiro di sollievo mentre tutti sciamavano fuori per controllare se la nave avesse subito danni. Stava per uscire anche lei, ma si girò e chiese al Djinn: “Con chi avevi scommesso?”
    La risposta la lasciò basita anche se, in fondo, se l’aspettava.

  • Cantare l’Om

    Erano rintanati sotto coperta, ad ascoltare il vento che fischiava fra sartie e manovre e a preoccuparsi senza poter far nulla.

    Serna stava pensando a suo padre e a come doveva essersi sentito in quella famosa botte sul Rin.

    “Come sapevi che sarei finito in acqua?” Le chiese a bruciapelo il Geco.
    Lei lo guardò lottando per tornare al presente:
    “Ma ti sei mossa ben prima che succedesse. Ti ho vista molto bene!”
    Serna abbassò gli occhi a disagio: “A volte faccio delle cose senza sapere esattamente quello che sto facendo. Quando ho visto quel tronco sono schizzata verso la murata e ho preso quella cima; sapevo che era importante, ma ho capito cosa dovessi farci solo quando ti ho visto cadere.”

    Sul tavolino il Djinn di Isto stava sospeso ad un palmo dalla superficie, in una curiosa posizione, con le gambe intrecciate, le braccia leggermente aperte lungo i fianchi e gli occhi chiusi. L’aura violetta sembrava vibrare assieme al ronzio profondo che emetteva.
    Durò un tempo apparentemente molto lungo, ma che non doveva superare il minuto.

  • La tempesta

    La navigazione procedeva senza incidenti da tre giorni e si trovavano in prossimità del grande delta.
    Il fiume era ampio e la corrente regolare.
    Non c’era molto da fare a bordo, tranne aspettare e preoccuparsi.

    Fu il Geco, nel calore del pomeriggio, a vedere per primo il cambiamento nel cielo: “Sta arrivando”, disse semplicemente indicando verso sud.

    Nessuno chiese che cosa stesse arrivando, ma molti si chiesero che cosa avesse visto.
    Serna fece la domanda e il Geco le indicò una sottile linea all’orizzonte. Il cielo, da azzurro stava diventando giallo.
    Per parecchio tempo la linea rimase quasi immobile, poi, piano piano, cominciò ad alzarsi, come una tenda che sale dal basso prendendo velocità e vigore.

    Agio stava osservando le ripe alberate dell’ansa che stavano percorrendo. La sua testa si muoveva a scatti, come quella di un uccello preoccupato. Poi trovò quel che cercava e si appoggiò pesantemente al timone facendo piegare la piccola nave e sorprendendo gli altri che stavano con gli occhi al cielo.

    “Ehi, Geco, te la senti di rifare il numero della scimmia?” Chiese sorridendo e indicando un grande albero che faceva ombra sull’acqua.

    Sindehajad seguì il suo sguardo, valutò la chioma per una frazione di secondo, poi annuì senza parlare.

    “Prendi la cima di prua e legala saldamente”, gli disse Agio mentre correggeva ancora la rotta, “Non avremo molto tempo per aggiustamenti.”

    Il Geco afferrò il rotolo di robusto canapo che Agio gli indicava e si inerpicò su per l’albero come un lampo.

    La tempesta di sabbia, intanto, era quasi su di loro e la linea che divideva l’azzurro dal giallo avanzante si era fatta meno netta, ma era oramai quasi sopra le loro teste.

    L’albero correva loro incontro e il Geco non aveva occhi per altro: aveva scelto un ramo e su quel ramo aveva già lanciato il suo cuore, ora doveva andare a riprenderselo.

    Agio fece virare bruscamente la barca spedendo la vela sui rami, a rischio di lacerarla. Il giannizzero descrisse un breve arco e andò ad atterrare su un piccolo ramo che si piegò pericolosamente sotto il suo peso, il geco lo usò come fosse un trampolino per lanciarsi verso un’altra biforcazione solida a sufficienza per ancorare la nave.

