Author: mcon

  • La Trattativa

    La mattina dopo la goletta si ripresentò al porto e Agio riprese la sua scialuppa e, vogando in piedi alla maniera dei pescatori, si diresse al molo.

    Fermo seguiva usando il cannocchiale del naufrago, molto migliore di quelli disponibili a Gena, mentre Serna usava il suo privato Occhio di Lince.

    Sul molo era schierata una truppa diversa da quella del giorno prima. Serna tirò un sospiro di sollievo: le guardie d’onore si riconoscono ovunque. Quei soldati non erano lì per combattere, anche se erano, probabilmente, perfettamente in grado di farlo.
    Anche Darda, che sbirciava al suo fianco, doveva aver avuto la stessa sensazione perché si rilassò visibilmente.

    Agio trovò ad attenderlo, nel preciso posto dove aveva lasciato i suoi doni, un tappeto con sopra cinque piatti di ceramica colorata con sopra due monticelli di granuli bianchissimi, ma evidentemente diversi: uno era quasi certamente sale, ma l’altro? Due pezze di stoffa e una sottile corda.
    Non le esaminò, ma prese tutto con estrema cura e lo caricò sulla sua scialuppa facendo bene attenzione a non far cadere nemmeno un granello.

    Prese quindi un involto e si diresse con passi lenti e calmi verso l’uomo, completamente vestito di nero, che sembrava essere a capo della guardia: “Questo”, disse aprendo l’involto e rivelando un pesante piatto d’argento con inserti d’oro, coperto da una trina preziosa, “è un dono personale del Granduca di Gena per il Vostro Sultano. La nostra tradizione vorrebbe che un dono del genere fosse coperto da frutta secca, ma abbiamo saputo che regalare cibo non è considerato di buon auspicio.”

    L’uomo in nero, del quale si vedevano solo gli occhi e le mani, prese il piatto con un leggero inchino e lo passò ad una guardia.
    “I Mercanti di Gena sono i benvenuti a ‘Rruth”, disse, scandendo bene le parole per le orecchie sicuramente poco allenate di Agio, “Potete entrare nel porto interno. Troverete un ricovero per la vostra nave. Il Visir desidera parlarvi. Sarete ospiti a palazzo.”

    Agio si produsse in una perfetta imitazione dell’inchino e rispose: “Ringraziamo per il cortese invito, che accettiamo con piacere”, sperando di essere riuscito a ripetere correttamente la formula di saluto formale che gli avevano suggerito; dopodiché risalì sulla sua scialuppa e fece ritorno alla piccola nave mercantile.

    Due ore dopo questa entrava in porto sotto la spinta delle vele, dando prova di una perizia non comune alle manovre.

  • ‘Rruth

    Passi leggeri sull’assito del ponte la fecero tornare al presente.
    La spedizione voluta dal Granduca era oramai una realtà da molti mesi e li aveva condotti lontano da casa sull’isola di Trina prima e poi ancora più a sud.
    Serna si era dichiarata subito disponibile e aveva partecipato ai preparativi, tanto da trascinarsi dietro una parte della sua famiglia.

    Darda era sempre stata mattiniera e questo viaggio sembrava averla ringiovanita di parecchi anni, o forse era la presenza di Agio, ingaggiato come capitano del piccolo vascello che ora stava navigando lungo quella costa bassa e spoglia.

    Serna sorrise fra sé e sé: quei due formavano una bella coppia.
    Affiatati, sempre a beccarsi, ma sempre con il sorriso sulle labbra. Lui sembrava avere vent’anni più della nonna, anche se era quasi vero il contrario.

    Darda entrò senza bussare: “Non riesci a dormire, stamani?”
    “Ero un po’ inquieta, poi ho avuto notizie di papà.”
    “Che dice? Come si trova con quei Nani?”
    “Non dice nulla. Mi ha chiamata direttamente il suo Amuleto.”
    Darda spalancò gli occhi allarmata, poi si rilassò: “No, non è in pericolo. Non saresti così tranquilla. Che è successo?”
    “Un altro dei giochetti di Thano. Pare che lo abbiano chiuso da qualche parte e deve trovare il modo di uscire da solo. Anche il suo nuovo Amuleto è stato rimosso e non lo può aiutare.”
    “Strano tipo quell’Amuleto. Non ne ho mai visti di simili. Di solito si limitano a fare quel che gli chiedi, se glielo chiedi nel modo giusto e ne sono capaci. Questo si prende parecchie iniziative.”;
    “Ho cercato di fare ricerche, ma più del fatto che gli Amuleti sono tutti diversi non sono riuscita a sapere.”
    “Comunque: ero venuta a dirti che Agio dice che siamo alla fine della nostra navigazione. Ha visto dei fuochi nella notte; siamo fuori dal Continente Proibito.”
    “Voglio vedere”, esclamò Serna scattando in piedi.
    “Beata gioventù! Aspetta. Non c’è nulla da vedere. Agio ha preso il largo appena ha capito che c’era gente sulla costa. Meglio essere prudenti.”

    Avevano lasciato la grande isola di Trina da due settimane oramai e, dopo una breve sosta su un’isola rocciosa senza nome in mezzo al mare non avevano più preso terra. Opia era stata chiarissima: non si doveva mettere piede sulle terre a sud di Trina, pena l’ira degli Dei, di tutti gli Dei.

