Author: mcon

  • Il monastero di Palla

    Selle era una grande città che sorgeva su delle basse colline. Su una di queste sorgeva il grande edificio squadrato che conteneva il Monastero di Palla in Selle.
    La struttura era strana e Jona ci mise un po’ a capire cosa lo disturbasse. Le quattro porte erano collocate in corrispondenza dei grandi torrioni che occupavano gli angoli, lasciando le mura lisce e bianche fino a quasi cinque metri da terra, dove si aprivano una serie di piccole finestre a intervalli regolari, finestre che diventavano sempre più ampie nei piani superiori.
    L’edificio, circondato da bassi boschetti, era visibile da tutta la regione.

    Jona, guidato dall’Amuleto, si diresse verso il torrione sud.
    Scese da cavallo e si avvicinò al portone aperto.
    Non c’era molta gente, notò, gli altri ingressi gli erano sembrati molto più affollati. Dietro la porta c’era un ampio corridoio che portava direttamente al cortile interno dopo aver attraversato tutto il torrione. Vicino alla fine del corridoio, in una nicchia nel muro, stava una scrivania con dietro un uomo dall’aria annoiata.
    “Chi siete? Motivo della visita?” Chiese alzando gli occhi dal libro che stava leggendo.
    “Jona di Tigu, cerco saggezza.”
    L’uomo si fece attento e cominciò a frugare fra le carte sulla scrivania mentre rispondeva meccanicamente:
    Afferrò un campanellino di ottone e lo agitò vigorosamente: “Ti aspettavamo, Jona il Cercatore.”

    Da una porticina apparve un giovane dall’aria efficiente con un completo pantaloni e casacca grigia stretta da una cintura di tela candida.
    I due parlottarono brevemente, poi l’uomo alla scrivania firmò un foglio, lo diede al giovane e riprese la lettura interrotta.
    “Mi segua, prego.” Il cortile, che aveva un centinaio di metri di lato, era completamente coperto da un’intelaiatura a vetri simile a quella delle serre.

    Delle numerose porte una delle prime era quella delle stalle dove Jona affidò il suo cavallo a uno stalliere anziano e sorridente.
    “Ho istruzioni di condurla nell’aula delle udienze appena si sarà rinfrescato. Abbiamo una cella pronta per lei in foresteria.”

    La cella assomigliava abbastanza a quella del monastero di Dionne, anche se il bagno era molto meno lussuoso. Era al primo piano e corrispondeva a una di quelle piccole finestre che aveva notato arrivando.

    Jona si diede una rapida lavata e si mise la divisa del tempio: pantaloni e casacca grigi, ma con la cintura rossa. Il suo accompagnatore, intanto, lo aspettava nel corridoio. Jona pensò bene di non farlo attendere troppo.
    “La Sacerdotessa è nella Sala delle Udienze, oggi ci sono parecchie cause, ma credo abbia quasi finito. Venga.”
    Lo guidò per un dedalo di corridoi fino a una piccola porta che aprì e si fece da parte per lasciarlo passare. Il Mago si stupì di una porta così piccola per una cosa che veniva pomposamente chiamata “Sala delle Udienze”.
    Lo stupore durò il tempo di passare la soglia e scostare la tenda che la nascondeva. Si trovò su un palco sulla parete destra della Sala, quasi alla stessa altezza dell’alto scranno della Sacerdotessa.

    La Sala era più piccola del Refettorio del tempio di Dionne, ma molto più imponente. Sulla parete di fondo, il lato minore del rettangolo, proprio di fronte al palco dove si trovava Jona, c’era una specie di scalinata a gradoni composta da una serie di scrivanie dove sedevano funzionari dall’aria arcigna e che culminava con lo scranno dove sedeva la Sacerdotessa con il suo completo bianco come la neve. Era una donna anziana e severa — doveva avere più o meno la stessa età del Mago — i cui capelli completamente candidi si confondevano con la veste.

    “Che tu abbia rubato per amore non è una scusante, lo sai, vero?” Stava dicendo.
    Davanti a lei, in una specie di piccolo recinto formato da una bassa balaustra di legno lucido, stava un giovanotto a capo chino: “Lo so perfettamente. Non cercavo di giustificarmi. Solo di spiegare. Non so che mi ha preso: volevo farla felice e ora ho rovinato tutto”, lo sguardo corse verso una ragazza in lacrime fra le braccia di quella che doveva essere sua madre.
    “Conosci la condanna per il furto?”
    “Il Marchio Nero.”
    “E sai anche che cosa significa?”
    “Che Palla controllerà ogni mia azione, notte e giorno.”
    La Sacerdotessa si concesse un sorriso che addolcì improvvisamente quella faccia arcigna:
    Il ragazzo annuì in silenzio.

    La Sacerdotessa diede qualcosa al funzionario alla sua destra che la prese, si alzò con fare solenne e si diresse verso il ragazzo.
    “Che succede adesso?” chiese Jona alla sua guida che si era seduta in silenzio accanto a lui.
    “L’Apposizione del Marchio. La stella a cinque punte viene applicata alla fronte del condannato. Rimarrà lì senza che sia possibile rimuoverla fino a quando la Dea non deciderà che la pena è stata sufficiente, dopo di che cadrà da sola.”
    Il ragazzo aspettò a testa alta il funzionario che gli applicò il Marchio.
    Jona sentì che gli sussurrava: “Fa male quando si attacca, ma passa subito. Coraggio.”
    Il ragazzo non diede segno di averlo sentito, ma non contrasse nemmeno un muscolo quando il Marchio gli fu applicato. Stava guardando la ragazza che, a sua volta, guardava la scena senza riuscire a staccare gli occhi.
    Il condannato ringraziò, si girò e, con molta dignità, percorse tutta la sala uscendo dalla grande porta in fondo.

    La porta si era appena chiusa alle sue spalle che la Sacerdotessa si rivolse direttamente alla ragazza: “Ha bisogno di te. Non deludere la Dea e, soprattutto, non deludere lui. Vai!” Lei si divincolò dall’abbraccio della madre e percorse la sala in un lampo, sparendo dietro la grande porta che si stava aprendo per ammettere il prossimo caso.

    La scena cambiò radicalmente. L’imputato si divincolava e inveiva contro tutto e contro tutti, bestemmiando gli Dei e i loro Sacerdoti.
    Lo trascinarono di peso nel recinto e lì lo lasciarono. Quello, pur incatenato, tentò di saltare la bassa balaustra che brillò di luce attinica e lui cadde a terra contorcendosi dal dolore.

    Jona vide chiaramente che l’uomo aveva già sulla fronte un Marchio rosso, anche se aveva cercato di nasconderlo facendosi crescere i capelli.
    “Che significa il Marchio Rosso?”

    La Sacerdotessa fece del suo meglio per interrogare l’uomo, ma questi rispose solo con insulti; allora mormorò qualcosa al suo Amuleto dal quale partì un lampo di luce bianca che colpì in pieno il Marchio Rosso.

    L’uomo rimase come paralizzato mentre davanti a lui compariva la scena del suo secondo omicidio. Una taverna, gente allegra e rumorosa. Un commento salace. L’ira immediata e assassina.

