Author: mcon

  • Veleggiando verso il Grande Fiume

    Una pioggia fredda e insistente bagnava le vele, sembrava che fosse finalmente giunto l’inverno anche in queste terre calde. Posse, comunque, trattene la sua furia: vento teso e pioggia sferzante non si trasformarono mai in vera burrasca.

    La nave correva veloce con Agio al timone, riparato da un tendone tirato su all’uopo.

    Sotto coperta Serna, Fermo e il Geco — la Maga aveva cominciato a usare il suo soprannome non appena era stata sicura che a lui non dispiaceva, trovando “Sindehajad” insopportabilmente lungo — stavano cercando una strategia per ritrovare il Principe.

    “Quello che sappiamo è che Samaldinir è scomparso la notte prima che arrivassero alle secche del Grande Fiume.”
    “Siamo ancora troppo lontani perché io possa vedere quella zona.”
    “Comunque deve essere ben lontana, visto che il nostro uomo ci ha detto che ci sono voluti sei giorni, su quel rottame di nave spinto dal vento di sud, per arrivare al delta e poi sono stati spinti a occidente per molti giorni, prima di fare definitivo naufragio.”
    Il Geco spianò bene la rozza mappa che Serna aveva disegnato ricopiando le informazioni dell’Amuleto:

    Serna e Fermo si guardarono sentendo un brivido lungo la schiena.
    Il Dio che si divertiva a fare scherzi complicati, che facevano divertire solo lui, era uno solo e il suo interessamento non lasciava presagire niente di buono.
    Se era vero allora niente era casuale, in quel viaggio.

    Serna pescò una piccola borsa dalle pieghe del suo vestito e da questa trasse il rocchetto con i due anelli d’ottone: “Che cos’è questo?”

    Il Geco sgranò gli occhi stupito: “Dove hai preso quel ruhmal?”
    “Prima tu ci dici che cos’è di preciso e poi noi ti diciamo chi ce lo ha dato”, intervenne Fermo.

    Sindehajad lo ignorò platealmente e rispose a Serna:
    “Un’arma? Ma è solo un filo!”
    Il Geco la guardò con aria di sufficienza: “Hai idea di che cosa possa fare quel “filo”?”

    La risata improvvisa la interruppe.
    “Che ho detto di tanto buffo?”
    “Non riusciresti mai a rompere quel filo. Gli anelli si romperebbero molto prima. Nessuno è mai riuscito a rompere un filo di Seta Nera. Guarda!” Prese il rocchetto e, premendo il piccolo pulsante, fece srotolare un palmo di un filo che si vedeva appena tanto era sottile. Tenendolo per i due anelli e facendo bene attenzione a non toccarlo lo fece scivolare lungo il bordo del tavolo staccandone una sottile scheggia perfettamente liscia, come se il tavolo fosse stato di burro, poi ne avvolse una spira sul collo di una bottiglia e tirò leggermente: anche quella venne recisa con un taglio netto, come nessun coltello avrebbe potuto fare.

    Il Geco fece riavvolgere strettamente il filo e lo restituì a Serna: “Attenta a come lo maneggi: cercare di toccarlo è un buon modo per restare senza dita.”

    La mente della Maga stava inseguendo i risvolti di quello che aveva visto, a cominciare dal chiedersi perché la bottiglia s’era tagliata a quel modo, ma gli anelli di ottone non sembravano aver subito danni, quando la voce pacata di Fermo la riportò bruscamente al presente: “E perché il tuo padrone ha mandato un Assassino in missione con il Principe?”
    “Sayif un Assassino? Non ci posso credere!”
    Sembrava sincero e, a quanto testimoniava l’Amuleto, lo era.

    “Non sappiamo se fosse un Assassino, ma questo lo aveva lui, assieme a poche altre cose.”
    “Un Assassino non si separa mai dal suo ruhmal. Sono rari, preziosi e, soprattutto, una specie di distintivo.”
    “Quindi ora siamo degli Assassini?” Lo schernì Fermo.
    Io, con quello in tasca, potrei farmi passare per un Assassino, almeno per un po’.”

    “Ma chi sono, esattamente, questi “Assassini”?”, chiese alla fine Serna.
    “Sono una setta, particolarmente devota a Thano, ma anche fedele al Califfo di Gadadh, che li usa per togliere di mezzo tutti quelli che non accettano la sua autorità. Tra quelli che si oppongono all’espansione del Califfato c’è proprio il Visir di ‘Ruth. Per questo non riesco a credere che lui abbia al suo servizio un Assassino. Molto più facile fosse il bersaglio.”
    “Ho come il sospetto che Duliana potrebbe raccontarci cose interessanti.”
    “Duliana?”

