Author: mcon

  • Sotto il mare

    La mattina dopo Serna era alla Cala del Granchio ben prima del sorgere del sole. Si trattava di una lunga spaccatura larga una decina di metri, incassata nell’alta falesia. Era quasi buia e il pescatore che l’aveva accompagnata con la sua barca a remi aveva imprecato più di una volta contro il maroso che tentava di portarli contro gli scogli. L’aveva lasciata sulla spiaggetta sassosa ed era ripartito come avesse le orche sulla sua scia
    Serna si aggiustò il mantello leggero che aveva portato. L’umidità della notte lo stava bagnando e lei cominciava ad aver freddo. Il cielo era oramai chiaro, ma la cala era ancora in ombra tanto che Serna non si accorse dell’arrivo dello strano pesce fino a quando questo non si arenò sulla spiaggia. Aveva un corpo nero e affusolato e un’enorme testa trasparente e rotonda che sembrava una boccia di vetro. Il pesce aprì la bocca e tirò fuori una lunga lingua rossa che arrivò fin quasi ai piedi di Serna. L’invito era esplicito. Serna salì sulla lingua che era dura e ruvida; non cedette di un millimetro sotto il suo peso.
    Appena salita, la lingua si ritirò e la bocca, se era una bocca, si richiuse. Serna era in una bolla sferica di un materiale trasparente che sembrava vetro, ma non lo era. Lei era in piedi su quella lingua rossa che sembrava un pavimento e non si vedevano né gola né denti
    Lo strano pesce cominciò ad arretrare e presto fu di nuovo completamente in acqua. Procedette a ritroso fino a che non trovò spazio sufficiente per permettergli di girarsi, quindi tornò al mare aperto. La volta azzurra si chiuse sopra la sua testa e Serna ebbe un attimo di terrore, ma nella bolla l’aria rimase fresca e asciutta. Si rilassò e allentò la presa dal tubo che correva tutto attorno alla bolla e al quale si era aggrappata quando il “pesce” si era girato, ondeggiando lievemente. L’attenzione di Serna fu attratta dal mondo che la circondava.

    Stava viaggiando a pochi metri dal fondale che scorreva veloce sotto i suoi piedi. Tutto stava diventando azzurro. Gli altri colori svanivano lentamente per lasciar spazio solo al colore del mare. Le rocce della costa lasciarono presto posto a foreste di posidonie che ondeggiavano languidamente al maroso.
    Continuarono a scendere seguendo il fondale fin dove divenne pianeggiante. Era molto scuro e si distinguevano appena i particolari. La superficie, lassù, era lontanissima. Il fondale, prima dominato da grandi massi staccatisi dalla scogliera, ora si stava facendo più piatto e i pesci più rari e più grossi. Serna stava cercando di capire in che direzione stessero andando, anche se era quasi certa che il suo vascello stesse correndo verso la famosa secca. La posizione del sole confermava la direzione. Serna si rilassò cercando di godersi il viaggio. Molto presto il pesce ricominciò a salire e la velocità di nuoto diminuì di rapidamente. Già arrivati? Evidentemente sì. Le piccole pinne sulla coda del suo pescione si agitavano meno furiosamente, ora e la bolla che la conteneva scivolava pigramente fra enormi nuvole di pesci di tutti i colori e di tutte le dimensioni.

    La secca era un enorme panettone che si alzava dal fondale. La bolla stava risalendo lentamente a spirale verso la cima.
    Serna aveva fatto un po’ di ricerche la sera prima e Dana le aveva spiegato che molti dei pesci di quei mari avevano bisogno di fondali poco profondi per deporre le uova. Quella era la stagione della riproduzione e, infatti, si vedevano nuvolette di migliaia di pescetti, avannotti nati da poco, che si inseguivano e si nascondevano fra l’alta vegetazione per sfuggire a rapaci predatori che si avventavano su chi si attardava.
    Improvvisamente la scena cambiò, le alghe erano ammonticchiate e morte, il fondale arato. I branchi di grossi pesci c’erano ancora, ma gli avannotti erano scomparsi. Le reti?
    Le reti”, confermò la voce di Posse al suo fianco.
    Serna sobbalzò. Posse stava nuotando senza sforzo accanto a lei.