    La Sacerdotessa aveva un volto triste mentre emetteva il suo verdetto: “Non credo ci sia molto da aggiungere”, disse con voce piatta, “la condanna è l’ostracismo per tre anni, ma anche dopo ti rimarrà per tutta la vita il Marchio Giallo. Non potrai più bere nemmeno una goccia di birra. Liberatelo!”

    L’uomo era ancora paralizzato e non si mosse mentre le guardie gli toglievano le catene e si allontanavano.

    L’effetto della paralisi cessò con la stessa rapidità con cui era arrivata e l’uomo crollò a terra, per poi alzarsi e ricominciare a inveire schiumando di rabbia.
    “Ora vai!” disse la Sacerdotessa e il Marchio Rosso diventò viola e cominciò a brillare. L’uomo si portò le mani alla fronte e corse via ululando come un animale ferito. Nessuno cercò di fermarlo.
    “Non capisco”, disse Jona al suo vicino.

    Jona aveva molte perplessità, ma le tenne per sé.

    Stava intanto facendo il suo ingresso quello che, a giudicare dall’aria di disarmo che aleggiava nella Sala, doveva essere l’ultimo caso della giornata.

    Entrarono due donne con aria indispettita che si presentarono spontaneamente nel piccolo recinto davanti a quello che oramai Jona aveva capito essere un vero e proprio tribunale.

    A specifiche domande del funzionario di più basso livello dichiararono i loro nomi e il motivo della loro disputa: un contenzioso circa i pagamenti di una partita di stoffe ricamate.

    La Sacerdotessa non aprì bocca per tutto il tempo. Bastarono infatti poche domande mirate fatte dal funzionario che le aveva accolte per accertare che non c’era stato dolo, ma semplicemente non si erano capite bene all’inizio e poi l’equivoco si era incancrenito fino a diventare una lite.
    L’alone verde che avvolgeva la balaustra garantiva non stessero mentendo.

    Un altro funzionario, una donna sulla quarantina, che era seduta appena sotto lo scranno della Sacerdotessa, fece alle due una breve, ma severa, ramanzina sulla necessità di essere precise e, soprattutto, non far perdere tempo con questioni che si potevano risolvere senza ricorrere al Monastero; dopo di che comminò a entrambe una multa “per il tempo che avete fatto perdere a tutti noi” che, a giudicare dalla faccia delle due, doveva essere piuttosto salata.

    Le due donne uscirono parlando fitto fitto tra di loro. Jona sorrise: era evidente che, nonostante la multa, erano contente di aver scoperto che nessuna delle due aveva, in realtà, cercato d’imbrogliare l’altra.

  • Nelle campagne

    Jona rimase al monastero per sei settimane, poi la Bussola riapparve puntando verso il monastero di Palla in Selle.

    Dopo i primi giorni cercò di rendersi utile sia con gli erboristi che la sera narrando storie ed eseguendo piccoli numeri di prestidigitazione, ma il Diritto di Prima Scelta se lo guadagnò quando insegnò a uno dei cuochi la ricetta dei blinis con il caviale. Quando offrì il calice, sulla superficie del liquore, solo per un istante, apparve il volto ghignante di Thano: “Questa la devi a me!

    Lasciò il monastero in una fredda mattina di ottobre, la temperatura non era, in realtà, rigidissima, ma l’umidità e la leggera pioggerella rubavano il calore dal corpo.
    Jona si strinse addosso il mantello e spronò il suo cavallo.

    La strada era ben tenuta, ma semideserta. Più si allontanava e più le case si diradavano, fino a scomparire del tutto. La strada si restrinse a un nastro largo appena un paio di metri che si snodava fra i boschi.

    Era il primo pomeriggio quando arrivò alla locanda di posta. In teoria, spingendo un po’ il cavallo, avrebbe potuto anche arrivare alla successiva, ma era intirizzito e non prese nemmeno in considerazione l’ipotesi.

    La locanda era semivuota, solo un paio di carri venivano dal monastero di Festo e andavano a quello di Dionne portando altri elementi per costruire nuove serre. Dovevano essere le ultime spedizioni prima del fermo invernale.

    L’interno era caldo e luminoso, anche se la luce era quasi tutta artificiale. L’oste gli mise davanti un grosso boccale di birra scura prima di chiedergli che cosa volesse. Jona gli disse di essere diretto al Monastero di Palla in Selle e che aveva bisogno di un bagno caldo per togliersi di dosso il gelo della foresta.
    L’oste annuì comprensivo e chiamò una fantesca per accompagnarlo di sopra.

    La birra era meno raffinata di quella a cui si era oramai abituato, ma con un suo carattere preciso, un po’ rustico. Jona si prese il suo tempo e lasciò il boccale vuoto quando si alzò per seguire la ragazza.

    La stanza somigliava abbastanza alla sua cella al monastero, incluso il bagno privato, anche se non aveva i grandi specchi.
    Dopo il bagno il massaggio. La ragazza aveva evidentemente frequentato con profitto i corsi di Brigitte. Poi il massaggio si fece più intimo e Jona si rese conto che doveva aver frequentato anche altri corsi al tempio di Dionne.
    Per un attimo si chiese se la birra contenesse un po’ di quell’afrodisiaco che lui conosceva bene; decise di no e aveva ragione.
    Quando scese per la cena era in piena forma.

    La cena, come la birra, anche se gustosa era assai meno raffinata di quella del monastero, e Jona la gradì in modo particolare, forse proprio per questo. Non si era reso conto che le sue papille erano state costrette a un superlavoro, ma ora quel “riposo” era più che benvenuto.

    Si ritirò presto nella sua cella con un boccale di birra ancora pieno : “Chiamami Serna, ché sono parecchi giorni che non do notizie.”
    L’immagine sul tavolino da lavoro della figlia apparve prima ancora che avesse finito di parlare.
    “Ciao papà”, il sorriso le si allargò sulle labbra mentre riponeva le carte nautiche che aveva davanti, “Come vanno le cose al monastero?”
    “Le cose vanno bene, ma non sono più al monastero. Sono in viaggio per Selle, monastero di Palla. E da quelle parti? tutto bene?”
    “Tutto a posto. Ora anche la mamma non ha più le sue nausee e sta benissimo.”
    “Nausee?”

    Padre e figlia rimasero a fissarsi senza parole per qualche secondo, poi Serna disse lentamente: “Ora provo”, e schizzò via come una lepre lasciando Jona ad aspettare rodendosi per l’impazienza.
    “Caro?” Il viso lievemente arrossato dallo sforzo di Dania apparve accanto al tavolino e lei si sedette sulla grande poltrona di pelle marrone.
    Jona non riusciva quasi a parlare, si limitò ad assorbire i particolari e a sorridere.