    Il Continente Proibito non sembrava, in realtà molto attraente: una costa bassa, sabbiosa, sulla quale si vedevano solo pochi alberi raggruppati attorno a striminziti torrentelli.
    L’unica parte che sembrava fertile e rigogliosa era il grande delta di un fiume che doveva essere veramente poderoso, ma che non videro nemmeno, nascosto com’era da chilometri di paludi verdeggianti infestate da pericolosi animali corazzati forniti di incredibili dentature.

    Ora dovevano essere arrivati sulle coste abitate dai Fenarabi, una popolazione di abili navigatori e di mercanti che abitavano le coste sud-orientali del mare.
    Erano loro ad aver inviato la disgraziata spedizione che aveva fatto naufragio tanti mesi prima.

    Sulle coste sud-orientali dell’isola di Trina avevano incontrato i loro commercianti e anche una piccola colonia stabile; ne avevano approfittato per avere informazioni e imparare un po’ la lingua.
    Come emissari del Granduca di Gena, ben conosciuto in Trina, vennero accolti cordialmente, anche se con molta diffidenza e sospetto.

    Sicuramente notizia del viaggio del figlio del Granduca e della sua fidanzata era già arrivata fino a ‘Rruth, capitale del sultanato dei Fenarabi.

    Arrivarono a ‘Rruth una settimana dopo, appena in tempo: Posse aveva garantito tre settimane di bel tempo ed erano quasi scadute.
    Il porto era grande, composto da due parti: un’ampia insenatura con lunghi moli e una darsena interna di forma circolare, con banchine e ricoveri per le navi.

    Qui il paesaggio era completamente differente dalle brulle coste che avevano lasciato alle loro spalle; il territorio era collinare e coperto da una fitta vegetazione di alberi d’alto fusto che lasciavano, qua e là, spazio a coltivazioni ben curate.

    L’apparizione della loro alta vela aurica, così diversa
    dalle loro vele quadre o, al massimo, latine, destò scalpore e il porto si riempì di soldati armati di lunghe lance e di strani archi ricurvi.

    Come avevano deciso Agio calò l’ancora ad una certa distanza dal molo, ammainarono le vele e misero in mare una piccola scialuppa.

    Agio stesso prese i remi e si diresse direttamente verso il molo dove si trovava quello che doveva essere il capitano della guarnigione del porto.
    Arrivato sul molo depose in bella vista un panno di lino ricamato su cui pose due brocche di vetro lavorato contenenti una olio ed una vino e un pugnale ed una spada forgiati dai maestri di cui Gena andava giustamente orgogliosa.
    Prima di tornare alla sua barca e vogare fino alla nave senza guardarsi indietro disse, in un fenarabo stentato, ma perfettamente comprensibile: “Questi sono doni per il vostro Visir ed esempi delle merci che Gena può commerciare. Se siete interessati sarò qui domattina.”

  • Fermo

    La mattina era tersa e luminosa. Della tempesta rimanevano solo le lunghe onde che continuavano a frangersi contro i moli del porto.

    Serna ebbe solo pochi secondi, dopo il risveglio, per riconoscere l’ambiente non familiare, poi entrarono due ragazze di servizio che l’aiutarono a prepararsi.

    Prima di rendersi veramente conto di quel che stava succedendo Serna si ritrovò lavata, vestita, spazzolata e profumata; pronta per affrontare il mondo esterno.

    Quando le due ragazze uscirono, sotto lo sguardo severo della fantesca che la sera prima s’era presa cura di lei questa le chiese gentilmente: “Il Duchino Fermo la aspetta per la colazione, se non le dispiace.”

    Serna sorrise compunta e rispose: “Non sarebbe gentile farlo attendere troppo. Andiamo.”

    Fermo doveva aver atteso parecchio.
    La tavola ducale era imbandita per l’intera famiglia, ma era evidente che la colazione era terminata da un pezzo. L’Amuleto la informò che erano le dieci e mezza.

    Erano rimasti solo il Duchino e Nenco, che aveva l’aria di aver dormito molto poco. Serna gli rivolse un’occhiata interrogativa.

    “Quindi abbiamo solo quello che siamo riusciti a cavargli ieri notte. Non è molto.”

    Serna rimase sorpresa dal tono deciso di Fermo e dalla sua aria tesa e preoccupata, ma non fece domande quando lui proseguì, con un sorriso un po’ forzato: “Ma ora non roviniamoci l’appetito!”

    La colazione fu, in realtà, abbastanza frugale, come nelle abitudini della famiglia ducale che non vedeva di buon occhio chi indulgeva nei piaceri della gola o, comunque, si impigriva.
    Fermo aveva il fisico asciutto e muscoloso di un militare e sicuramente si allenava quanto e forse più dei suoi soldati.
    A Serna non dispiaceva guardarlo e non poté fare a meno di notare che il Duchino era particolarmente silenzioso stamattina e, a volte, le lanciava occhiate preoccupate, cercando di non farsi scorgere.