    Ma non pescheranno a lungo se non permettono ai pesci di riprodursi!
    “Quando è l’epoca della riproduzione?”
    Ragazza, non fare la furbetta con me. So benissimo che ti sei documentata
    “Scusa. Non intendevo mancarTi di rispetto, volevo solo lasciare che Tu esprimessi il Tuo Volere.”
    Farò finta di crederti: per questi pesci qui il periodo critico è Aprile-Maggio, ma, comunque, la vegetazione ci mette parecchio tempo a ricrescere. Devo vietare la pesca con le reti a strascico per tutto l’anno.
    Serna era delusa, aveva sperato di riuscire a contrattare una sospensione della pesca per un paio di mesi. Ai pescatori non sarebbe piaciuto, ma potevano sopravvivere, poi quello che Posse aveva detto arrivò a segno: “quindi possono usare le reti fisse?” chiese speranzosa.
    Non da fine Marzo a metà Aprile quando le femmine sono cariche di uova.
    “E per la pesca con gli ami?”
    Quella possono farla anche tutto l’anno, se vogliono, basta che li usino abbastanza grossi da non prendere i giovani
    “Sono sicura che i pescatori non Ti deluderanno.”
    Ho i miei dubbi. Avvertili che non mi interessa che cosa usano o perché, ma se qualcuno fa di nuovo qualcosa che assomiglia a questo farò del mio meglio per usarlo come cibo per i miei sudditi!” disse con voce minacciosa allargando le braccia.
    Serna era rimasta concentrata sul Dio e non si era accorta che si erano fermati nel bel mezzo della secca, a pochi metri dalla superficie. La sabbia bianca copriva tutto il fondale. Non c’era ombra di vegetazione e solo qualche predatore passava veloce.
    Ci vorranno anni perché questo posto torni a essere verde.
    Serna abbassò il capo come se fosse una sua colpa personale.
    “Farò del mio meglio”, bisbigliò.
    E io darò forza alle tue parole, cara ragazza” rispose Posse con la voce più gentile che Serna gli avesse mai sentito usare.

  • Affrontare Posse

    Serna e Tarasso imboccarono la lunga scalinata che portava in cima al promontorio dove torreggiava il Tempio di Posse.

    Camminavano con passo spedito; non è il caso di far attendere un Dio, specialmente uno irascibile come Posse. Ognuno era chiuso nei suoi pensieri. Serna stava utilizzando la scala per gli esercizi di concentrazione che suo padre le aveva insegnato: coordinare il movimento delle gambe con la respirazione, mantenere l’attenzione sul “punto”: quella zona del basso ventre da cui sembrava scaturire tutto il movimento. In breve tempo l’ansia scomparve assieme ai pensieri coscienti e lei era pronta ad affrontare Posse

    Posse apparve nell’istante stesso in cui entrarono nella cella interna del tempio, senza bisogno di invocazioni.

    Era chiaramente furibondo, tanto che l’aura blu che lo circondava non riusciva a nascondere compiutamente il colorito paonazzo del suo viso.

    Questo scempio deve finire!” attaccò rivolto direttamente a Serna.
    I pescatori devono capire che il Mare non è loro; devono rispettarlo. Il Mare è generoso, ma ha i suoi diritti, come li hanno gli abitanti del Mare!
    Posse continuò la sua invettiva per un certo tempo, mentre Serna taceva, ascoltava e aspettava il momento adatto per intervenire.
    Una cosa era chiara: i pescatori avevano fatto qualche danno con le loro reti in quella famosa secca, Posse ne aveva vietato l’uso, ma qualcuno aveva provato a ignorare il divieto. Più di questo, dalla filippica di Posse, Serna non riuscì a cavare.

    Serna approfittò di una breve pausa per intervenire.
    “Anch’io non capisco e Ti chiedo umilmente di aiutarmi a capire.”
    Ma continuano a distruggere senza curarsi di capire!
    “Io non sono una pescatrice e il mio Ufficio è capire!” intervenne Serna con improvvisa veemenza.
    Posse la guardò con occhi nuovi: “Va bene: se vuoi capire ti darò i mezzi per capire. Domani all’alba vieni alla cala del granchio.
    “Ci sarò!”
    Posse la guardò in modo strano: “Lo credo bene”, disse lentamente, “non sembri una ragazza stupida.
    Serna sentì un brivido lungo la schiena.