    “Ammainate le vele”, urlò Agio ancora prima che il Geco avesse finito di annodare la cima d’ormeggio.
    Pochi secondi dopo la cima si tendeva piegando il ramo e facendo scricchiolare pericolosamente le gallocce a cui era fissata a bordo.
    I rami più piccoli già si agitavano impazziti alle prime folate di un vento caldo e prepotente. Non c’era più tempo: la tempesta era arrivata.

    Sindehajad stava scendendo lungo il canapo per riguadagnare la barca quando Serna corse verso la murata e afferrò una cima arrotolata; in quel momento un grosso tronco, portato dalla corrente, urtava la prua della nave facendola sobbalzare e provocando un sonoro schiocco sul cavo d’ormeggio che, fortunatamente, tenne.
    Il Geco fu meno fortunato e lo strattone gli fece perdere la presa.
    Non aveva ancora toccato l’acqua che la cima che Serna aveva in mano volava verso di lui.

    “Datemi una mano!” gridò la maga mentre Sindehajad si avvolgeva la corda attorno al polso sinistro, cercando al contempo di nuotare con la destra.
    In un istante era di nuovo a bordo: “Ti devo la mia vita, Maga”, le disse guardandola negli occhi.

  • Secondo Interludio

    Jona non seppe mai quanto era rimasto svenuto sul duro pavimento.
    La prima cosa che sentì fu la vibrante protesta delle sue ossa, irrigidite dal freddo e dalla scomoda posizione.
    Aprì gli occhi sforzandosi di ricordare dov’era.
    Cercò di alzarsi, ma riuscì solamente a girarsi sulla schiena; aveva tutta la parte destra paralizzata.
    Dopo qualche secondo un doloroso formicolio lo informò che il braccio e la gamba erano addormentati, probabilmente perché compressi nel sonno.
    Mentre cercava di riprendere fiato e di accettare il dolore della riattivata circolazione gli tornò in mente dov’era e che cosa stava facendo lì.
    Thano c’era andato pesante con la sua punizione, anzi, no, in realtà era stato fortunato: aveva pensato di non risvegliarsi mai più.
    Evidentemente non era qui che doveva morire.
    Fece un altro tentativo e riuscì a mettersi seduto.
    Doveva aver pazienza. Tutta la parte destra era in fiamme e non riusciva assolutamente a muoverla.
    Stava tremando per il freddo.
    Se non fosse riuscito a tornare nella sua stanza sarebbe morto di freddo e di sete. Aveva la bocca riarsa.

    Riuscì a biascicare qualche parola e l’Amuleto lo inondò di una calda luce gialla. A poco a poco il tremore scomparve, ma la debolezza rimase.
    Cercò anche di usare l’Amuleto per calmare il dolore, ma quello stupido oggetto non sapeva come fare.

    Si trascinò verso il muro, facendo ben attenzione a restar lontano dalla barriera rossa di Thano, e riuscì a tirarsi in piedi.
    La gamba destra era ancora inusabile, ma il braccio cominciava a reagire, debolmente, ai suoi stimoli.

    Rimase lì a lungo, ansante e incapace di muoversi, ma la sua mente correva veloce.

    Adesso sapeva che cosa era quel posto.
    Non era così strano che Isto lo avesse attirato lì, dopotutto.
    Era così diverso che lui, fino a che Thano non aveva espresso con veemente fermezza il Suo disappunto per la risposta errata, non aveva collegato, ma questo posto assomigliava alle sale del Tempio di Isto dove aveva trascorso tante delle sue giornate, una vita fa.
    Qui c’erano tante sale, la maggior parte delle quali enormi mentre al Tempio c’erano solo tre stanzette, ma ogni volta che si entrava erano diverse e rivelavano nuove meraviglie.
    Era in un posto costruito per insegnare.
    Doveva imparare tutto quello che questo posto poteva insegnare, poi avrebbe potuto ritornare da Thano.

    Ebbe un brivido: se sbagliava un’altra volta non ci sarebbe stata una terza possibilità. Di questo era certo.