    “Che cosa ti preoccupa, Fermo?” Sbottò finalmente quando la colazione fu terminata, “Hai una faccia scura che non ti ho mai visto da che ti conosco.”
    Lui fece un sorriso tirato: “Non lo sai? Non lo vedi nella mia testa?”

    Serna rimase di stucco e non fece nulla per nasconderlo, poi si riprese, tirò un gran respiro e, con la voce più seria e pacata che riuscì a trovare rispose:

    Fermo era a metà fra il contrito per aver pensato male e il sollevato perché i suoi timori si erano rivelati infondati:
    “Non c’è nulla da scusarsi. Sono io che ho agito senza pensare troppo, ieri sera. Non ho pensato che questa capacità del mio Amuleto può essere vista come una minaccia personale. Vi prego di scusarmi.”

    I due giovani si guardarono negli occhi e poi scoppiarono in una sonora risata liberatoria.

    Un leggero colpo di tosse di Nenco li riportò al presente.
    “Mio padre vuole che organizzi una spedizione per andare a vedere che cosa c’è di vero in quello che abbiamo sentito ieri sera. Vuole che salpi alle prime brezze di primavera.”
    “Caccia al tesoro?”
    “Sì, ma non solo”, le rispose Fermo con una faccia seria seria, “quando gli ho raccontato quello che eravamo riusciti a sapere il Duca ha cominciato a preoccuparsi moltissimo per questa nazione della quale non sappiamo nulla e che sembra volersi appropriare delle nostre rotte commerciali.”

    Nenco si intromise: “Ora, con licenza del Granduca, vorrei ritirarmi. Sono molto stanco e il nostro naufrago non è l’unico ad aver bisogno di me, qui a Gena.”

    Fermo fece un cenno d’assenso: “Certamente Nenco, scusaci se ti abbiamo trattenuto tanto, ma sembra importante. Avremo sicuramente bisogno dei tuoi consigli, più avanti.”

    Serna stava riflettendo, non ci aveva pensato subito, ma il Granduca aveva ragione: a quanto pareva quelle popolazioni nomadi delle terre dell’est stavano costruendo città sul mare e cominciavano a commerciare con le coste meridionali dell’isola di Trina, la stessa con la quale Gena faceva ricchi commerci, sia pure limitati, per ora, alla costa settentrionale.
    Non sarebbe passato molto tempo prima che si venisse a contatto, con esiti imprevedibili.
    Avere notizie dirette e certe poteva essere di vitale importanza.

  • Il Naufrago

    Era una settimana che lo scirocco flagellava la costa e le onde si frangevano sugli scogli che riparavano il golfo.
    Serna non ricordava una tempesta così violenta e così lunga. Non sembrava avesse la minima intenzione di calmarsi.

    Il suo Amuleto cominciò a pulsare di luce verde: “Mamma, sei tu?” Chiese, ma con sua sorpresa apparve invece il volto di Nenco, il sacerdote di Asclep in Gena.
    “Che posso fare per te, Nenco?”
    “Abbiamo un problema e il Granduca gradirebbe il tuo intervento. Potresti venire subito?”
    Rimase interdetta sia per il tono formale che per la chiara sottolineatura vocale piazzata sotto la parola “subito”, ma rispose senza far altri commenti: “Certamente. Sarò lì appena possibile. Palazzo ducale, vero?”
    Nenco si limitò ad annuire, mormorò un: “Grazie” e scomparve.

    Non erano passati cinque minuti che Serna, imbacuccata nel mantello per proteggersi da vento e pioggia, lanciava il calesse al galoppo sulla strada per Gena.

    Arrivò al palazzo ducale che era già notte fonda, ma la stavano aspettando.
    Non ebbe bisogno di bussare perché il portone si spalancò al suo avvicinarsi e due servitori l’aiutarono a scendere.
    Fermo era lì accanto ad aspettarla, la prese per mano e disse eccitato: “Vieni, non c’è un momento da perdere”, poi la guardò meglio e si corresse, “forse è meglio che ti riposi un po’ prima.”
    “Devo essere un vero disastro”, pensò Serna mentre si sforzava di sorridere, “Meglio di no, altrimenti sprechiamo tutta la fatica che ho fatto per sbrigarmi.”
    “Va bene, ma prendi questo, che almeno è asciutto”, le disse Fermo porgendole il suo mantello.
    Lei si lasciò cullare per una frazione di secondo nel tepore, poi si avviò con passo deciso verso lo scalone.
    Fermo disse ad uno dei servitori:

    La stanza era riscaldatissima e vi troneggiava un grosso letto a baldacchino.
    Lì accanto Nenco stava chino con aria sconsolata.
    “Non so quanto possa resistere ancora”, disse facendo cenno a Serna di avvicinarsi, “Sono riuscito a fermare l’emorragia interna, ma ha perso molto sangue e ha una bella polmonite. Credo sia rimasto in acqua per giorni.”

    Serna lanciò un’occhiata interrogativa a Fermo.
    Quell’uomo non era certo uno dei marinai del granducato. Aveva la pelle scura più di quella dei mercanti del sud e i capelli crespi tagliati cortissimi formavano una specie di cappuccio di feltro sul suo cranio.