  • I Pescatori di Tigu

    Posse era appena svanito e ancora aleggiavano nell’aria gli echi della sua rabbia.
    Serna era accorsa al molo appena aveva sentito il brontolio minaccioso della voce del Dio.
    Il suo studio non era lontano dal porto, ma quando era arrivata Posse era alle battute conclusive:
    Interrogò con lo sguardo Sullo, un omaccione grande e grosso che dettava legge nel porticciolo.
    “Abbiamo trovato i resti della barca dei Pardi, Signora”, disse con un’aria mogia che non gli si addiceva, “completamente distrutta. Un Fulmine Celeste, credo”.
    C’era dell’altro. Serna lo sapeva e aspettò pazientemente.
    “Erano andati a pescare alla secca”, disse come se questo spiegasse tutto.
    Serna sapeva che avevano scoperto da poco un secca, parecchio al largo, che era molto pescosa, ma non capiva ancora che fosse successo. Decisamente le mancavano informazioni. Stava per chiedere qualcosa quando vide Sullo alzare lo sguardo e fissare qualcosa alle sue spalle. Si girò e vide Tarasso che si avvicinava a grandi passi.
    “Vi avevo avvertiti!” Gridò rivolto ai pescatori assembrati, “ma voi niente! Se non ci scappa il morto non siete contenti. Eppure dovreste sapere che con Posse non si scherza. Pescare con le reti in quella secca non si può. Lo ha vietato.”
    Serna cominciava a capire “Perché lo ha vietato?”
    “Posse non è stato molto chiaro nemmeno con me,”rispose Tarasso direttamente a Serna, “ha detto che con le reti finiremo per non avere più pesci perché distruggono più di quello che raccolgono. Sinceramente non mi sono azzardato a chiedere spiegazioni; era già abbastanza infuriato.”

    “Noi dobbiamo dar da mangiare alle nostre famiglie!” Saltò su un pescatore cercando di aggirare la mole di Sullo che lo fulminò con un’occhiata.
    “Gengi ha ragione”, convenne poi guardando dritto Tarasso, come se fosse colpa sua,
    “Beh, ora le famiglie dei Pardi staranno meglio, vero?” ritorse Tarasso, provocando un brontolio minaccioso dalla piccola folla di pescatori.
    “Sei sicuro che siano le reti a dar fastidio a Posse?” intervenne Serna, più per interrompere la discussione che era avviata su una pessima china che perché avesse effettivamente qualcosa da dire.
    “Sì”, rispose Tarasso rendendosi conto di aver esagerato, “su questo è stato chiarissimo”.
    “Beh, allora proviamo a chiedere a Festo se ci può dare qualche alternativa”, propose Serna tirando fuori il suo Amuleto dalla tasca del grembiule.
    “Festo, chiediamo il Tuo consiglio ed il Tuo Aiuto!”
    Festo non si fece attendere a lungo. L’Amuleto cambiò colore e: “Chi ha bisogno della mia Arte?
    “Sono io, Serna figlia di Jona e Dania, che ti invoco. Posse ha proibito l’uso delle reti, ma i pescatori devono pescare. Puoi suggerirci qualche altro modo?”
    Perché Posse ha proibito le reti?
    “Dice che distruggono più di quello che raccolgono”, spiegò Serna cercando di ripetere quello che le aveva detto Tarasso con le stesse parole, sperando fossero quelle che aveva usato Posse.

    “Ma con gli ami si pesca poco!” intervenne una voce da dietro Sullo.
    Sullo, Serna e Tarasso si voltarono per vedere chi fosse che osava interrompere un Dio.
    Festo, che fino a quel momento era stato solo una voce incorporea, apparve con il suo viso affilato sopra l’Amuleto e guardò dritto verso Serna: “Cara ragazza, io non sono imbecille e con gli imbecilli non parlo.” Dopo di che, senza dire altro, scomparve. L’Amuleto riprese il suo normale colore giallo.
    Serna chiuse gli occhi, prese un gran respiro e poi esplose: “Bravi!” Urlò con quanto fiato aveva, “Avete fatto arrabbiare Posse e ora volete mettervi contro anche Festo? Perché non pensate, prima di parlare? Farete esattamente quello che dice Lui. Per ora si pesca con canna, lenza e amo.”
    Si girò a guardare Sullo negli occhi e, per un istante, sembrò sovrastarlo, anche se era trenta centimetri abbondanti più bassa di lui: “Tu sei responsabile. Nessuno deve usare le reti, almeno non nei pressi di quella stramaledetta secca!”
    Si girò verso Tarasso ignorando completamente i pescatori: “Intanto noi dobbiamo cercare di capire come uscire da questa situazione; puoi chiedere udienza a Posse per me?”