    Serna apparve un attimo alle spalle della madre, segnalò a Jona che sarebbe tornata più tardi e si ritirò in silenzio.
    “Stai bene?” si decise infine a chiedere, “è successo l’ultima sera?”
    “Penso di sì”, rispose lei accarezzandosi il pancione, “non ti preoccupare: è tutto regolare. Lo so che sembro un pallone, ma sono due gemelli e, almeno per ora, stanno tutti e due benissimo.”
    “Gemelli? Stavolta Opia ha fatto le cose in grande!” scherzò lui; in effetti i parti gemellari erano estremamente rari. Loro avevano già quattro figli, una rarità, se a questo si aggiungeva l’età di Dania che certo non era una bambina
    Lei vide l’ala nera sul suo viso e rise: “No, non ti preoccupare. Stiamo tutti e tre benissimo e io sono felice di portare questo peso. Guarda.” Tirò fuori il suo amuleto e lo accarezzò con mano leggera; quello reagì all’istante illuminandosi di una potente luce verdissima. Quando se lo passò sul pancione la luce aumentò fino a diventare abbagliante. Decisamente erano in perfetta salute. Jona si rilassò un poco.
    “Dovrebbero nascere all’inizio dell’anno prossimo, ma credo che anticiperanno un po’, sono già molto grossi. Devi cominciare a pensare ai nomi.”
    “Maschietti o femminucce?”
    “Uno e uno”, rispose lei guardandolo fisso.
    Gemelli biovulari. Una vera rarità. Opia doveva avere dei disegni specifici. Meglio indagare.
    “Ci penserò”, disse poi, “In questo momento mi vengono Bea e Vigil, ma abbiamo ancora tempo per pensarci.”
    Il discorso si spostò su altri argomenti più futili, sui racconti e presto si ritrovarono a chiacchierare come due innamoratini, dimentichi del mondo attorno a loro.

    Il mondo, molto più tardi, fece irruzione sbuffando: “Hai intenzione di tenerla su quella poltrona tutta la notte? Razza di senza cervello! Non lo capisci che ha bisogno di riposare?”
    “Mamma, sto bene e lo sai.” Le disse Dania sorridendo, poi rivolta al marito: “Darda ha cominciato a fare la chioccia da quando mi sono accorta di essere incinta, ma stavolta ha ragione. Guarda che ora abbiamo fatto.”
    Jona si sentì un po’ in colpa quando vide l’ora che l’Amuleto gli mostrava, ma gli occhi sorridenti della moglie e della suocera lo tranquillizzarono presto.
    “In qualità di Sacerdotessa di Asclep”, disse poi Dania con fare pomposo, “posso assicurare entrambi che queste chiacchierate fanno diminuire del 27.4 percento il rischio di aborto spontaneo.”
    Jona augurò la buona notte a entrambe.

    Prima di coricarsi chiese all’Amuleto: “Perché non volevate che sapessi della gravidanza? E perché adesso, invece, me lo avete fatto sapere?”
    “Io non ho fatto un bel nulla”, rispose quello con l’aria più innocente del mondo, “né prima, né adesso.”
    “Non fare il finto tonto!”
    “E tu non fare il tonto completo!!”

    Jona non ci mise molto a capire che, evidentemente, gli Dei non avevano gradito la castità alla quale si era attenuto fino a poco prima. Anche i mesi passati al tempio di Dionne, con i suoi riti serali, non erano stati sufficienti, ma l’aver trattato la fantesca in modo ben differente da come si era comportato con Arianna doveva averli convinti che non c’era più ragione di nascondere quel che stava succedendo a casa.
    Scrollò le spalle, tutto quell’interessamento gli sembrava sinceramente eccessivo
    I motivi degli Dei rimanevano un mistero, ma il Mago archiviò l’informazione soddisfatto e si stese sul suo letto. In pochi minuti dormiva placidamente fra le braccia di Ipno.

    Ipno sorrise mentre Jona scivolava in un sonno tranquillo.
    Continuava, dopo tanti secoli, a trovar divertente l’apparente ipermetropia mentale dei mortali, la capacità di non vedere le cose che li riguardavano troppo da vicino.
    Il legame esclusivo che legava il Mago con la Sacerdotessa era stato allentato quanto bastava, forse

  • Le Serre

    Jona si svegliò con il braccio destro completamente addormentato. Non riusciva a muoverlo e sembrava pesasse tonnellate. Cercò di girarsi e il “peso” lo baciò sulla bocca.
    La circolazione riprese e il braccio protestò vigorosamente formicolando crudelmente. Jona fece una smorfia e cercò di massaggiarselo.
    “Oh, povero caro”, disse Tyla con la voce ancora un po’ impastata dal sonno, “ti fa molto male?”
    “Non è nulla”, cominciò lui, poi vide il sorriso nei suoi occhi e continuò con tono diverso: “ma dammi una mano a svegliare questo pezzo di legno che porto attaccato a una spalla.”
    Il sorriso si allargò dagli occhi a tutto il viso mentre si tirava a sedere e prendeva a massaggiare quel braccio che aveva usato fino ad allora come cuscino.
    Le smorfie di dolore che Jona faceva le strapparono più di un risolino.

    Fecero una doccia insieme e si rivestirono, poi mentre stavano per uscire Tyla lo fermò e gli disse con un viso improvvisamente serio: “Quando usciremo da quella porta la magia della Scelta sarà ufficialmente finita; io tornerò a essere Tyla la Sacerdotessa e tu Jona Il Mago, spero che ti sia chiaro.”
    “Chiarissimo.”
    “Grazie.” Lo baciò sula punta del naso e aprì la porta uscendo impettita nel corridoio affollato.

    “Le nostre serre sono tra le migliori di tutto il paese, non tanto come costruzione, visto che provengono tutte dal tempio di Festo, ma come varietà dei prodotti e per la loro qualità. Ti interesserebbe visitarle?”

    “Esatto.”
    “Fra Domeneq! Posso rubarle un po’ del suo tempo?”
    Fra Domeneq era un uomo di mezza età, esile, dall’aspetto quasi fragile, ma quando i suoi occhi azzurri si girarono verso di loro Jona percepì nettamente una forza interiore non comune.
    “Ai suoi ordini, Sacerdotessa!”
    “Potrebbe organizzare una visita alle serre per il nostro ospite, qui?”
    “Certamente. Me ne occupo personalmente.”
    “Allora vi lascio. Buona giornata!”
    Jona e Fra Domeneq si produssero all’unisono in un inchino profondo e Tyla si allontanò senza guardarsi indietro.

    “Che cosa ti interessa delle nostre serre, in particolare?”

    “Capisco, la Sacerdotessa ha, come al solito, ragione; inutile cercare di spiegare, quando l’esperienza diretta è molto più efficace.” Sottolineò la parola “Sacerdotessa” quanto bastava per far capire a Jona che quello era “il” modo di riferirsi a lei e il Mago si sentì avvampare per l’imbarazzo. Non ci sarebbe davvero voluto molto a capirlo.
    Fra Domeneq fece finta di nulla e proseguì senza pause:
    Jona annuì: “Tra un’ora al portale Sud. Certamente!”
    “A tra poco, allora”, concluse il frate e si allontanò a passo svelto.

    Il Mago si diresse verso il refettorio con la netta sensazione di essere parecchio in ritardo.
    Una volta nella grande sala la sensazione divenne certezza. Il refettorio era in disarmo, poche persone stavano ancora mangiando, ma gli addetti di cucina avevano già cominciato a sbaraccare.
    Jona prese una ciotola di cioccolata e una fetta di torta che consumò rapidamente, ma non tanto da non accorgersi della qualità delle vivande.