    Il Geco proruppe in una risata amara: “Ho capito. Duliana è in grado di far perdere la testa a qualunque uomo, se vuole. Il povero Sayif deve essere arrivato per regolare i conti con il Visir e si è trovato impegolato dai profumi di Duliana.”

    “Ma tu non ne sapevi nulla?” Intervenne Fermo.
    “Io sono il capo dei giannizzeri, le guardie private del Visir e ho avuto molti incarichi delicati, ma non mi viene detto nulla che non sia necessario perché io faccia il mio dovere efficientemente. Da voi si usa raccontare i fatti propri a tutto il palazzo?”
    “No, nemmeno da noi si usa raccontare i fatti propri a chicchessia”, rispose Serna fingendo di non aver percepito i sovrattoni acidi, “ma pensavamo che tu fossi qualcosa di più del capo delle guardie, per il Visir.”

    “Senza dubbio Duliana sa molte cose che io non so, e viceversa. Facciamo lavori diversi, sai?”

    Fermo prese queste parole come una battuta, mentre Serna, pur fingendo di non dare importanza alla cosa, rimase colpita: Sindehajad considerava Duliana una pari grado.

  • Partenza

    “Allora Sindehajad, sei disposto a giurare di fronte a Thano che farai di tutto per far sì che torniamo tutti, sani e salvi da questa missione?”
    “No”, rispose lui senza scomporsi.
    Serna lanciò un’occhiata interrogativa sia a lui che al Visir, che gli aveva appena detto di aderire senza riserve alle richieste della Maga.
    “Spiega”, disse semplicemente il Visir.
    “Non mi è possibile”, replicò quello con un guizzo divertito nello sguardo, “giurare nei termini proposti dalla Maga. Dovrei immediatamente adoperarmi per far cancellare la missione. Solo in questo modo potrei dire di “aver fatto di tutto per far tornare tutti sani e salvi”.”
    “Sono disposto a giurare di fare del mio meglio perché la missione vada a buon fine.”
    “Hai ragione”, rispose Serna, “con i giuramenti bisogna stare attenti. Se aggiungi “aiutare e proteggere lealmente i miei compagni” e “riconoscere Serna come comandante della missione” possiamo essere d’accordo.”

    La figura ammantata di rosso di Thano apparve alle invocazioni di Serna.

    “Gran Dio della Morte, ti chiedo di essere testimone per le mie azioni future”, cominciò Sindehajad, “di qui a poco partirà una missione comandata da Serna: io mi impegno a riconoscerne l’autorità di comandante e di agire lealmente per proteggere il buon esito della missione e le vite dei miei compagni, fino al termine della missione stessa.”

    Ti sei preso un bell’impegno, giovane guerriero”, sogghignò Thano girando lo sguardo attorno e appuntandolo prima sul Visir, poi su Fermo e quindi su Serna,

    Quindi si drizzò e sembrò divenire ancora più alto e minaccioso mentre intonava la formula rituale: “Accetto di fare da Testimone Imparziale per questo impegno. Quale deve essere la pena per il fallimento?
    Fu Serna a rispondere: “Morte, rapida e indolore, per chi fallisce e per il mandante.”
    Accetti questa pena, giovane guerriero?
    “Sì.”
    E così sia!” Ruggì Thano mentre svaniva.
    Il Visir era un po’ più pallido, ma non fece commenti di sorta.

  • Primo tentativo

    Allora, Mago, hai risolto il problema? Chi ha costruito questo posto? Perché?

    Jona tirò un gran respiro.
    Era stato lui a recarsi nuovamente all’uscita sotterranea, ma ora tutti i suoi ragionamenti gli sembravano meno certi; i dubbi più forti.

    “Questo posto è stato costruito da Uomini, prima della nascita degli Dei.”

    Thano rimase assolutamente immobile, in attesa che lui andasse avanti.

    Un attimo dopo Thano, senza alcun cenno e senza neppure cambiare espressione, scomparve e Jona cadde a terra contorcendosi dal dolore.

  • Gita al Museo

    Le porte si aprirono con un lievissimo cigolio e Jona entrò nell’ampio vestibolo. Dove andare? Scelse il percorso che portava al “Planetario”.

    Cominciò a percorrerlo metodicamente, leggendo tutte le scritte che trovava, cercando di capire che cosa rappresentassero tutte le figure, guardando tutti i “video”, dei quadri animati.

    Le luci cominciarono a spegnersi che lui non aveva ancora terminato il percorso.
    Tornò nel suo appartamentino con un senso di assoluta meraviglia per il regno di Zeo, anche se Lui non era stato nominato nemmeno una volta.
    C’erano moltissime cose che non aveva capito, altre, invece, gli erano familiari.
    Aveva trovato anche cenni a progetti per scalare il cielo e muoversi fra i pianeti.