    “La tempesta lo ha portato quasi nel porto”, le spiegò Fermo,

    Serna era perplessa. Un naufrago da terre lontane è una cosa ben rara, ma che c’entrava lei? Perché l’avevano chiamata con tanta urgenza? Non che le dispiacesse rivedere Fermo, ma decisamente le sfuggiva qualcosa.

    Fermo, la cui impulsività cominciava ad esser mitigata dai suoi studi da futuro Granduca, se ne accorse: “Per ora lo sappiamo solo io, mio padre, Nenco e il guardiano del faro di levante che lo ha raccolto”, fece una leggera pausa per far capire bene che si trattava di rivelazioni che dovevano rimanere riservate, “da quel poco che ha detto nei suoi deliri sembra che fossero alla ricerca di un favoloso tesoro, ma hanno trovato la tempesta sul loro cammino.”

    In quel momento entrò un’attempata fantesca con una bracciata di abiti asciutti: “Venga, Signoria, ho preparato un bagno nella stanza accanto. Pensa che questi possano andare bene? Non ho trovato altro della misura giusta!”

    Serna si lasciò condurre nella stanza accanto, felice di potersi togliere i vestiti fradici e di avere qualche minuto per riflettere.

    Il “bagno” si rivelò essere solo una spugnatura con asciugamani caldi e profumati, ma fece il suo servizio egualmente. Quando rientrò al capezzale del moribondo, con una tazza di brodo caldo in mano, si sentiva decisamente molto meglio.

    “Non credi che sia il caso di dirmi tutto, Fermo? Dovresti sapere che ti puoi fidare.”
    Lui si avvicinò a un tavolino coperto da uno spesso panno bianco: “Guarda cos’aveva in tasca”, disse scostandolo.

    Apparve uno strano assortimento di oggetti.
    Quello che attirava subito l’attenzione erano alcuni splendidi gioielli d’oro con pietre incastonate. Erano enormi. Ne prese uno in mano. Era d’oro massiccio. Dovevano valere una fortuna anche senza contare la splendida fattura, nonostante sembrassero molto usati. Anche le grosse monete d’oro avevano l’aria di essere passate per parecchie mani, prima di finire su quel tavolino.
    Un cannocchiale in madreperla e un piccolo rocchetto nero con due anelli di ottone completavano la collezione.

    Ce n’era abbastanza da giustificare la curiosità del Granduca.

    “Il mio Amuleto è riuscito a tradurre qualcuna delle frasi che ha farfugliato nel delirio”, spiegò Nenco, “è così che abbiamo saputo del tesoro e del naufragio.”

    “Conosci la lingua?” Chiese Serna al suo Amuleto.
    “Sì.”
    “Analizza il flusso di coscienza, traduci e registra tutto.”
    L’Amuleto si accese di una luce brillante e cominciò ad emettere un sussurro smozzicato assolutamente incomprensibile.

    “Che stai facendo?” Chiese Fermo.

    “Il Visir deve sapere! La missione è andata a buon fine. Maledetta tempesta. Devo resistere. Ricompensa. Duliana. Bella. Mia. Devo tornare dal Visir. Quel bellimbusto del principe ha fatto la fine che meritava. Abbiamo vinto. Devo resistere.”

    Serna rimase ad ascoltare per qualche minuto, poi cominciò a suggerire, con l’Amuleto a far da interprete: “Che devo dire al Visir?”

    “Tutto è andato secondo i piani, oh mio signore! La missione del Principe è fallita prima di iniziare. Secondo i piani? Tranne questa stramaledetta tempesta. Sembra che Posse voglia distruggerci. Ma non si è mai fatto vedere. Devo resistere.”

    “Ma, il Principe?”

    “Come?”

    “Ha perso la testa alla prima ondata della tempesta. Maledetta tempesta. Non finirà mai. Devo tornare ad avvertire il Visir.”

    L’interrogatorio durò ore, con Serna che cercava di guidare le farneticazioni verso un racconto che avesse una parvenza di filo logico e il moribondo che tornava, come tirato da una molla, alla necessità di resistere per poter fare rapporto a “Visir” e ricevere in premio Duliana.
    Ad un certo punto le farneticazioni si fecero incomprensibili e il naufrago scivolò in un sonno senza sogni.

  • Notizie dal Nuovo Mondo

    Serna era preoccupata.
    L’ultima conversazione con suo padre le aveva lasciato l’amaro in bocca di troppe cose non dette.
    Era mattina presto e la notte regnava ancora incontrastata. Mancavano ancora diverse ore all’alba, ma lei non riusciva a riaddormentarsi.
    Il vago alone rosso che proveniva dal tavolo scacciò gli ultimi residui di sonno. In un momento era china sull’Amuleto.

    “Papà?”
    “No, sono solo io, l’Amuleto.”
    “Che succede?”
    “Nulla, almeno per ora. Thano ha deciso che tuo padre deve trovare alcune risposte senza aiuti. Ora nel suo Amuleto abita un altro.”
    “Che vuoi dire? Tu dove sei, ora?”
    “Puoi immaginarmi come un fantasma senza corpo, almeno per ora. Ho chiesto ospitalità al tuo Amuleto per poterti parlare.”
    “Come sta mio padre?”