  • Serata di riposo Elfico

    Jona seguì l’infermiera fino alla sua stanzetta dove lei gli mostrò l’uso corretto della vasca da bagno e delle varie suppellettili, poi lo lasciò solo.
    L’acqua era profumata e calda. Impregnata di essenze vegetali. Ora Jona sapeva che si trattava del contenuto della pianta-cisterna, probabilmente modificata per usi ospedalieri, pensò oziosamente, chissà se era anche disinfettante? Avrebbe dovuto chiedere a Gornor. Per un momento lo disturbò il pensiero che il suo sudore, che si stava sciogliendo nell’acqua odorosa assieme alla stanchezza, andava a concimare la pianta-pompa che avrebbe riportato l’acqua alla pianta serbatoio, poi si rese conto che quello era il mestiere che facevano tutte le piante, in un modo o nell’altro: assorbire rifiuti per produrre frutti.

    Stava per addormentarsi quando getti d’acqua lo investirono e la vasca prese a vuotarsi rapidamente. La doccia violenta lo svegliò completamente. Poco dopo usciva dal bagno fresco e rilassato avvolto in un pigiama verde che non gli si attagliava completamente bene.
    L’infermiera lo stava aspettando e gli fece cenno di stendersi sul letto. All’occhiata interrogativa di Jona rispose con un laconico: “Massaggio”.
    La ragazza aveva delle dita d’acciaio e il “massaggio” fu, tutto sommato, piacevole, anche se parecchio energico e inframmezzato da torsioni e piegamenti forzati, tanto che Jona, più di una volta, si chiese se le sue ossa avrebbero retto alle sollecitazioni. Quando poi lei gli salì in piedi sulla schiena e cominciò a camminargli in punta di piedi sulla spina dorsale facendogli scrocchiare tutte le vertebre una per una si preoccupò parecchio. Lei dovette accorgersene perché lo apostrofò con un perentorio: “Rilassati, altrimenti non serve a niente!” Jona fece del suo meglio per accontentarla, dato che era evidente che conosceva bene il suo mestiere. La parte finale del massaggio, a base di oli caldi, fu decisamente più rilassante. Alla fine lei lo coprì con una morbida coperta e gli disse di rimanere immobile per una decina di minuti, prima di rivestirsi. La cena sarebbe stata pronta presto. Nelle due ore abbondanti che era durato il massaggio lei aveva parlato solo tre volte e Jona mai.
    Si rimise la casacca del pigiama e indossò una vestaglia lunga fino al polpaccio, poi tolse l’Amuleto dal bastone, lo piazzò sul tavolo e chiese il collegamento con casa.
    Serna apparve dopo poco con indosso un abito leggero. Era oramai estate piena e a casa doveva far parecchio caldo. Lì sui monti l’aria era ancora fresca. D’inverno doveva essere gelida, pensò Jona e lo disse ad alta voce.
    “Qui fa caldo, ma si sta benissimo”, disse Serna raggiante, “oggi sono stata in barca tutto il giorno.”
    “In barca?”
    “Lavoro! Che ti credi?” replicò lei fingendosi offesa.
    “Un lavoro certo piacevole”, ribatte Jona guardando fisso la pelle di Serna arrossata dal sole.
    “Questo è vero”, concesse lei sorridendo, “ma è stato lo stesso lungo e difficile”.
    Serna era evidentemente orgogliosa del suo “lavoro” e moriva dalla voglia di raccontare ed avere l’approvazione del padre, questi se ne accorse e chiese particolari con l’aria più professionale che riuscì a trovare.
    Lei non si fece pregare: “Abbiamo ancora problemi con Posse”.
    “Un altro capitano da buttare ai pesci?”

    “Puoi dirlo forte! Ha incenerito le barche dal cielo. Abbiamo trovato solo qualche pezzo di legno carbonizzato.”
    “Brutta storia, ma è chiaro che la hai risolta. Come?”