  • Intermezzo

    Jona si aggirava nel palazzo da parecchi giorni, oramai.
    Sembrava essere molto più grande dentro di quanto gli era sembrato girandoci attorno — probabilmente — pensò fra sé e sé — perché le pareti della caverna sono così vicine che si perde la prospettiva, sembra di camminare in un crepaccio.

    Quel palazzo era un vero rompicapo.
    Sembrava fatto apposta per confondere.
    C’erano posti evidentemente adibiti a scopi diversi.

    La parte che occupava lo spazio maggiore era costituita da enormi sale interconnesse. Sembrava dovessero accogliere una grande quantità di persone e incanalarle in percorsi precisi, segnati da frecce e numeri. Percorsi fatti appositamente, il Mago lo sentiva chiaramente, per stupire impressionare ed essere ricordate. Jona sapeva che gli ricordavano qualcosa, ma non riusciva a ricordare cosa — non importa, mi verrà in mente.
    Anche lui era stupito e impressionato, ma si era imposto di non fermarsi a esaminare i vari “exibith” qualunque cosa quella parola significasse — questo stupido Amuleto non ha nemmeno un vocabolario disponibile — almeno fino a che non avesse finito una prima esplorazione.
    Ora, forse, era giunto il momento.

    Un’altra parte era facilmente identificabile, anche se conteneva molte cose misteriose: si trattava di locali di servizio e manutenzione; comprendeva locali con attrezzi per pulizia e riparazione, diversi refettori, e alcune botteghe dove, apparentemente, era disponibile un assortimento di oggetti assolutamente eterogenei.
    Rimase affascinato da un’alta cassapanca con un coperchio trasparente: ronzava sommessamente ed era piena di ghiaccio.

    Una terza sezione era ancora diversa. Le porte che vi davano accesso erano tutte marcate con avvisi come “Vietato Entrare”, “Solo Personale Autorizzato” e simili. Dentro c’erano tante stanzette, molto simili l’una all’altra, senza tanti fronzoli che a Jona ricordarono le celle dei monaci al Monastero di Palla, anche se non avevano né letti né bagni; se effettivamente si trattava di celle i monaci dovevano avere un altro posto per andare a dormire. C’era, invece, un refettorio che sembrava dedicato a loro, oltre a quelli nella parte “pubblica”.

    Il Mago aveva trovato anche un piccolo appartamento completo di tutto e lì si era installato. Seduto alla larga scrivania stava cercando di decidere cosa fare ora che aveva terminato la prima ricognizione.
    Decise di provare a seguire uno dei percorsi, domattina.

  • La Colonna di Isto

    Il giannizzero li guidò in un dedalo di viuzze affollate sulle quali si aprivano le porte di botteghe che vendevano merci di tutti i tipi. La figura paludata di nero fendeva la folla senza toccarla, tutti si ritraevano al suo passaggio, Serna e Fermo lo seguivano dappresso, un po’ per sfruttare il varco e un po’ per paura di perderlo di vista nella calca.

    La colonna sorgeva in una piazzetta circolare lastricata di marmo bianco. Usciva da un foro ed era composta da tamburi di pietra beige scanalati. Sembrava vecchissima, anche a confronto con il resto della piazza che, come da tradizione fenaraba, non era particolarmente nuova o ben tenuta.

    Il Sultano era già lì, con due soldati in divisa blu.
    La piazzetta era quasi deserta, a differenza dei vicoli che vi giungevano.
    Appena arrivarono il Sultano si volse verso la colonna e cominciò l’invocazione: “Oh potente Djinn, intercedi presso il grande Isto per noi. Abbiamo bisogno della sua saggezza!”

    Da uno dei fori che butteravano la superficie della colonna uscì una nuvola azzurra che si coagulò nella forma di un vecchio Djinn che torreggiò su di loro; Serna si ritrovò a pensare che, nonostante l’età, la lunga barba bianca e il bastone a cui si appoggiava sembrava più un vecchio guerriero che un sacerdote di Isto.
    “A volte l’apparenza inganna”, le disse il Djinn come le avesse letto nel pensiero, poi si rivolse al Sultano: “So perché sei qui, Sultano e posso dirti che questa maga ha detto essenzialmente il vero. Non c’è bisogno di scomodare Isto.”
    Le spalle del Sultano crollarono sotto il peso di quella rivelazione.

    Un campanellino prese a trillare insistentemente nella testa di Serna che, quasi prima di rendersi conto di quello che stava facendo si avvicinò al Djinn tenendo ben stretto il suo Amuleto: “Dove ho sbagliato Djinn di Isto? Chi è sopravvissuto?”
    Il Djinn sorrise e si fece da parte dicendo: “Spero che tu non abbia a pentirti del tuo coraggio, figliola.”

    Al suo posto apparve la figura del Dio ammantata di viola:
    Si rivolse quindi direttamente al Sultano:
    “Dov’è? Come posso raggiungerlo?” Chiese il Sultano rosso in volto.