    Fra Domeneq non si fece attendere.
    Le serre coprivano il lato sud della collina su cui sorgeva il monastero, protette da un basso muro di cinta. Jona non le aveva notate arrivando solo perché era giunto da nord. Era una serie di enormi capannoni completamente coperti da spessi vetri e sostenuti da strani pali cilindrici che sembravano di metallo, ma non lo erano.
    “E vetro anche quello”, spiegò Fra Domeneq vedendo l’interesse di Jona, “per la precisione si tratta di una schiuma di vetro; è molto leggera, ma molto resistente e rigida. Guarda.” Lo guidò in un angolo del grande capannone e gli mostrò una serie di lunghi tubi di diversi diametri: “Questi li usiamo per le manutenzioni. Prova a prenderne uno.”
    Jona valutò che dovessero essere lunghi circa cinque metri e abbrancò un palo di cinque centimetri di diametro, chiedendosi se sarebbe riuscito a sollevarlo. Mise troppa forza, visto che pesava meno di un chilo e gli sfuggì dalle mani ricadendo a terra con un tonfo sordo. Guardò Fra Domeneq imbarazzato, ma quello stava sorridendo, evidentemente si aspettava qualcosa del genere: “Li producono al tempio di Festo, a Twerp, e non si rompono facilmente.” Il palo, infatti, non aveva subito alcun danno. Jona lo riprese in mano per accertarsene e notò come fosse assolutamente dritto e non flettesse nemmeno sotto sforzo.
    “A Twerp sono specializzati nella lavorazione del vetro e della ceramica; fanno lì anche le lastre per la pavimentazione stradale che hai sicuramente notato.”
    “Mi piacerebbe visitarlo, sempre che Thano non abbia altri progetti, ma torniamo alle serre.”
    “Già, le serre. Come avrai notato sono formate da elementi modulari e composti da intelaiature coperte da lastre di vetro triangolari. Ne abbiamo di tutte le dimensioni e per tutti gli usi; questa serve per le coltivazioni d’insalate e altri ortaggi e viene tenuta a una temperatura simile a quella estiva.” Entrarono e Jona sentì subito la differenza rispetto all’aria frizzante dell’esterno.
    “Sono riscaldate?”

    Attraversarono l’intera serra, passando tra i filari ordinati di cassette dentro cui crescevano le piantine. La maggior parte delle piante erano conosciute a Jona, quando non ne riconosceva qualcuna chiedeva; Fra Domeneq era sempre pronto a snocciolare nome, usi e una quantità d’informazioni accessorie.

    Quando passarono nella struttura successiva Jona avvertì il calore e l’umidità come avesse attraversato un muro, invisibile, ma ben solido. Faceva fatica a respirare.
    “Rilassati e lascia che il tuo corpo si abitui, tra pochi minuti starai meglio.”
    Si costrinse a respirare l’aria di quella fornace e presto la situazione migliorò, anche se stava oramai sudando copiosamente. Tutti quelli che stavano lavorando lì erano a torso nudo e portavano solo un paio di braghe leggere. Saggia decisione.
    “Non fa tutto questo caldo; la temperatura è di soli 28°, ma sembra molto più alta per il contrasto e per l’umidità.”
    Jona si era ripreso abbastanza da interessarsi di ciò che lo circondava; le piante del cacao erano dei veri e propri alberelli, alti quattro o cinque metri con delle larghe foglie legnose.

    A intervalli regolari c’erano degli strani scatoloni da cui si levavano spire di vapore. Avvicinò una mano e sentì il calore: erano quelle le stufe responsabili del riscaldamento, ma non si vedevano bracieri o fornelli. Guardò il frate con aria interrogativa.

    “Elettricità?”

    “Non li guardare troppo. Rischi di bruciarti gli occhi.”
    Jona abbassò lo sguardo, ma la forma del tubo gli rimase davanti, come se avesse guardato il sole.

    Fra Domeneq girò di nuovo la maniglia e la luminosità tornò normale: “Per ora ancora non servono, ma dovremo accenderle presto. Il cacao ha bisogno di molte ore di luce.”

    Jona seguì il frate maledicendosi per la sua imprudenza. L’immagine dei tubi luminosi gli rimaneva impressa sulla retina impedendogli di vedere bene e dandogli un leggero senso di nausea: “Mi sono rovinato gli occhi?” chiese preoccupato all’Amuleto.
    “Non credo, ma ci vorrà un po’ di tempo perché la persistenza svanisca del tutto. Attento!” Jona si fermò immediatamente, appena a tempo per evitare di andare a sbattere contro un sostegno che non aveva visto.

    Seguì in silenzio Fra Domeneq nel suo giro che prese tutta la mattinata. Jona aveva un buon senso dell’orientamento ed era quasi sicuro di aver visitato solo una piccola frazione delle serre; erano davvero immense.
    Lo disse alla sua guida che rispose con un evidente orgoglio:
    “Non c’è anche una scuola di massaggio?” chiese a un certo punto Jona.
    “Sì, certo, ma non fa parte del Monastero in senso stretto. In realtà dipende dal monastero di Asclep, così come l’erboristeria. Qui coltiviamo molte delle piante che si usano in medicina e si producono balsami e unguenti, ma gli speziali, così come i massaggiatori, dipendono direttamente da Akela”
    “Akela?”
    “Sì, il Monastero di Asclep in Akela”
    “Quindi voi sareste il “Monastero di Dionne in Leppe”, o semplicemente “Leppe”?”
    Il frate annuì: “Ci sono poi il Monastero di Palla in Selle, il Monastero di Festo in Twerp”, e proseguì a lungo citando ogni Dio almeno una volta.
    “Sono tantissimi”, osservò Jona, “sembra quasi che ci sia un Monastero in ogni città.”
    Fra Domeneq lo guardò stupito: “Certo che c’è un monastero in ogni città. Le città sono costruite attorno ai monasteri. Prima si fonda il monastero, lo si impianta e poi la città gli cresce attorno, ma il monastero rimane il fulcro della vita. Quasi tutti lavorano al monastero o per il monastero.”
    Jona rimase in silenzio; cominciava a capire da dove poteva aver avuto inizio il rigetto per gli Dei nella terra delle guerre, ma non era certo né il posto né il momento per parlarne.

    Rientrarono che era quasi ora di cena. Fece appena a tempo a fare una rapida doccia. Niente massaggio oggi, peccato.

    La cena fu completamente differente da quella del giorno prima, ma comunque deliziosa.

  • Cena al Refettorio

    Uscite le due donne Jona rimase sul letto per qualche minuto, poi l’Amuleto lo chiamò:
    Qualcuno aveva lasciato in bella vista sul tavolo una pesante e morbida veste bianca simile a quella che portava Helga, ma la cintura era costituita da un cordone rosso sangue. Jona la indossò e calzò anche i sandali di cuoio e sughero della medesima gradazione di rosso.
    Aveva appena finito che l’anziano accolito bussò per accompagnarlo in refettorio.

    Il Refettorio, una grande sala dall’alto soffitto, era particolare; circa la metà completamente sgombra, mentre nell’altra parte erano allineati i lunghi tavoli con comode sedie attorno. La tavolata più lunga era al centro, proprio a fianco della zona sgombra e imbandita solo da una parte. Tutte le altre erano orientate nell’altro verso e avevano posti su entrambi i lati.