    “Già, prima spiana chi lo offende e poi, forse, spiega perché.”
    Serna annuì: “Non voleva nemmeno parlarmi. Ho dovuto chiedere a Ipno di spiegarmi i veri motivi e di calmarlo, per quanto possibile.”
    In quel momento rientrò l’infermiera con il vassoio della cena.
    “Altro pasto ipercalorico proteico tipo “B”?”
    Lei sfoderò un sorriso che mise in mostra dei denti decisamente più appuntiti del normale: “No, stavolta viene direttamente dalle cucine del Re. Il Sacerdote ha deciso che ti sei ripreso completamente.”
    In effetti Jona aveva una fame da lupo. Poi si rese conto di una certa tensione, anche perché il sorriso si era trasformato in una specie di ruggito silenzioso.
    “Serna, lo sai che non è educato guardare troppo le persone!” disse con il tono più casuale che riuscì a trovare,

    “Probabilmente perché non ti è mai stato detto. Di solito cerchiamo di evitare familiarità fra personale e pazienti.” Poi si rivolse direttamente a Serna che si era ripresa abbastanza da chiudere la bocca e abbassare lo sguardo: “Io sono Smullyanna, assistente personale del Sacerdote. Piacere di conoscerti.”
    Poi, rivolta a Jona:
    “Il mio e il suo. I due Amuleti sono in comunicazione e possono farci vedere anche quello che sta attorno”
    “Capisco. Così è più normale. Non avevo mai sentito di Amuleti che potessero trasmettere a distanza con questa nitidezza.”
    “Sentite, ora che abbiamo fatto le presentazioni, perché non andate a prendere qualcosa da mangiare anche voi e mi tenete compagnia? Non mi è mai piaciuto mangiare da solo.” L’Elfa rimase un attimo interdetta e Serna ne approfittò per schizzare via cinguettando: “Certo! Vado a prendere qualcosa e torno! Magari chiamo anche Darda.”
    Smullyanna non era molto convinta. Jona diede un’occhiata al vassoio.
    L’elfa si rilassò un po’: “Non è certo la norma, ma non hai offeso nessuno, per ora, anche se tua figlia c’è andata vicino. Da noi non si guarda a quel modo qualcuno di cui non si conosce il nome senza presentarsi. Senza saperlo hai fatto la cosa giusta. Vado a prendere un altro piatto e delle posate.” Vedendo che Jona stava per parlare aggiunse: “Per noi mangiare nello stesso piatto è una cosa piuttosto intima, se mi capisci”, annusando ostentatamente.
    Jona capiva. Probabilmente con l’olfatto acuto che avevano erano in grado di percepire ben più degli umani gli odori lasciati dagli altri commensali.

  • Visita al cantiere

    Era solo la seconda volta che passava sull’alta passerella fra i due palazzi, ma Jona sentì distintamente una maggiore familiarità, tanto che si azzardò a guardarsi attorno. Il panorama era veramente splendido: da lassù, vicini alle chiome degli enormi alberi, non si vedeva quasi il cielo, in compenso si vedeva tutta la valle snodarsi verso sud-ovest. Una posizione ideale per godersi il sole fino al tramonto.