    Il Sultano stava per dire che avrebbe guidato personalmente un esercito, pur di ritrovare il suo primogenito, ma incrociò lo sguardo freddo del Dio e si rese conto che sarebbe stato un altro grosso errore.
    “Volete fare questa ricerca per me? Qualunque cosa vogliate è a vostra disposizione”, chiese direttamente a Serna con la voce più umile che riuscì a trovare.
    La Maga sorrise:
    Si rivolse quindi ad Isto, che fece un cenno di approvazione: “Puoi darmi qualche altra indicazione?”

    Detto questo, Isto scomparve e il Djinn riprese il suo posto a fianco della colonna.

    “Dove dobbiamo andare?” gli chiese Serna.
    Il Djinn la guardò fisso inclinando la testa di lato: “Davvero non lo sai?”

    Il Djinn sorrise: “Io sono incatenato a questa colonna, ma sulla sua cima potrai trovare qualcosa che penso ti sarà utile.”

    Serna valutò la colonna, poi fece un cenno al giannizzero che spostò la scimitarra sul dorso perché non lo intralciasse e si inerpicò sulla superficie butterata senza sforzo apparente, esitò un attimo sotto il largo capitello e quindi si issò a forza di braccia sulla sommità.
    Raccolse qualcosa e se la infilò sotto la giubba.
    Si calò cautamente dal capitello fino a che non rimase appeso per una mano, usò l’altra per avvicinarsi al fusto, dopo di che fu a terra in pochi secondi.

    L’oggetto che aveva trovato era una piccola riproduzione della colonna stessa, alta un palmo in tutto.

    Serna la tenne in mano, facendo attenzione a non capovolgerla.
    “Grazie”, disse al Djinn.
    “O forse dovrei dire: grazie!” proseguì poi rivolta alla colonnina.
    Una minuscola immagine del Djinn uscì dalla colonna in miniatura.

    Non c’era altro da dire, per il momento, e il tempo stringeva. Serna promise al Sultano di informarlo sui preparativi e la piccola riunione si sciolse, si girarono per salutare il Djinn, ma quello era già scomparso.

    Usciti dal dedalo di viuzze del mercato trovarono il solito carro ad aspettarli.

    “Ora so perché i tuoi uomini ti chiamano “il geco””, disse Serna al giannizzero, “ma non conosco il tuo nome, o devo chiamarti “Geco” anch’io?”
    Gli occhi del Geco ebbero un guizzo divertito “Hai buone orecchie, maga. Il mio nome è Sindehajad, ma puoi tranquillamente chiamarmi “Geco” anche tu, come tutti gli altri.”
    “Ti piacerebbe venire con noi alla ricerca del principe?”
    “Andrò ovunque il mio Signore, il Visir, mi chiederà di andare.”
    “Questo lo so. La domanda era se ti piacerebbe venire con noi. Abbiamo bisogno di qualcuno che conosca bene questi posti e, dopo quello che ci hanno detto Isto e il suo Djinn, non oso chiedere aiuto al Sultano.”
    Il giannizzero soppesò la domanda per qualche secondo.
    “Conoscevo bene il Principe, era una brava persona. Potendo, non sarebbe andato in quella missione blasfema. Sì, penso mi piacerebbe dare una mano a riportarlo indietro.”

    Serna lo guardò fisso con gli occhi che parevano due spilli:
    Dopo un primo momento di sconcerto gli occhi del giannizzero presero un’espressione genuinamente divertita: “Posso conoscere tuo padre, maga?”

    Ora era il turno di Serna a sentirsi sconcertata:
    “Volevo chiedergli la tua mano, maga”, rispose lui con la massima serietà.

    Serna mise una mano sul braccio di Fermo che si era irrigidito e aveva portato la mano al pugnale, poi rispose con molta dolcezza: “I nostri costumi sono molto diversi, Sindehajad. Sono solo io che decido a chi deve andare il mio cuore, e il mio cuore è già impegnato. Mio padre non si sognerebbe mai di impormi una scelta diversa.”

  • La via del ritorno

    Durante la strada del ritorno il Visir, evidentemente a disagio, disse a Serna: “Sono in debito con te, hai taciuto la mia responsabilità nel fallimento della missione. Te ne sono grato.”
    Serna lo squadrò con il sorriso sulle labbra, ma occhi terribilmente seri: “Non mi è ancora del tutto chiaro perché tu ti sia affannato tanto a contrastare una missione già votata al fallimento. Quel che ha fatto il tuo uomo, se ha avuto un qualche effetto, è stato solo affrettare la fine. Non ho mentito al Sultano; ho solo omesso un particolare ininfluente.”