    L’accolito lo guidò con passo sicuro tra l’andirivieni di persone che stavano prendendo posto proprio verso quella tavolata dove una poltroncina aveva un colore rosso un po’ più chiaro delle altre. Un colore che si intonava perfettamente con i suoi sandali.
    Jona prese posto e l’accolito scomparve rapidamente.
    Grandi finestre alle sue spalle lasciavano entrare il sole oramai basso fra le montagne.

    Finalmente Jona capì che cosa lo stava disturbando tanto: Dionne, fin da quando poteva ricordare, era sempre stata sinonimo di allegria e sregolatezza, spesso un po’ sguaiata. Qui invece si respirava un’aria di calma aspettativa, il chiacchiericcio, sicuramente notevole, era allegro, ma composto, quasi austero.
    Si rilassò sullo schienale della poltroncina aspettando di essere sorpreso.

    La sala era quasi completamente piena quando Jona percepì un distinto cambiamento nel rumore di fondo. Si guardò attorno e vide che la sacerdotessa aveva fatto il suo ingresso. Stava parlando fitto fitto con due persone non giovanissime che alla fine annuirono e si dileguarono, mentre lei veniva a prendere il suo posto al centro della tavolata, proprio a fianco di Jona.
    “Spero tu ti sia trovato bene”, disse mentre si accomodava sulla sua poltroncina, larga a sufficienza da permetterle di accoccolarsi ripiegando le lunghe gambe sotto di sé.
    “Benissimo, grazie”, rispose lui. Stava per aggiungere qualcos’altro, ma lei batté le mani due volte e la sala si riempì di movimento.

    I due con cui la sacerdotessa stava parlando poco prima si presentarono al centro della sala, Jona notò che ciascuno aveva legato un nastro al braccio sinistro, un azzurro e l’altro giallo.
    “Come sapete i temi di questa sera sono il pollo e le trote. La cucina del maestro Hans”, il maestro Hans, con il nastro azzurro al braccio, fece un grande inchino mentre l’altro proseguiva, “ha scelto di cimentarsi con le trote, mentre la mia vi delizierà con il pollame.”
    Il maestro Hans prese la parola: “Cominceremo con un antipasto di carpaccio di trota iridata su letto di crescione.”. Descrisse brevemente il piatto mentre gli inservienti di cucina distribuivano su tutte le tavole i lunghi vassoi.

    Alle loro spalle, vicino alla parete di fondo, erano stati portati dei grandi tabelloni. Su uno qualcuno stava scrivendo “carpaccio di trota”.
    “In quel cestino ci sono i tuoi gettoni”, gli disse la sacerdotessa, “ne hai solo tre. Puoi darli a chi vuoi, sia per il cibo e per il resto. Ti consiglio di aspettare: non li puoi riprendere se poi vedi qualcosa che ti piace di più!”

    Il carpaccio era delizioso, ma Jona seguì il consiglio e si tenne i suoi gettoni. Nel frattempo due giocolieri si stavano esibendo lanciandosi un numero impressionante di cerchi di metallo che formavano due linee tratteggiate che solcavano la sala. I loro nomi vennero scritti su un altro tabellone. Intanto i primi gettoni venivano spesi a favore del carpaccio e finivano appesi al tabellone.

    Poi fu la volta di un antipasto di polpettine di pollo alle erbe su composta di ribes.
    L’accompagnamento era una lunga ballata cantata da una matrona dalla voce possente della quale Jona capì poco o nulla anche perché l’Amuleto non si curò di tradurre, ma che strappò risate e applausi a scena aperta da parte degli altri commensali.

    Jona allungò la mano e si versò un generoso bicchiere di una birra color del miele. Quando la portò alle labbra rimase sorpreso dalla qualità. Era certamente la miglior birra che avesse mai bevuto. Chiamò il cantiniere e gli diede uno dei suoi gettoni.

    La cena proseguì a lungo e Jona percepì il crescendo di qualità e perizia sia nel cibo che in coloro che si esibivano. Finì per premiare con i suoi gettoni un suonatore di flauto che suonava da solo, ma sembrava avesse un’orchestra alle spalle, e un gruppo di danzatrici che si erano esibite mentre venivano serviti i dolci, anche questi in tema: una trota di pan di Spagna farcito e un enorme gallo di cioccolata multicolore.

    La cena stava volgendo al termine e l’atmosfera rilassata. I gettoni sui tabelloni indicavano chiaramente la vittoria di un poeta che aveva declamato una poesia satirica poco prima. Jona pensò oziosamente che doveva aver perso parecchio nella traduzione, visto che a lui era sembrata piuttosto scialba e sboccata, ma aveva fatto ridere fino alle lacrime quasi tutti gli altri. Peccato.

    L’arrivo di un grande carrello pieno di bicchieri viola e granata provocò un’ondata di eccitazione. Anche Jona si fece attento, cercando di capire: “Che succede?” mormorò all’amuleto.

    “Come tutti sapete, agli ospiti graditi viene concesso il diritto di prima scelta. Solo per una volta”, aggiunse guardando il Mago negli occhi.
    “Che devo fare?” chiese lui vagamente a disagio.
    “Semplice: devi prendere due bicchieri uno granata per te e uno per la persona con cui vuoi passare la notte; viola per una donna, granata per un maschietto.”
    Jona era imbarazzatissimo e si rendeva conto che l’intera sala stava godendo, sia pur bonariamente, della sua goffaggine. Si alzò lentamente e, mentre si avvicinava al carrello sibilò all’amuleto: “Che c’è in quei bicchieri?”
    “Oltre ad acqua, una certa dose di alcool e aromi vari, disinibenti ed esaltatori della libido.”
    “Ossia afrodisiaci?”

    Il cuore di Jona perse un paio di colpi, ma i suoi piedi non persero il passo. Arrivò al carrello e prese con decisione due bicchieri di diverso colore, poi, senza girarsi, chiese: “Posso scegliere chiunque?”
    “Chiunque sia in questa sala”, confermò Tyla.

    Jona si voltò lentamente e, mentre tornava verso il suo posto, fece scorrere gli occhi nella sala, indugiando sulle ragazze più carine, poi, parlando a bassa voce in modo che solo i vicini potessero udirlo: “Se posso scegliere “chiunque”, perché accontentarsi?” offrì un calice viola alla Sacerdotessa.

    Tyla rise: “Sei un bel marpione, Mago!”, poi, abbassando anche lei la voce:
    Vuotò il suo bicchiere in un sorso mentre Jona centellinava il suo.
    “Continuate pure senza di noi!”, disse poi ad alta voce mentre usciva a braccetto con Jona.