    “Mesi? Chiuso in prigione?”
    L’Amuleto si produsse in una buona imitazione di una risatina: “Non ti preoccupare, ti dico, è una “prigione”, come dici tu, piuttosto ampia e confortevole. Piena di cose interessanti. L’unico vero pericolo è che si dimentichi perché è lì e ci rimanga troppo a lungo.”
    “Ho capito. Lo hanno chiuso in una biblioteca. Non ne uscirà finché non avrà letto tutto quel che c’è da leggere.”
    Stavolta la risata dell’Amuleto fu chiara e liberatoria: “Qualcosa del genere. Ti ripeto che non c’è da preoccuparsi, almeno per un bel po’ di tempo. Non posso intervenire, ma posso vedere quel che succede. Se dovessero esserci dei problemi farò del mio meglio per fartelo sapere. Per ora non posso dirti molto di più. Devo andare.”

    Il volto incappucciato di rosso scomparve e lei si appoggiò allo schienale della sedia. I profumi di quella strana terra entravano dalla finestra aperta.
    Ora che la tensione che aveva tenuto i suoi pensieri rivolti verso il lontano occidente stava calando, le tornò in mente che ora a casa, a Tigu, c’era, forse, la neve anche sul mare, mentre lì si dormiva con una coperta leggera.

  • Il sotterraneo

    Il palazzo era veramente enorme, riempiva quasi completamente la caverna, o, meglio, la caverna era stata costruita per inglobarlo. A differenza delle altre case incastonate nella roccia questo non toccava mai le pareti e, anzi, ne rimaneva ben distante anche se le proporzioni di quell’edificio davano l’impressione di riempire tutto lo spazio disponibile.

    Jona appoggiò lo zaino per terra, sul primo gradino che portava verso quell’enorme ingresso, grande quasi quanto i portali di Nayokka.
    Facendosi luce con l’Amuleto, come al solito appollaiato in cima al suo lungo bastone, cominciò un lento giro attorno al palazzo.
    C’erano diversi ingressi, tutt’intorno, ma non era quello che interessava il Mago, per ora; lui guardava la parete rocciosa in cerca di un’uscita.
    Non ce n’era nemmeno una.
    L’unico punto in cui la roccia non era assolutamente compatta era il cunicolo da cui era entrato, ma non pareva esserci modo di smuovere quel cilindro che ostruiva il tunnel.
    Provò anche a vibrare un colpo con la punta ferrata del suo bastone, ma l’unico risultato che ottenne fu un contraccolpo che gli fece battere i denti e dolere la pelle della mano.

    “Cosa ti aspettavi di trovare?” Gli chiese l’Amuleto quando giunse di nuovo dove aveva lasciato lo zaino.
    “Nulla, naturalmente, ma dovevo lo stesso essere sicuro di non aver tralasciato nulla. Ora so per certo che l’uscita, se esiste, è lì dentro.”

    Raccolse lo zaino e salì verso il portone. In realtà sotto l’immenso arco non c’era una porta, ma un muro con un finestrone, in alto, e due porte di dimensioni quasi normali in basso.
    Provò a spingere e la porta si aprì con solo un lieve cigolio di protesta di cardini disturbati.

    Appena fu dentro, il palazzo prese vita. Le luci si accesero. Un sonoro ronzio sembrò percorrere l’intero edificio.

    La mano del Mago corse alla porta che aveva appena passato, aspettandosi di trovarla bloccata, ma quella si aprì senza troppo sforzo. Era già abbastanza in trappola anche se poteva uscire dal palazzo.

    Scosse la testa. Oramai doveva andare avanti. Ponti, alle spalle, non ce n’erano più.

    Passò un androne sul quale si affacciavano molte porte e finestre scure e finì in un enorme salone dal quale partivano due scale che scendevano verso il basso.

    “Se c’è una via d’uscita deve essere sotto”, disse, più per sé stesso che per l’Amuleto.

    Mentre attraversava il salone non poté fare a meno di notare che le pareti erano praticamente coperte di cartelloni con scritte e figure di tutte le forme e dimensioni, ma si impose di non perdere tempo e li mise risolutamente fuori dal suo campo di attenzione.

    Scelse la scala di destra e scese.
    Arrivato in basso si trovò in quella che sembrava un refettorio, che gli ricordava quelli dei Monasteri, ma tutto era assolutamente strano. I tavoli erano tutti uguali e quasi senza caratteristiche che li distinguessero. Anche le sedie erano tutte in buone condizioni, identiche, disposte con cura e coperte da uno strato di polvere.

    Le luci erano molto vive e illuminavano a giorno.
    Quanta polvere! La sollevava ad ogni passo. Eppure era troppo poca. Qualcuno doveva manutenere questo posto, altrimenti con il tempo si sarebbe completamente distrutto. Più tardi! ora doveva trovare una via d’uscita.

    “SUBWAY STATION” era scritto su un cartello a forma di freccia.
    Sembrava una cosa interessante.
    Si diresse da quella parte.

    Praticamente sotto il portone che aveva attraversato poco prime ce n’era un altro, più basso, e non illuminato, ma largo e si intravedeva un ampio piazzale sotterraneo.

    Stava per varcarlo quando si fermò di botto con i capelli che gli si rizzavano sulla nuca.
    Le porte erano aperte, ma una vaga luminescenza rosso sangue non faceva presagire nulla di buono.