    Vedendo che il Visir sobbalzava sotto la sferza di quelle parole, Fermo mise una mano sulla spalla della maga e si lasciò sfuggire un moto di sorpresa perché la sua mano incontrò la nuda pelle là dove gli occhi gli dicevano esserci un arabesco di campanellini.
    La risata argentina di Serna allentò istantaneamente la tensione: “Quest’abito è fatto della stessa sostanza dei Djinn. Lo puoi vedere, ma non lo puoi toccare. Fammi spazio sotto il tuo mantello, che comincio ad aver freddo.”

    “Riconosco che a cose fatte possa sembrare una mossa inutile”, riprese il Visir, “ma prima sembrava veramente che l’impresa potesse riuscire. Quel Djinn aveva troppo ascendente sul nostro Sultano; non poteva venirne nulla di buono, ma non sono riuscito a convincerlo.”

    “Capisco”, disse Serna, anche se non era del tutto convinta.

    Dopo qualche minuto di silenzio, rotto solo dal rumore degli zoccoli sulla strada e dal cigolio delle ruote, il Visir chiese: “Hai parlato di due modi “artistici” di mentire, ma poi ne hai citato uno solo; quale sarebbe l’altro?”

  • Il Sultano

    Le trattative commerciali procedevano spedite, secondo gli standard fenarabi, ma a passo di lumaca a giudizio dell’impaziente Fermo.

    Serna a volte lo accompagnava, ma spesso rimaneva nelle sue stanze a studiare con Darda.

    Venne il giorno del riposo e con esso la visita al Sultano.
    Del palazzo era visibile solo un alto muro di cinta che, come una corona, circondava la cima di una collina. Era grossolanamente imbiancato e aveva un ampio, ma anonimo, portone di solido legno come ingresso.
    Serna aveva imparato che quella era una delle caratteristiche di tutte le abitazioni fenarabe, rivolte verso l’interno, scevre di ostentazioni verso chi non era ammesso fra le mura.

    I giardini erano ancora più sfarzosi di quelli del Visir, ma mancavano di quella raffinatezza. Il Sultano era un capo militare, reduce da una sfortunata campagna per sottomettere un sultanato vicino, e la cosa era evidente.

    Anche gli spettacoli durante la cena riflettevano il carattere del padrone di casa: mentre il Visir prediligeva musica e danza il Sultano apprezzava lotta e giocolieri. Il carattere marziale era evidente anche in questi ultimi; per ultimo si esibì un gruppo che, dopo una breve introduzione nella quale si lanciavano un gran numero piccole palle colorate, le sostituì gradualmente con asce, spade, pugnali e altre armi bianche che formavano una girandola tanto veloce da rendere difficile seguirla con gli occhi. Il numero si concluse con tutte le armi infisse in un apposito bersaglio, a dimostrazione che erano affilate e pericolose.
    Fermo e Serna si mostrarono debitamente impressionati.

    Poco dopo ebbe termine anche la cena e il Sultano, che aveva bevuto parecchio, chiese a Fermo di far ripetere al suo Djinn la magia del vestito di Duliana.

    “Mente!” Ruggì una voce possente. Il Sultano stava accarezzando distrattamente una lampada a olio dalla quale usciva un filo di fumo. In un baleno su trasformò in una nuvola turchese che coagulò in un enorme Djinn minaccioso.
    “E in che cosa avrei mentito, di grazia, o potente Djinn?” Ribatté Serna senza battere ciglio e senza cambiare tono.
    “E, comunque, il gioco del vestito che esplode lo so fare anch’io!”
    Serna si sentì avvampare mentre i suoi abiti prendevano fuoco e sparivano in una nuvola di cenere.

    Se il Djinn si aspettava di veder la maga arrossire e scappar via come aveva fatto Duliana rimase deluso; Serna si alzò lentamente dall’alto cuscino su cui era seduta completamente vestita da uno sguardo che avrebbe incenerito chiunque.
    Il suo Amuleto, intanto, aveva reagito automaticamente all’aggressione scatenando un attacco furibondo verso la lampada che brillò un attimo scottando le dita del Sultano, poi emise un ultimo sbuffo di fumo e il Djinn scomparve. Tutto era durato meno di un secondo.

    Serna mormorò qualche parola e si ritrovò vestita da un abituccio identico a quello che aveva usato Duliana.
    “L’hai distrutto?” Chiese all’Amuleto sottovoce.
    “No, solo danneggiato gravemente. Ci metterà dei mesi a guarire abbastanza da far uscire una qualsiasi immagine e parecchie settimane prima di essere in grado di comunicare.”

    Serna rivolse la sua attenzione al Sultano, esterrefatto sia per il comportamento del “suo” Djinn, che gli imprevisti risultati: “Debbo dire che non mi aspettavo di dovermi esibire per la gioia del Sultano di ‘Rruth. Chiediamo ci venga graziosamente concesso il permesso di ritirarci.”
    “Mi scuso per il comportamento del mio Djinn, ma, come certamente sapete, non lo posso controllare completamente. Che cosa gli è successo?”
    Serna riprese un’aria meno truce: “Questo è il problema con i Djinn: non ti puoi mai fidare.”