    La gamba stava lentamente reagendo agli stimoli.

    Poco dopo, appoggiandosi pesantemente al suo bastone, cominciò ad arrancare verso la sua stanza.

    Cadde diverse volte e le membra gli dolevano, anche se aveva riacquistato, almeno parzialmente, l’uso della sua parte destra.

  • Il Principe

    La risposta non si fece attendere troppo.
    Un grido lontano, appena udibile nei rumori del fiume: “Sono qui! Arrivo! Attenti ai tronchi!”
    Guidata da quella voce Serna lanciò l’Occhio di Lince.
    Il Principe era sui rami di un albero e, muovendosi con una cauta scioltezza che denunciava una certa pratica, cercava di spostarsi da un albero all’altro per avvicinarsi alla riva del fiume.
    Procedeva con lentezza e determinazione, attento a non scivolare.

    “Ecco come ha fatto a non destare l’ira degli Dei!” Esclamò il Geco.
    Serna annuì ammirata:
    Gli occhi del Giannizzero ridevano: “Non credo che si toglierà mai quel soprannome di dosso. Può darsi che non gli piaccia, ma può andarne fiero. Non sarebbe meglio calare la lancia in acqua, così da andarlo a recuperare?”

    La Maga stava per rispondere quando Fermo disse: “Vado io”, con il tono di chi non vuol sentire ragioni.
    Serna si morse il labbro e rimase zitta.

    La barchetta era stretta e piatta, l’avevano scelta apposta per poter passare nelle acque basse.
    Fermo e un marinaio si diressero verso il punto dove stava convergendo Samaldinir: un grande albero dalla larga chioma che si protendeva fin sul fiume.

    Serna seguiva l’avvicinamento del Principe e, a un certo punto vide che si sbracciava verso la barca urlando un avvertimento che non riuscì a capire.

    “Dì a Fermo di tornare indietro”, disse il Geco con una calma carica di tensione, “Agio, cerca di avvicinarti alla barca più che puoi. In fretta.” Intanto si stava togliendo la giubba e la camicia.

    Serna riportò la sua attenzione alla barca e vide che stava viaggiando verso alcuni tronchi galleggianti. No, non erano tronchi. Si muovevano e avevano degli occhi che le sembrarono avere un lampo malvagio: “Che cosa sono?”
    “Non lo so”, rispose lui, “ma il Principe dice che sono pericolosi.”

    La barca era quasi sotto la chioma dell’albero quando il più vicino di quei “tronchi” aprì una bocca enorme e si avventò sulla piccola lancia facendola ondeggiare pericolosamente.

    Il Geco chiese a Serna, con gentilezza, ma con l’urgenza nella voce: “Posso avere il ruhmal?”
    Avuta la strana arma disse qualche parola ad Agio che sorrise
    e si inerpicò come un gatto su per le sartie e poi, raggiunto l’albero, si inerpicò in precario equilibrio lungo il pennone che sosteneva la parte superiore della vela.
    Presto Agio avrebbe dovuto virate per non andare a impigliarsi nella chioma dell’albero, mentre la lancia, stava andando alla deriva con Fermo e il marinaio che stavano usando i loro remi per tenere a bada quei terribili animali che li assediavano.
    Agio virò bruscamente sfiorando la chioma dell’albero.
    Sindehajad urlò: “Ora!”, e la vela su cui stava appollaiato venne lascata completamente proiettandolo verso l’albero dove riuscì ad afferrarsi ad un ramo che si piegò pericolosamente sotto il suo peso, ma resse.
    Un istante dopo stava correndo sui rami orizzontali, come fossero comodi sentieri, fino a trovarsi sopra la barca. Svolse la cintura, che si rivelò essere una solida corda nera e la lanciò verso Fermo che se l’arrotolò attorno al polso proprio mentre uno di quei mostri riusciva a strappare con un morso un pezzo della fiancata della lancia, che prese ad affondare rapidamente.