    La familiare risata di Thano lo fece voltare.
    Bravo il mio cercatore! Ti sei fermato appena a tempo.
    “Un’altra delle tue trappole Thano? Stavolta c’è mancato poco che ci cadessi, Evidentemente sto diventando davvero troppo vecchio per questo gioco.”

    “Ma è di qui che devo uscire, vero?”
    Sì. Non ci sono altre uscite praticabili.
    “E cosa devo fare perché tu mi lasci passare?”
    Sempre dritto al punto. Mi piace questo tuo modo di fare, ma stavolta è meglio che tu non abbia troppa fretta.
    Jona non rispose.
    Quello che devi fare è tornare qui e spiegarmi che posto è questo, chi lo ha costruito, quando e perché.
    Jona continuò a tacere, mentre si concentrava sulla respirazione.
    Thano cominciò a svanire lentamente, poi la sua immagine tornò solida: “Naturalmente devi fare tutto da solo, senza aiuti!
    Detto questo sparì lasciando il suo ghigno a rimbombare nelle sale vuote.
    L’Amuleto aveva perso completamente la sua aura rossa e aveva solo un leggero alone perfettamente giallo.
    Jona non fu per niente stupito nello scoprire che il suo compagno di viaggio non abitava più nell’Amuleto, sostituito da un esecutore ancora più stupido di quello che lo aveva servito come mago per tanti anni.
    Non sapeva neppure come collegarsi con Serna.

    Una stanza lì vicino aveva un letto, un armadio e un tavolino. La elesse a sua base e cominciò a ripulirla dalla polvere.

  • Il Museo

    Era notte fonda quando Jona, con in spalla uno zaino molto più pesante di quel che avrebbe voluto, attraversò il Parco seguendo la stellina viola che gli indicava la via.
    Era buio pesto. In quella parte non c’erano vene di fluorescenza e lui non aveva la visione notturna dei Nani.
    Intorno non si vedeva nessuno.
    All’improvviso di trovò di fronte il muro verticale che chiudeva il Parco. Si fermò di colpo per evitare di finirci contro.
    La stellina di Isto puntava dritta verso la roccia.
    Allungò una mano per toccarla, ma la roccia si ritirò.
    Fece un passo in avanti e la roccia ne fece uno indietro.
    Oramai era in una specie di stretto tunnel poco più grande di lui.
    Toccò il soffitto che era un palmo sopra la sua testa e quello rimase dov’era.
    Si girò verso il parco. Vedeva solo un ovale più chiaro qualche metro dietro di lui.
    A questa esitazione la roccia davanti a lui sembrò venire in avanti. Jona si chiese come faceva a saperlo, visto che oramai era solo nero su nero.
    Riprese a camminare e la roccia continuò a fargli spazio.
    La stellina puntò alla sua sinistra e Jona fece un passo in quella direzione.
    Lo spostamento d’aria lo informò che la roccia era tornata a occupare il tunnel che lui aveva appena percorso.
    Quel passo laterale era stato “il passo che l’aveva portato lontano”.

    “Lux Zei!” Non aveva senso proseguire a tentoni ora che era tagliato fuori dal mondo dei Nani.

    Si trovava in un’immensa caverna la cui volta si indovinava nel buio sopra di lui. Un palazzo polveroso occupava quasi tutta la caverna.
    Davanti a lui una scalinata saliva fino ad un immenso arco circondato da quattro colonne.

  • Serna

    Serna era lontana da casa.
    In quella strana terra oltre il mare del sud.
    Jona discusse a lungo con lei le parole di Isto, ma, per qualche motivo, non riuscì a parlarle di quegli umani che esistevano da prima degli Dei.
    Lei, pratica come al suo solito, andò dritta alle conclusioni: “Credo che Isto ti abbia avvertito che, se seguirai il suo cammino ti troverai tagliato fuori da tutto quello che conosci, almeno per un po’. Può essere che non riusciamo neppure a comunicare. Fuori da Nayokka fa un freddo cane; non sarebbe meglio aspettare la primavera? Almeno qui fa caldo, molto più che a casa.”
    “Qui fuori, invece, è tutto bianco. devono esserci almeno tre metri di neve, ma non posso aspettare troppo. Ho già visto che la stella sta lentamente sbiadendo. Tra non molto non sarà più visibile. Non ho tempo da perdere.”
    “Tre metri di neve? Pensaci bene. Non avrai molte possibilità di sopravvivere. Niente fuoco, niente cibo. Qualcosa non quadra.”
    “Esatto. Non ha senso che Isto voglia semplicemente farmi morire congelato.”