    Poi, improvvisamente si risedette e proseguì, in tono confidenziale sporgendosi verso il Sultano: “Penso, comunque, che faresti bene a liberarti di quel cattivo consigliere. Ti ha fatto fare i peggiori errori della tua vita. Se proprio si deve sbagliare conviene farlo da soli, senza farsi prendere in giro da un principe della menzogna come quello.”

    Il Sultano era oramai completamente sobrio e stava riprendendosi dalla sorpresa: “Che intendi dire “giovane donna”?”
    Serna si limitò a guardarsi attorno nella sala dove gli altri invitati e decine di servitori sembravano trattenere il fiato per non far rumore.

    Il Sultano batté tre volte le mani e, in pochi secondi la stanza si svuotò; rimanevano solo il Sultano, Fermo, Serna, il Visir con il suo giannizzero e quattro soldati di guardia alla porta.
    “Allora?”
    “Quel Djinn si sta divertendo alle tue spalle. Ti ha raccontato un mucchio di frottole per indurti a fare sbagli colossali.”
    “Un Djinn non può mentire al proprietario della sua dimora. Lo sanno tutti!”
    “Ci sono tanti modi di mentire”, insistette Serna con un lieve sorriso, “e i due modi “artistici” di mentire sono a disposizione anche di un Djinn che parla al suo “padrone”.”
    “E quali sarebbero questi modi “artistici” di mentire?”

    Il Sultano, che aveva ascoltato in silenzio, divenne rosso in volto e riuscì a stento ad articolare uno strozzato: “Cosa dici, strega?”
    “Maga, se non ti dispiace”, gli rispose Serna tranquilla mentre il Visir lottava per celare la sua agitazione, “sto dicendo solo la verità, oh Sultano.”
    “Ma il tesoro?”

    “Ma il Djinn ha detto chiaramente che, rimanendo sul grande fiume non sarebbero incorsi nell’ira degli Dei!”
    “Quella è la parte vera, che serve a sviare la mente da quello che non viene detto.”
    “Cos’è che non ha detto?”
    “Circa a metà del tragitto il grande fiume si allarga e ci sono sei secche una dopo l’altra; è bastato che la barca sfiorasse la sabbia del fondo per “toccar terra” nel Continente Proibito. Nessuno è stato risparmiato.”

    “Mi porti ben tristi notizie, maga”, disse il Sultano improvvisamente abbattuto.
    Poi lo colse un dubbio e chiese, guardando dritto negli occhi Serna: “Saresti disposta a giurare davanti a Isto?”
    Lei sorrise con il sorriso più dolce e sincero che riuscì a trovare:
    Il Sultano soppesò Serna con un’espressione decisa, ma senza più bellicosità: “Ti credo, maga, ma devo avere l’assoluta certezza di non sbagliare ancora una volta. Ti prego di venire domattina alla colonna di Isto. Sarò lì ad aspettarti.”

  • A rapporto dal Visir

    Il comandante dei giannizzeri, se era veramente lui, dato che si vedevano solo gli occhi, venne a prenderli poco dopo mezzanotte.

    Lo studio privato del Visir era piuttosto piccolo e arredato in modo molto meno sfarzoso della sala dove avevano cenato.

    Anche lui sembrava meno imponente in una vestaglia scura che lo copriva fino ai piedi.

    Si accomodarono su una pila di cuscini attorno ad un basso tavolino mentre il giannizzero chiuse la porta e si trasformò in una statua, una statua che sarebbe certamente tornata ben viva in caso di necessità.

    “Volevate dirmi qualcosa, credo.”
    Fermo tirò fuori dalla manica una borsa e depositò in bella vista sul tavolino i gioielli e le monete che avevano trovato addosso al naufrago.
    “Dovrei conoscerli?” Chiese il Visir sollevando un sopracciglio,
    “Penso proprio di sì”, tagliò corto Fermo, che poteva vedere il lampo rosso dell’Amuleto, “Comunque, come dicevo, siamo qui per riferire il messaggio di un uomo che non è in condizioni di riferire di persona.”
    “E questo messaggio sarebbe?”
    “La missione data al vostro uomo è perfettamente riuscita, il che significa che la spedizione comandata del figlio del Sultano è andata incontro al più completo fallimento; il figlio del Sultano è certamente morto per mano del vostro uomo e a quanto ci è dato di capire, tutti gli altri hanno trovato la morte, in un modo o nell’altro.”
    Il viso del Visir rimase impassibile.
    “E voi sareste venuti fin qui per dirmi questo?”
    “No, naturalmente. Quello che ci ha raccontato il vostro uomo ha convinto mio padre che aprire una rotta commerciale con ‘Rruth sarebbe stato di reciproco interesse. Ho dato la mia parola che avrei fatto di tutto per recapitare questo messaggio e per chiedere notizie di una certa Duliana, che sembra molto cara al nostro amico.”
    Il Visir scoppiò in una sonora risata: “Duliana è stata promessa in premio a chi mi portasse buone notizia, quindi suppongo che adesso appartenga a voi, anche se, dopo l’incidente di stasera temo che la vostra Djinn non sarebbe molto contenta.”