    “Meglio non guardare troppo in basso, le prime volte.”
    “Va già molto meglio. Comunque sto attento a non guardare direttamente giù.”
    “Il Re non mi è sembrato molto contento di vedermi qui.”
    “Che ti aspettavi? Abbiamo sempre avuto problemi con gli umani. Cercano costantemente di espandersi abbattendo le nostre foreste. Quando non riescono a tagliare gli alberi gli danno fuoco per far pascolare le loro dannatissime vacche!”
    Jona rimase zitto. Sapeva bene che la maggior parte degli “Umani” consideravano le foreste solo come un luogo da depredare. Nel migliore dei casi, come facevano i boscaioli più a sud, ripiantavano qualche alberello dopo aver tagliato quelli grandi. Anche in questo caso Jona sospettava fortemente che la capacità persuasiva dei vicini Elfi avesse una parte rilevante in questa attenzione verso i bisogni delle foreste.
    “Ma voi non tagliate nulla?” si azzardò a chiedere adocchiando il panorama, più simile a un giardino ben tenuto che una valle montana.
    “Certo che tagliamo, ma piantiamo anche e, soprattutto, usiamo la foresta cercando di preservarla. In realtà noi dipendiamo dalla foresta molto più di quanto la foresta dipenda da noi. Certo, potremmo distruggerla facilmente, ma perderemmo i suoi doni.”
    “Ma come fate? Intendo dire: prendiamo questi alberi-casa. Sono evidentemente artificiali, uno diverso dall’altro e sicuramente “progettati”, ma al tempo stesso, sembrano assolutamente naturali e “cresciuti” così. Non c’è segno di sega, colla o chiodi!”.
    Gornor rise. “Sì, capisco che, a prima vista la cosa possa sembrare così, ma quelli che tu chiami alberi-casa sono, in realtà piccole foreste composte da centinaia, a volte migliaia di alberi di molte specie diverse, anche se quello che vedi sono, per la maggior parte, “piante del falegname”.”
    “”Piante del falegname”?”
    “Uhm, forse farti vedere come si coltivano le case può essere una buona idea. Ci sarà un po’ da camminare, visto che le zone qui intorno sono già completamente costruite, ma penso ne valga la pena. Vieni.” Allungò il passo costringendo Jona quasi a mettersi a correre, cosa non facile con quei vestiti addosso.
    “Già completamente costruite” era da intendersi in un senso completamente diverso da quello a cui era abituato Jona fin dall’infanzia. I due enormi palazzi gemelli, infatti, erano circondati da una fitta serie di abitazioni, botteghe e magazzini, ma poco oltre c’era solo foresta. In Ligu la terra adatta a costruire case era abbastanza rara e molto più sfruttata. Lo disse a Gornor.
    “Sì, lo so che agli umani piace ammassarsi tutti assieme. A noi no. Sappiamo bene che ci sono degli ottimi motivi per lavorare assieme, sia per il governo, sia per la ricerca — il Palazzo e il Tempio servono a questo — ma poi abbiamo bisogno di spazio. La mia casa è a due leghe dal tempio, in quella direzione” disse indicando vagamene verso est. Jona si chiese oziosamente se si trattasse di un altro tratto derivato dai felini, animali prevalentemente solitari: “Vivete in famiglie isolate?”
    “Non abbiamo famiglie, almeno non nel senso che voi umani date alla parola. Ogni Elfo è autosufficiente.”
    “Ma i bambini?”
    “I bambini crescono con la madre fino a che sono piccoli, poi vengono adottati dalla comunità e rimangono in gruppo fino a quando non diventano adulti e decidono dove andare a vivere. I giovani che sono nati qui intorno vengono al tempio per imparare, altrove ci sono altri templi o altre comunità. Tutte hanno scuole per i ragazzi.”
    Era almeno mezz’ora che camminavano senza vedere nessuno.
    “Forse sarebbe stato meglio cambiarci d’abito, prima di metterci in cammino. Io non sono agile come un Elfo e questi vestiti non sono esattamente comodi, almeno per me!” sbuffò Jona a un certo punto.
    Gornor rallentò leggermente il passo. “No, è meglio così. Quest’abito ti qualifica come un amico degli Elfi rispettato dal Re. Gli umani non sono molto ben visti, da queste parti.”