  • Massaggio

    “Questa è la tua cella, per tutto il tempo che vorrai rimanere al Monastero”, disse l’accolito aprendo un uscio disadorno, “il bagno è dietro quella porta. Puoi rimanere qui fino all’ora di cena. Le tue cose dovrebbero essere già nello stipo.”
    Jona si guardò attorno. La stanza era molto piccola, ma aveva l’aria comoda. La maggior parte dello spazio era occupato dal letto e da uno scrittoio posizionato strategicamente sotto la finestra a bifora. Lo stipo era un recesso nel muro nel quale erano incastrati sei ripiani su cui qualcuno avevo appoggiato le sue bisacce, dopo averle pulite. Una pesante tenda di velluto riparava i ripiani dalla polvere.
    Due sedie completavano l’arredamento.
    “Dopo la doccia ti consiglio un bel massaggio rilassante; se vuoi ti mando la massaggiatrice, tra un po’”

    Il bagno fu una sorpresa. Era grande quanto la cella e molto luminoso. Una parete era completamente a specchi e questo lo faceva sembrare ancora più grande.
    La vasca era di una sostanza dura che sembrava ceramica, ma non fredda al tatto. C’era anche una specie di lettino con cuscini cerati, probabilmente per resistere all’umido. La normale attrezzatura era tutta in bell’ordine, dal sapone al rasoio. C’erano anche una serie di creme e unguenti che non riuscì a identificare; avrebbe dovuto chiedere all’Amuleto di tradurre le scritte.
    Più tardi. Ora un bel bagno sembrava davvero invitante.
    La vasca si rivelò comoda e l’acqua era calda e abbondante.

    “Arriva qualcuno”, lo informò l’Amuleto pochi istanti prima che la una mano decisa bussasse alla porta della cella.
    Jona era ancora sotto la doccia, anche se aveva finito da un pezzo di sciacquarsi. Chiuse il getto dell’acqua e afferrò l’asciugamano appeso lì accanto.
    “Arrivo!”, disse a voce alta, mentre si gustava un’altra sorpresa: l’asciugamano era caldo! Si avvolse voluttuosamente e si avviò vero la porta che si aprì per rivelare una donna tarchiata e dall’aspetto deciso seguita da una ragazzina di dodici o tredici anni dall’aria vagamente spaurita.
    La donna indossava la tunica bordeaux di Dionne con una cinta verde, il colore di Asclep, mentre la ragazza aveva una tunica bianca stretta in vita da una fascia bordeaux. Forse un’apprendista.
    “Dovevo far vedere i massaggi rilassanti a Helga, quindi me la sono portata appresso”, disse la donna con un’aria spiccia che si intonava perfettamente al suo aspetto, “spero non ti dispiaccia.”

    Mentre parlava l’aveva squadrato da capo a piedi con aria professionale, parve soddisfatta dell’esame e si rivolse direttamente a Helga: “Vedi?” disse indicando i piedi e poi le gambe di Jona che spuntavano da sotto l’asciugamano. Istintivamente lui si chinò per vedere che cosa avesse attirato l’attenzione della massaggiatrice, ma quella lo bloccò con un secco: “Stai dritto e girati!”
    Lo specchio gli rimandò l’immagine delle due donne alle sue spalle. La più anziana continuava a indicare qualcosa e l’altra annuiva, poi, finalmente, si rivolse a lui:
    “Grazie.”

    “Tu, Helga, stai attenta: quando ho finito devi dirmi esattamente che cosa ho fatto e perché.”

    Jona si aspettava un vigoroso massaggio come quelli di Smullyanna, ma sbagliava di grosso. Le mani della donna erano forti, ma eccezionalmente gentili e delicate, scioglievano i nodi di tensione senza romperli.

    Quando, molto tempo dopo, lo ricoprì con un altro asciugamano caldo Jona la ringraziò con un inchino, poi si rivolse a Helga con un sorriso: “Visto che la tua insegnante è di poche parole, me lo spieghi tu “cosa ha fatto e perché”? Questo genere di massaggio non l’ho mai visto prima e vorrei imparare anch’io, ma non so se ho gli occhi allenati come i tuoi.”
    La ragazzina lo guardò con due azzurri occhi spalancati, inghiottì due volte, poi decise che non la stava prendendo in giro e cominciò a elencare, impettita e serissima, contando sulle dita della mano: “Prima di tutto ha fatto un drenaggio linfatico degli arti inferiori. Avevi i piedi edematosi per essere stato troppo in piedi.” Diede una rapida occhiata alla maestra, “anche se credo che molto del gonfiore fosse dovuto al bagno caldo”, si illuminò al cenno di assenso e proseguì spedita:
    “Bene!” disse la Maestra, poi, rivolta a Jona: “Grazie. Helga è molto brava, ma è sempre stata troppo timida. La domanda fatta da te la ha aiutata. Quando la interrogo io finisce spesso per impappinarsi. Io sono Brigitte e dirigo la scuola di massaggio qui al Tempio.”

  • Il Monastero di Dionne

    La “Terra dei Monasteri”, come l’avevano chiamata sia l’Amuleto che Afro, non avrebbe potuto essere più diversa da quella che aveva appena lasciato così precipitosamente. Tutto era pulito e ordinato in modo quasi maniacale. La locanda dove prese alloggio quella sera non era solo pulita, era linda e senza la benché minima macchia, nonostante l’allegria e la birra abbondassero.

    La Bussola puntava dritto a sud ovest, verso le basse montagne. Le strade erano poche, ma molto ben tenute e pavimentate con dei lastroni regolari di una pietra che Jona non aveva mai visto. Il cammino si rivelò rapido e piacevole.

    Due giorni dopo era di fronte al monastero di Dionne, un’enorme struttura squadrata, alta quattro piani, con un grande portone intagliato attraverso il quale si intravedeva un ampio piazzale interno.

    L’ago della sua bussola puntava deciso verso l’ingresso. Jona scese da cavallo e si avviò a piedi, pensando di confondersi nel viavai incessante che passava dal portale.

    Non era ancora arrivato al portone che due accoliti, riconoscibili dalla veste color bordeaux, gli si avvicinarono a passo svelto: “La sacerdotessa la aspetta! Da questa parte, prego.” disse quello più anziano mentre l’altro afferrò le briglie del cavallo dicendo: “A lui ci penso io, vedrai che si troverà bene.”

    Jona non oppose resistenza e si lasciò condurre mentre i suoi occhi e la sua mente assorbivano i particolari di quel posto.
    Come nel resto del paese tutto era pulito e ordinato, il cortile molto ampio e vi si svolgeva una specie di mercato. Un gran numero di carretti erano disposti in file più o meno ordinate e su ognuno mercanzie, alcune delle quali Jona non riuscì a identificare.
    Attraversarono il piazzale in diagonale e si infilarono nell’ingresso principale: un’ampia porta chiusa da grandi vetri. Una doppia scalinata a spirale di marmo bianco conduceva ai piani superiori.