    “Ma io non sono un Djinn”, cinguettò Serna con la sua migliore aria da oca giuliva, “sono solo una giovane donna che non se la sentiva di lasciare il suo promesso sposo andare in giro per il vasto mondo senza qualcuno che gli rammendasse i calzini.”
    “Avete, però, perfettamente ragione: mi risentirei molto se regalaste Duliana al mio tesoruccio!” I suoi occhi erano diventati due punte di spillo mentre pronunciava le ultime parole.

    Il Visir, a disagio, cambiò argomento: “E cosa vi aspettate di ricevere in cambio?”
    “Nulla”, rispose Fermo, “considerate quest’ambasciata il pagamento di un procurato affare al vostro uomo, sempre che l’affare, poi si concretizzi.”

    Il discorso scivolò su argomenti meno impegnativi fino a che il Visir, quasi casualmente, disse “Ho ricevuto poco fa un messaggio del Sultano. Vi ringrazia per il dono e vi invita a palazzo nel giorno del riposo, venerdì. Che devo rispondere?”
    Fermo esitò solo un attimo, avvertendo la tensione nella domanda, nonostante la scarsa padronanza della lingua: “Saremo felici di accettare, come può essere altrimenti? Spero che abbiate la bontà di accompagnarci e di istruirci sugli usi di corte, non vorremmo fare qualche errore.”

    Il Visir sembrò essersi librato da una gran preoccupazione.
    Poco dopo la riunione notturna si sciolse e gli ospiti vennero riaccompagnati ai loro alloggi, dove Agio li aspettava preoccupato.

    “Tutto bene?”
    “Penso proprio di sì.”
    “Hai fatto benissimo a chiedergli di accompagnarci dal Sultano.”
    “Sarebbe venuto comunque.”
    “Ma era terrorizzato dal dubbio che volessimo ricattarlo di rivelare tutto al Sultano.”
    “Se avessimo veramente voluto fare il doppio gioco non ci saremmo infilati con la testa nella bocca del leone!”
    Serna fece una piroetta: “Certo che sì, quando hai dalla tua un Djinn potente come me!”
    Fermo scoppiò a ridere: “Ah, ora capisco perché hai fatto quel numero, a cena!”
    “Anche. Comunque una donna come Duliana può far perdere la testa a parecchi uomini.”
    “Vero!” Confermò lui e poi fu costretto a difendersi da una gragnola di cuscinate di un’indignatissima Maga.

  • Il Visir

    Un picchetto d’onore di giannizzeri paludati di nero li venne a prendere con un interessante carro con due grandi ruote ed una bassa piattaforma con balaustra montata su cinghie.

    Fermo salì per primo, seguito da Serna, splendida nella sua tunica gialla e circondata dalla lieve aura di Maga. Agio e due marinai armati fino ai denti completavano la delegazione.

    L’apparizione di Serna provocò stupore e più di una guardia mormorò: “Djinn!”

    Non appena il carro cominciò a muoversi, seguito dai giannizzeri a cavallo, la maga sussurrò all’Amuleto: “Che cos’è un “djinn”?”
    Questo assunse una tonalità violacea mentre rispondeva:

    Serna ci pensò su un attimo poi chiese: “Non capisco; che c’entro io con un Djinn?”
    Nella voce si indovinava il sorriso indulgente di Isto:

    Serna cominciava a capire: “Un po’ come gli Avatar degli Amuleti?”

    Due pensieri fulminanti balzarono alla mente di Serna, senza che lei sapesse esattamente da dove arrivavano: “Qui i Sacerdoti non hanno Amuleti, vero? E poi: il nuovo Amuleto di papà, l’Amuleto di Thano, è un Djinn?”

    L’aura viola scomparve e Serna rimase a rimuginare quelle parole fino a che non si fermarono davanti ad un muro spoglio con un gran portone di legno.

    Il comandante picchiò tre volte con il pesante battacchio di bronzo e la porta venne aperta.