    Con uno sforzo erculeo il Geco riuscì a sollevare Fermo dall’acqua.
    Il marinaio intanto cercava di raggiungere la nave a nuoto. Non riuscì a fare che poche bracciate, ma attirò tutti quei mostri lontano da Fermo che intanto stava tentando di risalire quella fune, troppo sottile per una comoda presa.

    L’arrivo del Principe risolse la situazione e Fermo fu issato a forza di braccia come una balla di fieno.
    “Che facciamo, ora?” Chiese Fermo quando tutti e tre ebbero ripreso fiato.
    “Ci diamo al giardinaggio”, rispose il giannizzero con aria misteriosa.
    Gli altri due si guardarono senza capire.
    “Dobbiamo potare un po’ quest’albero cosi che Agio possa avvicinarsi di più.”
    “E come pensi di tagliare questi rami? Ci vorranno giorni.”
    “No. Non abbiamo tutto questo tempo, datemi una mano, ma fate attenzione”, disse tirando fuori il ruhmal.

    Usando il filo come un’affilata sega cominciarono a tagliare la maggior parte dei rami che andavano verso il fiume, lasciando solo il più grosso e pochi altri, poi sfrondarono anche quelli fino a che non rimase una passerella che si protendeva sul fiume.

    Al Giannizzero non sfuggì che il Principe lo stava guardando con una montante ostilità: “Trattieni la tua ira, o Signore”, gli disse senz’ombra d’ironia, “Quest’utile strumento non è mio e, anche se temo che sia stato usato contro di te, non sono stato io a farlo e non intendo farlo ora. Attendi che siamo in salvo sulla nave e poi avrai tutte le spiegazioni.”
    Samaldinir si rilassò solo un poco, i suoi occhi dicevano: “Fa che le spiegazioni siano complete ed esaurienti o dovrai fare i conti con me!”

    Agio attese che la corrente portasse via i detriti più grossi e poi si riavvicinò.
    Tre volte fece virare la nave sotto il ramo, e tutti e tre vennero tratti a bordo. Prima il Principe, poi Fermo e infine Sindehajad, che riuscì anche a recuperare la sua corda, riavvolgendola in vita con un nodo complicato.

  • Verso la palude

    La mano del Geco la scosse.

    Serna si alzò ancora frastornata.
    “Arrivo. Vieni anche tu, dobbiamo parlare.”
    “Chiamo Mirko e Fermo?”
    “No. Non ancora. Sbrighiamoci.”

    In poche parole spiegò ad Agio e al Giannizzero quello che le aveva detto Zeo.

    Il timoniere era preoccupato, ma disse con una certa confidenza: “Questa nave è piccola, ma su acqua calma, e il fiume lo è, può sopportare venti di cento chilometri all’ora. Dobbiamo prepararci, ma penso che ce la faremo.”

    Il Geco, invece, scosse la testa: “Zeo ti ha detto solo la metà della storia.”

    Quattro occhi preoccupati e interrogativi si fissarono su di lui: “I venti del deserto, quando cominciano a soffiare, sollevano la sabbia. Perché credi che noi, gente del deserto, ci vestiamo a questo modo?” Svolse due giri della sciarpa nera che gli faceva da cappello e se la avvolse attorno al viso; ora non si vedevano più neppure gli occhi:

    Serna e Agio si guardarono sgomenti, poi si riscossero.
    “Vai a chiamare Mirko e cerchiamo di sbrigarci”, disse la Maga.
    “Non c’è molto da poter fare”, ribatté Agio, “dati vento, barca e corrente questo è il meglio che possiamo fare, purtroppo.”

    Il vecchio marinaio, come al solito, aveva perfettamente ragione e né insulti né blandizie riuscirono a far correre la piccola nave più di quanto già non stesse facendo.
    Due giorni dopo arrivarono alla gola che Serna aveva visto.
    Era proprio come la ricordava: una sottile striscia di verdi piante acquatiche lungo la riva, poi sassi e roccia calcinata dal sole.
    Era anche molto corta, forse meno di un chilometro, poi si apriva in una valle paludosa nella quale crescevano alberi imponenti.