    “Da Selinar: è una giovane che ha lasciato il gruppo dei ragazzi sei mesi fa. Lavora al tempio ed è molto innovativa. Troverai sicuramente interessante la casa che sta costruendo.”
    “La costruisce da sola?”
    “Certo! La casa è una delle cose che ogni Elfo deve fare da sé. Non ci sono due case uguali. Ogni casa esprime la personalità del proprietario; cresce e cambia con lui. Spero che sia in casa”, disse fermandosi, “Selinar!!”
    “Maestro!” rispose una voce sopra di loro.
    Una ragazza che Jona giudicò avere intorno ai diciott’anni si precipitò giù lungo quelli che lui aveva creduto essere tronchi crollati e che invece si rivelarono essere una stretta rampa d’accesso a un padiglione aereo. Balzò a terra e corse verso il Sacerdote. Poi si bloccò di colpo quando vide meglio Jona. Le orecchie le si accartocciarono all’indietro come quelle di un gatto infuriato.
    “Chi porti a casa mia, Maestro?” chiese scandendo le parole.
    “Chiedo il permesso di mostrare a questo Cercatore di Thano il tuo lavoro, se così ti piace”, rispose Gornor in tono formale. Avevano invaso il territorio di Selinar, pensò Jona, e adesso dovevano farsi accettare.
    I due intrusi rimasero assolutamente immobili mentre Selinar squadrava Jona da capo a piedi. Le orecchie di Selinar ripresero la solita forma e Jona si azzardò a guardarla direttamente. Era una bella ragazza con dei lunghi capelli biondi raccolti in una grossa treccia che le arrivava quasi alla vita. Portava un comodo abito da lavoro di morbida pelle marrone.
    “Un Cercatore di Thano?” C’era curiosità nella voce.
    “Sì. Ne abbiamo parlato.” L’Amuleto, sempre al suo posto sul lungo bastone, si presentò con una serie di lampi cremisi che fecero vibrare le orecchie di Selinar. Jona abbassò il bastone, facendo ben attenzione a non puntarlo verso nessuno, in una posizione che sperava non fosse minacciosa. Le orecchie di Selinar gli comunicarono che c’era riuscito.
    “Siete i benvenuti nella mia futura casa”, disse finalmente.
    Gornor ancora non si mosse:
    “Selinar, vuoi spiegare a Jona come stai costruendo la tua casa? Ricorda che lui non sa molto delle nostre foreste. Pensa di avere davanti un bambino piccolo.”
    Selinar guardò Jona dubbiosa, poi cominciò indicando i sette alberi chiari disposti ad esagono regolare che sostenevano il padiglione aereo: “Questi sono la prima cosa che ho piantato qui, sei anni fa. Ho scelto il terreno con cura e li ho concimati tutte le settimane. Quando sono in rapida crescita gli alberi del falegname hanno bisogno di molte cure. Venivo qui più spesso possibile.” Diede una rapida occhiata verso il Sacerdote che sbuffò: “E, per venire qui, hai rischiato di farti espellere dalla scuola del Tempio. Hai imparato ad aspettare il momento giusto per le cose, ora?”
    Selinar assunse un’aria contrita: “Spero di sì, Maestro.”
    “E a cosa dobbiamo questo notevole risultato?” chiese Gornor con pesante sarcasmo.
    “Ho provato ad accelerare i tempi e ho provocato due crescite contemporanee sull’albero centrale; stava per morire.”
    Gornor sgranò gli occhi già tondi di natura: “Sei riuscita a salvarlo?”
    “A malapena. Ho dovuto suturare una delle due crescite e non so quando potrò farla ripartire.”

    Jona stava capendo poco, a parte che Selinar era stata troppo impaziente e aveva combinato un qualche guaio. Intanto avevano salito la rampa, estremamente stretta, almeno per lui, gli altri due non sembravano avere alcun problema. Ora si trovavano su una piattaforma triangolare tesa tra tre degli alberi che Selinar aveva indicato. Aveva circa sei metri di lato e si trovava ad una decina di metri da terra. La successiva piattaforma triangolare era rialzata di circa mezzo metro, e la successiva ancora di altro mezzo metro, e così via. In questo modo fra i sette alberi si veniva a formare una specie di gigantesca scala a chiocciola che formava stanze triangolari alte tre metri. Jona scalò faticosamente i gradoni arrivando a raggiungere gli altri due al secondo giro dove, finalmente, vide come crescevano le case.

    C’era una serie di passerelle e impalcature mobili che servivano a Selinar per lavorare. Incideva la corteccia e spandeva un liquido che promuoveva la crescita del legno. Questo cresceva anche trenta centimetri in un giorno quindi, in teoria, per chiudere lo spazio fra due alberi sarebbero bastati dieci giorni, facendo avanzare la parete linearmente, ma Selinar, non amava le cose semplici, e stava facendo crescere i suoi alberi in complesse spirali che, dopo sei mesi di lavoro, erano arrivate a saldarsi solo per le pareti laterali del primo giro, mentre il secondo era ancora un arabesco con ampi spazi da cui ammirare il cielo. Guardando bene le pareti già complete Jona si rese conto che il complesso disegno che aveva creduto essere solo la vena del legno era, in realtà, dato dall’accrescimento e dalle saldature delle varie parti che Selinar aveva curato con amore. Non c’erano due pareti che avessero lo stesso disegno. I pavimenti erano ottenuti con una tecnica simile. Questa volta si praticavano le incisioni sulle pareti e queste crescevano nella direzione voluta. Jona cominciava a capire come fossero state fatte quelle scale “cresciute” dalla parete là a Blanzoon.
    Sul pavimento, vicino alla parete esterna, c’erano svariati fori, evidentemente intenzionali e non risultanti da saldature incomplete, Jona ne chiese la ragione e Selinar si lanciò in una lunga dissertazione sulla dislocazione dei servizi. Il Mago fece del suo meglio per seguirla, ma la mole di particolari che Selinar gli riversava addosso, ora che aveva preso confidenza ed era orgogliosa di spiegare i particolari del suo progetto, era semplicemente troppo. Jona attivò i suoi filtri mentali e si fece un’idea abbastanza chiara della massa di vegetali che venivano impiegati con funzioni specifiche: c’erano piante-tubo che potevano trasportare acqua o aria (ed erano diverse!), piante che fungevano da serbatoi, piante-pompa che succhiavano acqua dal terreno e la portavano anche a cinquanta metri d’altezza fino alle piante serbatoio, piante che assorbivano l’energia solare per scaldare acqua o aria, funghi parassiti che emettevano luminosità di vari colori e perfino una strana pianta carnivora che era in grado di digerire quasi qualsiasi sostanza organica e veniva utilizzata come gabinetto chimico che produceva sostanze fertilizzanti e le condivideva poi con le altre piante.