    Serna non riuscì a trattenere un moto di stupore: attraversare il portone era come entrare in un altro mondo.
    Le strade che avevano percorso dopo essere usciti dal porto erano tutte anonime, non particolarmente pulite, fiancheggiate da case imbiancate a calce con piccole finestre poste in alto e le avevano dato, in generale, una sensazione di squallore e trascuratezza.
    All’interno del muro di cinta c’era un giardino fantastico che incantava gli occhi con una profusione di colori, nonostante si fosse ancora in pieno inverno. Il palazzo vero e proprio era una costruzione a due piani rivestita di lucide piastrelle sulle tonalità del giallo sormontata da una serie di piccole cupole di un turchese elettrico.

    Percorsero lentamente un viale acciottolato con pietre di diverso colore che rappresentavano motivi geometrici che si intrecciavano senza ripetersi mai uguali.

    Mentre entravano Serna mormorò a Fermo: “Non credo abbiano i Maghi, come li conosciamo noi, da queste parti. Pensano che io sia una specie di demonio che ti appartiene, in qualche modo. Stiamo al gioco.”

    Il palazzo era sfarzoso quanto l’esterno e racchiudeva un altro giardino interno, del quale ebbero solo una fugace visione da una porta aperta da un servitore e subito richiusa. Vennero condotti in un appartamento al primo piano, le cui finestre si affacciavano tutte sul giardino esterno, verso la porta d’ingresso.
    Le porte non avevano né serrature né chiavistelli, ma Serna non ebbe bisogno di chiedere conferma all’Amuleto per avere la certezza che quattro giannizzeri erano rimasti nel corridoio a controllare i loro movimenti.

    L’appartamento era costituito da due parti ben distinte: la prima dedicata al servizio, dove si installarono Agio e i due marinai di guardia e una più riccamente ammobiliata evidentemente riservata al Duchino. Come pensassero dovesse alloggiare Serna, in qualità di Djinn non era chiaro, ma visto che i due condividevano il letto da parecchi mesi — fin da quando Fermo si era deciso a chiederla ufficialmente come sposa e lei aveva accettato — decisero di continuare così.

    Il comandante dei giannizzeri fece gli onori di casa, spiegò loro le poche cose che c’erano da sapere, incluso l’uso di un cordone da tirare per richiedere l’intervento della servitù, poi li lasciò dicendo che sarebbe tornato a prenderli per la cena con il Visir.

    Serna non faticò a scoprire, usando abilmente le capacità del suo Amuleto, che c’erano parecchie aperture fra i pesanti tendaggi dalle quali era possibile sentire ed osservare quasi tutto quel che succedeva nell’appartamento; in questo momento non c’era nessuno in ascolto, ma lei istruì l’Amuleto a sorvegliarle tutte e avvertire se qualcuno avesse cercato di usarle.

    La cena fu un vero e proprio banchetto con l’evidente intento di stupire e mettere in soggezione i negoziatori che venivano da lontano, da una terra, in fondo, molto più grigia e spartana di quel palazzo fenarabo.
    Fermo, comunque, era un mercante esperto e non si faceva impressionare facilmente, mentre Serna faceva del suo meglio per apparire molto più svampita e frivola di quanto non fosse realmente.

    Ad un certo punto si accorse che il Duchino stava seguendo con eccessiva attenzione, almeno dal suo punto di vista, la danza di una baiadera il cui abitino era composto quasi esclusivamente da un gran numero di sonagli che faceva vibrare con grande maestria. Scoccò un sorriso al suo promesso chiedendogli con voce mielata: “Ti piace?”
    Lui si limitò ad arrossire fino alla radice dei capelli, ma nessuno lo notò perché, con gesto plateale, la Maga fece saltare tutti i fermagli del vestito della sventurata danzatrice. Il costume esplose in uno scroscio di campanellini che rimbalzavano sui tappeti lasciandola completamente nuda.

    Il Visir rise a quello spettacolo allentando la tensione che si era creata. Serna lo sentì distintamente dire al capo dei giannizzeri: “Avevo pensato di mandarla a rallegrare la notte del nostro ospite, ma forse è meglio di no.”

    Terminato il banchetto i discorsi si fecero più pratici e cominciò la trattativa commerciale che, almeno di facciata, era il motivo della visita.
    Fermo sapeva benissimo di dover essere paziente, le informazioni prese a Trina e i contatti diretti avuti con i commerciati che avevano là le loro botteghe gli avevano insegnato che cercare di affrettare una contrattazione con i fenarabi voleva inevitabilmente dire inimicarseli o fare un pessimo affare, spesso entrambe le cose allo stesso tempo.
    Parlarono pertanto dei loro paesi, delle merci, delle manifatture, senza accennare minimamente al fatto che si pensava di poter commerciare.

    Durante i complessi saluti alla fine della serata Fermo riuscì a sussurrare quasi all’orecchio del Visir: “Abbiamo un messaggio solo per le vostre orecchie”, mentre Serna faceva comparire, per un istante, l’immagine del naufrago.