    Agio cominciò a far bordeggiare la nave cercando di mantenerla ferma, mentre Serna usava l’Amuleto per cercare il Principe che, a quanto aveva detto Zeo, non doveva essere lontano.

    La valle era ampia e la palude non si estendeva, il resto era una foresta intricata pullulante di vita. Trovare il Principe non sarebbe stato facile.

    “Più facile che sia lui a trovare noi”, disse a un certo punto il Geco,
    Serna non lo lasciò finire: “Tappatevi tutti le orecchie!” Gridò con un sorriso.

  • Zeo

    A sera, prima di coricarsi per il suo turno di riposo, Serna chiese a Zeo quali erano le sue intenzioni, ma, invece di sentirsi dire, come tutte le sere, che i venti da sud sarebbero continuati costanti, Zeo apparve con il suo Avatar: un’aquila azzurra.
    Il tempo sta per scadere, Serna”, disse il Dio guardandola con quegli occhi rapaci, “hai meno di una settimana, poi cominceranno i venti da sud.
    “In teoria i venti da sud ci dovrebbero aiutare sulla via del ritorno, ma non credo che sia questo che volevi dirmi. Che cosa non so?”
    Sono molte le cose che non sai, bambina”, disse l’aquila con una voce lievemente gracchiante.
    Serna attese pazientemente e a capo chino.
    I venti da sud”, riprese il Dio, “sono molto più impetuosi di quelli del nord, da queste parti. Stavolta non saranno troppo forti. Solo cinquanta nodi.
    Serna impallidì. Solo cinquanta nodi? Erano quasi novanta chilometri orari. Su un fiume, per quanto largo? Senza poter toccare terra né gettare l’ancora?

    “Puoi dirmi, tu che tutto vedi, dov’è il Principe?”

  • Il Grande Fiume

    La mattina dopo, alle prime luci dell’alba, sospinta dalla marea montante, la piccola nave si infilava in una delle bocche del fiume, un largo canale con rive distanti più di cento metri.

    La costa era lussureggiante con alti alberi che arrivavano fin sull’acqua. Grandi uccelli bianchi con la testa — fornita di un lungo becco — e la coda neri nidificavano fra i rami.

    La tensione era palpabile. Non potevano esserci errori di manovra.
    Posse e Zeo erano favorevoli. Un leggero vento di Tramontana li spingeva contro la corrente fiaccata dalla marea.

    Gli occhi di Agio, al timone, passavano dalle vele all’acqua alle immagini che Serna gli mostrava con la profondità delle acque.

    Nel pomeriggio Serna, annoiata della navigazione tranquilla, si rese improvvisamente conto di aver fatto un errore: Agio era sicuramente il miglior timoniere, anche se il suo secondo, Mirko, era anche lui molto sveglio. Sarebbe stato meglio legare lui al Djinn, in modo da poter essere presenti entrambi nei momenti difficili che, lo sapeva, sarebbero sicuramente arrivati.
    Provò a chiedere, pur sapendo bene quale sarebbe stata la risposta.
    “Hai scelto. Capisco le tue ragioni, ma avresti dovuto essere meno precipitosa.”

    Mandò Agio a riposare e, maledicendosi per la sua impazienza, si mise accanto a Mirko.

    La notte passò tranquilla, mentre facevano turni di due ore.

    Ai loro lati i vari bracci del grande delta continuavano a confluire e il Grande Fiume si faceva sempre più grande.
    Era tarda mattina quando passarono l’ultima ramificazione; erano fuori dal delta e la corrente era vigorosa, ma il vento si manteneva favorevole.

    Gli alberi cambiavano, ma i due muri di vegetazione, alti diverse decine di metri, rimanevano, impedendo loro la vista.

    Serna sapeva, perché l’Occhio del Cielo lo mostrava chiaramente, che quello era solo un nastro relativamente sottile; solo pochi chilometri di verde lussureggiante, poi c’era il deserto.