    Le scale erano ampie e comode; costruite per l’uso, non solo per rappresentanza. All’ultimo piano percorsero un breve tratto dell’immenso corridoio, una balconata chiusa anch’essa da vetri che percorreva l’intera lunghezza del monastero. Poi una porta si aprì e apparve una donna sulla cinquantina sorridente e coperta da una veste dell’immancabile color vino, complicata e piena di panneggi che le avviluppavano completamente il corpo: “Salute e allegria a te, pellegrino Jona. Io sono Tyla, la Sacerdotessa”, disse accennando al suo amuleto che si confondeva con il colore del vestito.
    “Salute e allegria a te, Sacerdotessa”, rispose con la formula rituale Jona, “non mi aspettavo di essere ricevuto con tanta sollecitudine.”
    Lei rise di cuore:

    Lo precedette nella stanza. Era un ufficio non molto diverso dal suo studio. Rimase sorpreso dalla quantità di libri, forse anche più di quelli che aveva lui, che non erano pochi.
    Con la coda dell’occhio colse uno strano movimento dell’accolito che lo aveva accompagnato fin lì. Che stava facendo? Si toglieva le scarpe? La sacerdotessa era a piedi nudi. Il pavimento di legno lucido era immacolato. Jona si chinò e si slacciò i pesanti scarponi sperando di non aver lasciato già troppe orme su quella superficie linda come uno specchio.
    La sacerdotessa annuì esprimendo la sua approvazione.

    Si erano appena seduti sul divano semicircolare che abbracciava il basso tavolino ingombro di carte che l’accolito porse loro un vassoio con alcuni pasticcini e due tazze di un liquido denso e scuro.
    “Attento, è molto calda”, lo avvertì la sacerdotessa prendendo la sua tazza e tuffandoci dentro un biscottino bislungo.
    Jona la imitò. Il contenuto della tazza era una via di mezzo fra un liquido molto denso e una crema molto morbida. Si aggrappava al biscotto ricoprendolo di uno spesso strato marrone fumante. Il sapore era dolce e delizioso, diverso da qualsiasi cosa avesse mai mangiato.
    Tyla studiava le sue reazioni.
    “Splendida. Non la conosco. Che cos’è?”
    “E un dono di Dionne per questo monastero. Si chiama cioccolata.”

    Jona venne a sapere che i vari monasteri fungevano non solo da scuole, ma anche da vere e proprie unità produttive.
    Qui, oltre che coltivare le arti, delle quali Dionne era la protettrice, si producevano molte derrate alimentari, si preparavano conserve e si riforniva di bevande buona parte del circondario. La vita qui a nord, gli spiegò la sacerdotessa, si svolgeva al chiuso per buona parte dell’anno. Dalla fine di agosto fino ad aprile l’inverno la faceva da padrone, con abbondanti nevicate che rendevano difficili gli spostamenti. Il tempo, nonostante gli fosse sembrato tanto rigido, era stato in realtà particolarmente benevolo quell’anno. Solo qualche pioggia, ma niente tempeste e temperature tutto sommato accettabili anche per un abitante dei climi caldi come lui.

  • Olimpo

    Ipno, hai visto quanto accade sul Grande Fiume?” Sussurrò Dana.
    ”, rispose il Dio con aria meditabonda, “hai ragione, potrebbe essere l’occasione che aspettavamo.
    Non è troppo presto? Non sappiamo ancora come andrà l’altra metà dell’esperimento.
    E allora? Questo non ci ha mai impedito di cominciarne di nuovi. Lascia che Thano si diverta e prepariamo una bella tempesta.
    Dobbiamo chiedere a Posse?

  • Attraversamento del Rin

    Jona sbucò dal boschetto proprio di fronte al guado. Il fiume era immenso e in quella terra piatta si vedeva a malapena l’altra sponda.

    Urla non troppo lontane lo fecero voltare.
    “È meglio se ci sbrighiamo, sono troppi per affrontarli.”
    A Jona bastò un’occhiata al drappello a cavallo che si era lanciato verso di lui per capire che l’Amuleto aveva perfettamente ragione. Spronò il cavallo e si diresse dritto verso il guado.
    Gli inseguitori, vedendo quello che faceva, si misero a sghignazzare e si aprirono a ventaglio per impedirgli di ritornare sui suoi passi. Il cavallo intanto dava segni di sempre maggiore irrequietezza.
    “Ma che hanno da ridere?”
    “Pensano di averti intrappolato, ma non sanno che la barriera di Zeo è stata aperta per te. Anche il cavallo ha paura, anche lui non sa.”

    Sulla riva il cavallo si fermò mentre i suoi inseguitori rallentavano sicuri di averlo ormai intrappolato. Jona piantò i tacchi nei fianchi del cavallo costringendolo a balzare nell’acqua. Gli scheletrici cavalieri che lo inseguivano rimasero interdetti, poi vedendo che non succedeva nulla spronarono anche loro i cavalli e ripresero l’inseguimento con urla belluine.
    Jona continuò a incitare il cavallo per mantenere la distanza, anche quando l’acqua si fece più alta e la corrente minacciava di trascinarli via. Toccò la sponda mentre i cavalieri erano ancora in mezzo al guado.

    Proprio mentre usciva dall’acqua sentì una forte scossa e un dolore lancinante in tutto il corpo, anche il cavallo dovette sentirlo perché con uno scarto improvviso si portò sulla riva. Il dolore sparì come era venuto.
    I suoi inseguitori non furono così fortunati. La barriera di Zeo era nuovamente attiva e loro si contorcevano urlando mentre la corrente li trascinava via.
    “Non c’è niente che tu possa fare”, disse l’Amuleto.
    “E non ho nessuna intenzione di provare, anche se non mi piace vederli morire così. Dove dobbiamo andare adesso?”
    “A cercarci una bella locanda. Qui si può!”
    Jona ci pensò su un attimo, poi: “Vuoi dire che se fossi approdato direttamente sulla riva sinistra mi sarei risparmiato tutto questo?”

    “Fai strada!”

  • Un fantasma a cavallo

    Jona era di nuovo in sella, salutò Reginald con una stretta di mano. Non c’era bisogno di altro. Erano rimasti insieme alla fattoria per più di una settimana e oramai il ragazzo era diventato un giovane uomo che nascondeva sul petto uno strano amuleto di cui non si erano mai visti uguali: era per metà rosa, ma l’altra metà era nera e bordeaux. Chissà se quel seme sarebbe riuscito a germogliare in una terra tanto ostile.

    Il tempo era bello ma Jona sapeva che non sarebbe durato, cercò quindi di affrettarsi a raggiungere nuovamente il Rin. Mentre viaggiava usò molto l’occhio del cielo per studiare quel posto. Passò vicino a una grande fortezza stretta d’assedio dall’esercito della città rivale. Visti da vicino assedianti e assediati si assomigliavano molto: erano tutti stanchi, sporchi e soprattutto affamati, mentre tutto intorno i campi giacevano abbandonati. Jona scosse la testa per la centesima volta; ma cosa speravano di guadagnare in quel modo?
    Conosceva il meccanismo perverso attraverso il quale l’odio generava altro odio e qui sembrava veramente che solo distruzione totale potesse porre fine alla spirale.

  • Raccogliere i cocci

    Jona aveva visto tutto. L’aura rosata che l’amuleto di Afro aveva aggiunto alle immagini non era riuscita a ingentilire l’orrore di quella morte inutile. Spronò il cavallo e si lanciò all’inseguimento del ragazzo.

    Non procedeva in linea retta, probabilmente aveva neppure idea di dove stesse andando, di sicuro voleva allontanarsi da quella scena di morte che avrebbe portato scolpita negli occhi finché fosse vissuto.

    Pochi minuti dopo Jona intuì qual era la destinazione del ragazzo. Presto l’intuizione divenne certezza.
    “Come sta? È in grado di ragionare?”
    “Non credo, è ancora sotto choc.”