    “No. Non può essere quello. In realtà non mi ha detto che avrei dovuto andare a girovagare nella neve.”
    “Se mi hai riferito bene, però, ha detto abbastanza chiaramente che, da un certo punto, non ti sarà più possibile tornare indietro. Se hai dimenticato qualcosa dovrai farne senza.”
    “Questo è anche quello che ho capito io.”
    Serna sparì un momento: “Zeo mi dice che quest’inverno è particolarmente rigido e che la neve, lì vicino al mare, durerà fino a metà febbraio.”
    “Un mese e mezzo. Temevo peggio. Posso portarmi cibo per un paio di mesi, se sto attento. Il problema potrebbe essere il freddo, ma i vestiti che sono andati bene l’inverno scorso dovrebbero bastare anche qui.”
    “Insomma: sei deciso ad andare.”
    “Non posso fare altrimenti. Lo sai anche tu.”
    “Sì, lo so anche io, ma non sono per niente tranquilla. Vorrei tanto poter parlare con Marlo.”
    “Non credo sia una buona idea. Ho l’impressione che Isto non volesse far sapere dove mi vuole mandare. Forse ho fatto male anche a parlare con te.”
    “Papà!” Serna era esterrefatta: suo padre non aveva mai avuto segreti per lei

  • Isto

    Era una bella mattina piena di sole e il Parco era luminoso e caldo.
    Jona era su una spianata, sostenuta da contrafforti di blocchi di arenaria, dalla quale si dominava buona parte del Parco.
    Era seduto su una panca di pietra, apparentemente rilassato al sole.
    Davanti a lui l’immagine di Isto si era appena materializzata. Il Dio aveva risposto, come spesso faceva, al suo appello.

    “Prima di tutto volevo farti gli auguri di Buon Compleanno”, disse il Mago, ben sapendo che cercare di ingannare un Dio era fatica sprecata.

    “Ho fatto un po’ di ricerche sui palazzi incastonati nella roccia.”
    Isto non fece una piega e attese che Jona proseguisse.
    “Sono strani. Sembrano fatti a misura di uomini e non di Nani, sono anche in perfette condizioni, ma non sembrano nuovi, sembrano aggiustati. Alcune parti sono evidentemente rifatte, ma altre no.”

    Jona agitò una mano come per fermare il Dio: “Non è questo che mi turba. Sono le parti non restaurate che non capisco. Le pietre che tengono questa spianata, per esempio”, indicò i blocchi corrosi dal tempo: “sembra che siano stati cavati dalla terra circa tremila anni fa.”

    Jona prese un lungo respiro: “Quindi 206 anni prima che Voi nasceste.”
    Il Dio lo guardò con aria severa:
    “Ma le tue leggende dicono che furono gli Dei ad allevare i primi uomini!” Sapeva bene che contraddire un Dio non era la cosa più intelligente da fare, ma la frase uscì così, brutta e accusatoria.

    Il viso di Isto si fece ancora più severo:

    La voce del Dio aveva una strana forza e Jona, senza pensare, cominciò a declamare nella lingua di Ligu. Sentiva uno strano sdoppiamento, come se non fosse stato lui a parlare, ma qualcun altro, con una voce molto più giovane della sua:

    In quel tempo non c’erano uomini sulla Terra; solo piante e animali.
    Festo aveva costruito le montagne e i suoi fiumi le scolpivano.
    Asclep curava le piante e le faceva crescere rigogliose a coprire la nuda terra.
    Festo era contento perché le piante proteggevano le montagne.
    Opia mandava i suoi animali a pascersi delle piante migliori.
    Asclep si lamentò con Dana perché gli animali stavano distruggendo tutte le piante.
    Dana mandò allora i suoi animali cacciatori per mettere un freno ai mangiatori di piante.
    Posse non si interessava a quel che succedeva sulla terra perché il suo regno è l’acqua.
    Zeo era contento perché nei boschi trovavano rifugio gli uccelli che popolavano il cielo.
    Thano regnava su tutti eliminando i deboli e poi anche i forti.
    Solo Afro soffriva perché le mancava qualcosa.
    Vedendola triste Ipno le mandò un sogno.
    Afro sognò uomini e donne che popolavano la terra.
    Afro seppe che così doveva essere.
    Si rivolse a Palla per avere consiglio.
    Palla la ascoltò e capì che tutti gli dei dovevano cooperare per popolare la terra.
    Festo indicò il posto.
    Asclep preparò le piante da cui nacquero gli Uomini.
    Opia li nutrì con il latte dei suoi animali.
    Dana li svezzò con la carne.
    Posse fornì i pesci per farli crescere dritti.
    Zeo diede loro l’orizzonte lontano verso cui guardare.
    Ipno mandò loro i sogni che vanno oltre l’orizzonte.
    Afro li amò e insegnò loro ad amare.
    Palla regalò loro la curiosità intelligente.
    Thano gli ricorderà sempre l’umiltà.

    Isto rimase silenzioso.
    “Ipno mi ha detto che ricorda cose che erano prima che gli Dei esistessero.”
    Isto annuì.
    “Quindi Ipno ricordava un tempo nel quale c’erano Uomini sulla terra. La Storia dice solo che non c’erano “a quel tempo”.”
    Isto si limitò ad un vago sorriso.
    “Dove sono andati quegli uomini? Chi erano?”

    Non sapeva cosa rispondere: era la prima volta che il Dio gli faceva una domanda simile. Da sempre aveva considerato la conoscenza come la sua compagna ed amica.

    “Non credo che mi sia possibile tornare indietro neppure ora. Anche se non fosse la mia curiosità a spingermi ci penserebbe Thano.”

    Al bordo del suo Amuleto era apparsa una piccola stella viola che indicava una direzione precisa. Un’altra Bussola?