    Un giorno, dopo una settimana di navigazione, il muro di verde si interruppe bruscamente e il deserto, sotto forma di un’alta costa rocciosa che arrivava fin sulla riva, si presentò in tutto il suo abbacinante fulgore. Nonostante fosse ancora gennaio, il mese più freddo, si sentiva chiaramente che il sole arroventava senza pietà quelle pietre calcinate.

    Sindehajad sparì sotto coperta come un lampo e ritornò tenendo in mano un lungo arco ricurvo e una freccia.
    Agio stava tenendo la nave lì dove l’acqua era più profonda, proprio vicino alla ripa rocciosa.
    La freccia partì sibilando e scintillò stranamente al sole, prima di sparire fra le rocce.

    Serna era infuriata, più per il fatto di essere stata presa in contropiede che per altro; dopotutto le acque erano rimaste tranquille e il cielo non dava segni di voler crollare sulla loro testa. Anche l’Amuleto confermava che gli Dei non si interessavano a loro, almeno in apparenza.
    “E che favore sarebbe, di grazia?” Chiese acida.
    “Il Sultano voleva sbarazzarsi del Djinn che lo aveva servito così bene negli ultimi tempi. La Lampada era legata alla punta della freccia.”
    Serna rimase prima attonita, poi scoppiò in una fragorosa risata.
    “Bellissimo! Così dovrà aspettare che gli Dei decidano di togliere la proibizione all’intero continente, prima di avere qualcun altro da turlupinare. Si sentirà ben solo quando riuscirà a guardar fuori dalla sua lampada”, disse quando riuscì a riprendere fiato, “di chi è stata l’idea? Non credo che il Sultano abbia abbastanza fantasia per un tiro simile.”

  • Dubbi

    Poco dopo aver raggiunto il Continente Proibito la costa cambiò improvvisamente aspetto e, da arida e brulla che era, divenne verde e lussureggiante.

    Agio guardò la costa con occhio critico: “Meglio fermarci al largo ed entrare domattina con il favore della marea. Queste acque hanno l’aria di esser piene di secche.”
    Serna annuì la sua approvazione e scivolò silenziosa sotto coperta.

    La piccola colonna che la univa al Djinn di Isto era lì, sul tavolino e brillava di una leggera aura violetta.
    “Sembri preoccupata, Serna”, disse il Djinn.
    “Lo sono. Non mi piace sfidare così l’ira degli Dei.”
    Nella voce del Djinn si intuiva un sorriso: “Prova a vederla sotto un altro profilo: Tu non stai sfidando gli Dei, per lo meno Isto ti ha dato il suo permesso di tentare la missione e sono certo che ti sei già accorta che Posse ti sta aiutando. Al contrario, sono gli Dei che vi stanno mettendo alla prova: vogliono vedere se sarete in grado di completare il salvataggio senza infrangere le regole.”
    Serna rimase in silenzio per alcuni lunghi minuti: “Effettivamente, messa in questo modo, ha tutto un altro sapore.”

    “Sei sicuro di potermi aiutare nella navigazione?” Chiese poi con un tono completamente diverso.

    Il Djinn era rimasto sulla quinta di dominate e Serna se ne accorse immediatamente. Che cosa aveva tralasciato?
    “A me basta il mio Amuleto per avere la mappa del fondale. Ho già provato. Tu sei disposto ad aiutare qualcuno che non sia io? Il viaggio durerà diversi giorni. Non posso stare sveglia per tutto quel tempo. Gettare l’ancora, ovviamente, non possiamo.”
    “Posso rispondere ad una sola persona, di tua fiducia. Devi scegliere chi.”
    “Agio”, rispose Serna senza esitazione.
    Il Djinn si mostrò stupito: “Non Fermo?” Chiese.
    “No”, disse lei scuotendo la testa, “Agio deve avere le informazioni di prima mano, se deve pilotare in sicurezza.”