    L’Amuleto non rispose, ma la solita striscia gialla comparve davanti a lui. Jona accelerò l’andatura e seguì quella traccia nella notte.

    “Reginald può sentire, ma non credo che ti ascolterà”, disse l’amuleto di Afro, “Sto cercando di calmarlo, ma ancora non reagisce; è in stato di choc.”
    “Lo credo bene! Anche se deve aver già visto più morti ammazzati lui alla sua età di quanti ne abbia visti io in tutta la mia vita.” Poi, cambiando voce, si rivolse direttamente al ragazzo: “Reginald, rallenta, nessuno ci insegue. Pensi forse che lei vorrebbe vederti buttare così la tua vita? Se tu ti rompi l’osso del collo in un fosso chi la ricorderà?”

    Jona continuò parlare e nel frattempo faceva del suo meglio per evitare di rompere il suo osso del collo mentre seguiva la traccia gialla alla fioca luce dell’Amuleto.

    Il ragazzo non gli rispose mai, ma l’amuleto di Afro gli disse che incominciava lentamente a calmarsi. Poi arrivarono a destinazione. Aveva pochi minuti di vantaggio su Reginald e li impiegò per assicurarsi che non ci fosse nessuno nei dintorni. La fattoria era buia e vuota.

    Jona si piazzò a sbarrare l’ingresso.
    “Quando arriva cerca di fare un po’ di luce. Voglio che capisca dov’è.”
    L’Amuleto doveva avere un debole per le messe in scena teatrali: non appena Reginald sbucò nei campi coltivati, ormai invasi dalle erbacce, si produsse uno spettacolo pirotecnico di luci rosse, gialle e rosa. In un altro momento Jona avrebbe sorriso, ma adesso gli parve decisamente di cattivo gusto.
    “Bene, ora sei arrivato. Cosa intendi fare ora?” Chiese Jona abbassando il cappuccio per permettergli di vederlo bene in viso.

    Reginald parve svegliarsi in quel momento: “Chi sei?”, chiese mentre si guardava intorno.
    “Io sono Jona il Mago, e vorrei aiutarti, se me lo permetti.”
    Reginald finalmente capì dove l’avevano portato le zampe del suo cavallo. Cercò di smontare, ma incespicò e finì a terra e lì rimase, scosso dai singhiozzi.
    Anche Jona scese e abbracciò il ragazzo senza parlare; sapeva benissimo che le parole erano completamente inutili. Sperò che il contatto fisico potesse aiutarlo.

    Rimasero così per parecchio tempo, sotto una pioggia che era diventata sottile e insistente.
    Lentamente il ragazzo si sciolse in un pianto liberatorio. Jona sapeva di dover fare ancora parecchie cose quella notte, ma non poteva affrettare i tempi.
    Non appena gli parve che si fosse calmato un po’ chiese ai due amuleti di farlo scivolare in un sonno senza sogni.
    Jona era ancora robusto, ma trasportare quel ragazzone muscoloso più alto di lui fino al fienile lo lasciò senza fiato.
    Raccomandò all’amuleto di Afro di fare buona guardia e uscì di nuovo nella pioggia.

    Tornò che il sole doveva essere già alto, anche se non si vedeva nascosto com’era dalle nuvole nere che si in rincorrevano in cielo. Aveva smesso di piovere, ma lui era bagnato fino al midollo, intirizzito e stanco: “Comincio a essere troppo vecchio per queste cose”, pensò mentre scendeva con il suo involto su una spalla.
    Depose il corpo di Magda su un tavolo, sotto quel che restava del pergolato e cercò di ricomporlo nel modo migliore. Non provò nemmeno a nascondere la macchia rossa sul suo petto, ma fece del suo meglio perché i suoi lineamenti avessero un’espressione serena.

    Sapeva che Reginald stava ancora dormendo e che avrebbe continuato a dormire fino a che gli amuleti l’avessero voluto. Ora forse poteva prendersi qualche minuto per sé. Non aveva senso rischiare una polmonite.
    Entrò nella casa e accese un fuoco. La battaglia, se c’era stata battaglia, dove essere stata breve perché quasi tutto era in ordine. Oh, certo, qualunque cosa avesse valore era stata portata via, ma il resto, incluse le stoviglie, erano ancora lì quasi in ordine.
    Mise bollire l’acqua per lavarsi e per preparare il caffè e poi andò a prendere dei panni asciutti.

    Pulito, asciutto e con una tazza di caffè nello stomaco si sentì decisamente meglio. Guardò sconsolato le sue scorte che, nonostante le economie stavano scemando. Non ne aveva più trovato da quando era partito. Da aspettarselo, si disse, visto che arrivava dalle terre del sud, oltre il mare e lui se ne stava allontanando sempre più. Scrollò le spalle: ora aveva altri problemi.
    Era ora di svegliare Reginald. Lo disse all’Amuleto mentre versava due tazze e si avviava verso il fienile.

    Trovò Reginald seduto sul pagliericcio dove lo aveva lasciato.
    “Buongiorno Reginald”, gli disse passandogli una tazza.
    Il ragazzo lo guardò dubbioso poi chiese: “Che cos’è?”
    “Caffè. Bevilo. Ti farà bene.”
    Reginald bevve lentamente, senza staccare gli occhi dalla tazza, come sperasse di trovare le risposte alle sue domande nelle volute di vapore. Solo quando la tazza fu vuota la appoggiò per terra e, guardandolo dritto negli occhi, chiese a Jona: “Non è stato un incubo, vero?”
    “No, temo proprio di no.”
    “E adesso che faccio?” gli occhi rimasero asciutti, ma erano vacui, sperduti.
    “Per prima cosa direi che devi rimetterti un po’ a posto; sembri un pulcino bagnato. Poi devi occuparti di Magda.”
    “Di Magda?”
    “Si, di Magda. Io ho recuperato il corpo, ma darle una sepoltura degna è compito tuo.”

    Reginald si alzò e fece per uscire dalla porta, Jona lo bloccò: “No, non ci si presenta così alla persona amata, neanche se è morta. Aspetta qui.”
    Tornò dopo pochi minuti con un secchio d’acqua e la bisaccia dei vestiti che Reginald aveva appeso alla sella del suo cavallo. Lo costrinse a lavarsi e a rivestirsi di tutto punto, prima di lasciarlo uscire.

    Lo fece lavorare come un matto per due giorni filati per preparare il funerale, ma soprattutto per impedirgli di pensare. Solo quando l’ultimo tizzone della pira che aveva consumato il corpo di Magda si spense gli poggiò una mano sulla spalla e gli disse: “Bene. Questa è fatta. Ora puoi anche permetterti di pensare a quel che devi fare domani. Io non posso rimanere ancora molto qui. Tu, se vuoi, puoi venire con me, ma deve essere una tua scelta.”
    Il ragazzo ci pensò su, poi scosse la testa:

    Jona si alzò e si diresse verso la fattoria: “Vieni, è inutile rimanere ancora qui al freddo. Prima che riparta è bene che parliamo un po’. Ho idea che, più che chiedere aiuto ad Afro, tu debba parlare con Ipno e Dionne.”
    “E chi sono?”