  • Ipno

    Era passato quasi un mese da quel primo incontro con il Martello e Jona godeva di una completa libertà, ma cominciava ad annoiarsi.
    Non aveva la passione per la meccanica di precisione e non riusciva ad entusiasmarsi per i complessi meccanismi che sapevano costruire.
    Era debitamente impressionato dall’abilità con cui riuscivano a forgiare sia grandi strutture metalliche che piccoli particolari che sembravano inadatti alle loro mani, grosse e potenti, ma dotate anche di una squisita delicatezza, quando era necessario, ma non riusciva ad interessarsene più di tanto. Sicuramente un suo difetto, pensò.

    Aveva, comunque, la sua personalissima biblioteca e presto prese l’abitudine di trascorrere le sue giornate al Parco, dove la luce, nonostante il brutto tempo, era molto migliore della penombra che i Nani amavano tanto.
    Aveva anche ottenuto il permesso di trasferirsi in una delle case incastonate nella roccia ai bordi del Parco.

    Seduto nel suo nuovo studio, accanto all’alta finestra si godeva la luce che penetrava dalle alte volte semitrasparenti che chiudevano il cielo del Parco.

    I mobili erano uno strano miscuglio: letto, sedie e tavolo erano nuovi fiammanti e fatti appositamente per lui da Burlock e da sua moglie che intendevano ripagare — parzialmente, come ci tenevano a sottolineare — il debito di gratitudine contratto, mentre tutto il resto proveniva da qualche altra casa ed era quindi a misura di Nano.

    In realtà, meditò oziosamente, i nuovi mobili si adattavano alle stanze molto meglio di quelli vecchi. Chissà perché Festo — i Nani erano stati chiarissimi su questo: tutta la zona del Parco e le case attorno, soprattutto quelle incastonate nella roccia le aveva fatte Festo in persona — le aveva fatte così. Raramente Festo faceva qualcosa senza un motivo preciso, come tutti gli Dei, del resto.

    La noia agì per lui. Quasi prima di rendersene conto aveva evocato Festo che ora era lì, davanti a lui. Cominciava a sorgergli il dubbio che evocare un Dio per una curiosità cosi insignificante poteva non essere esattamente una buona idea, ma oramai la domanda doveva essere fatta.
    La risposta, però lo lasciò interdetto: “Non credo di poterti aiutare, Jona. Queste case non le ho costruite io.
    Ma i Nani dicono che hai costruito personalmente tutta la Montagna di Nayokka!
    Vero, ma non anche tutto quello che c’è sotto. Oltre quello che ho fatto io ci sono alcune cose costruite dai Nani e altre ancora sono opera di Altri.
    Detto questo Festo sparì di improvvisamente e Jona rimase a lungo a rimuginare, poi raccattò il suo Amuleto e andò a fare una lunga passeggiata intorno al Parco.

    Passò diversi giorni a ispezionare le case incastonate nella roccia durante le corte giornate invernali e lunghe ore di buio a studiare, soprattutto tecniche di costruzione e petrografia.

    Non parlava con nessuno, nemmeno con l’Amuleto che, dal canto suo, non fece domande ed eseguì tutte le rilevazioni e le analisi che Jona gli chiedeva senza offrire consigli.

    Era notte fonda quando guardò con disgusto i fogli scribacchiati che avevano riempito il tavolo. Questo era il meglio che poteva fare. Non aveva senso aspettare oltre.

    “Registra accuratamente tutto quello che succede; temo che dovrò rivedere parecchie volte prima di capire; stavolta è meglio lasciar fuori Serna”, ordinò all’Amuleto, poi iniziò le invocazioni per evocare Ipno.

    Tsk, tsk. Il nostro buon Mago ha una pessima cera. Non sono Asclep, ma temo proprio che tu stia dormendo troppo poco. Dovresti stare più attento alla tua salute, non sei più un ragazzino, sai?
    “Ragione di più per non sprecare il tempo che mi resta, credo.”
    Tsk, tsk. Ragione di più per non accorciarlo, mi pare. Comunque il tempo è tuo.
    “Ricorderò il tuo consiglio. Devo chiederti una cosa.”
    Oh, questa non me l’aspettavo veramente. Pensavo mi avessi chiamato per fare due chiacchiere!
    Jona sentì le orecchie diventar rosse, ma fece del suo meglio per ignorarle: “Mi hai detto che ricordi il tempo quando gli Dei non esistevano ancora. Ricordo bene?”
    Tsk, tsk. Chiedi al Dio dell’Oblio se tu Ricordi?
    “E a chi dovrei chiederlo, se no? Sei stato tu ad insegnarmi che Ricordo ed Oblio sono due facce della medesima medaglia.”
    Giusto. Ricordi bene. Posso andare ora?
    “Posso sapere quanto tempo fa siete nati?”
    Nessuno degli Dei è mai nato”, rispose Ipno con un tono grave che mal gli si addiceva, poi sorrise e gli fece l’occhiolino, “ma proprio dopodomani cade il mio 2813° compleanno.
    “Dopodomani?”
    Già. Il 25 Dicembre.
    Jona ci mise un po’ per assorbire l’informazione, Ipno ne approfittò per scomparire.

    “Vuoi rivedere la scena?”