    Jona era impressionato e lo disse. Selinar era raggiante. Jona si guardò bene dal far notare che la fonte della sua meraviglia era molto più la dovizia e la specializzazione dei simbionti vegetali usati che le raffinatezze architettoniche della giovane, delle quali, con dispiacere, doveva ammettere di non aver capito molto.

    Era tardo pomeriggio quando salutarono Selinar e presero la via del ritorno.
    Jona stava rimuginando tutto quello che aveva visto. Gornor lo lasciò ai suoi pensieri.
    Quando arrivarono al tempio era quasi buio e la strada era illuminata da innumerevoli funghi-lampada disseminati nella foresta. Gornor riconsegnò uno Jona molto stanco all’assistente-infermiera. Prima di salutare Jona si azzardò a chiedere: “Quelle piante non sono “naturali”, vero? Sono un dono di Asclep?”.
    “No, non sono “naturali”, ovviamente, ma, per la maggior parte, sono state progettate da noi, con la benedizione di Asclep, naturalmente.”
    Jona rimase di sasso. “Da voi?”

  • Il Re degli Elfi

    Il Sacerdote fece strada su per una scala ricavata in un’intercapedine della parete esterna — ovverosia nella corteccia, pensò Jona, strano dover attribuire nomi botanici a costrutti architettonici e viceversa. La scala spiralava verso l’alto illuminata da finestre a forma di foglia. Giunti in cima imboccarono una delle strade aeree. Jona ebbe un momento di panico. Erano molto in alto, gli elfi che correvano sul terreno sotto a loro sembravano piccole marionette e la passerella non aveva protezioni. Gli Elfi di certo non soffrivano le vertigini.
    In realtà non c’era il minimo pericolo: il camminamento sembrava stabilissimo ed era largo più di un metro e mezzo. Jona sarebbe riuscito a passare anche da ubriaco. Si costrinse a guardare davanti a sé e a camminare deciso.
    La passerella, solida e stabile come roccia, li condusse con un arco aggraziato fino al palazzo del re.

    Il re li stava aspettando in quello che pareva essere uno studio privato.
    “Così questo sarebbe l’umano che Thano ci manda?” Chiese il re rivolto al Sacerdote, dopo che un anziano elfo ebbe declamato qualcosa che l’Amuleto non si curò di tradurre.
    “Per Servirvi, Maestà”, rispose Jona senza dare al Sacerdote il tempo di parlare.
    Il re lo guardò direttamente, chiaramente infastidito dalla sua presenza: “Sono spiacente per il viaggio scomodo, per gli standard umani, ma l’Innerwald è sacro per tutta la Nazione, oltre che per Asclep nostro Padre. Nessuno vi penetra mantenendo il ricordo di come arrivarci.”
    “Capisco, Maestà, e non tutto il male viene per nuocere. Sono arrivato molto più in fretta di come avrei potuto fare usando solo le mie gambe. Ringrazio Voi e gli Elfi che hanno dovuto caricarsi addosso le mie vecchie ossa.”
    “E cosa volete da Noi, umano?” chiese il Re, un pochino meno arcigno.
    “Sinceramente non lo so, Maestà.” disse Jona tenendo bene in vista il suo bastone in cima al quale brillava l’Amuleto, “Thano mi impone di andare e, a quanto pare, devo trovare qualcosa nel tempio di Asclep”, la Bussola puntava infatti decisa verso il tempio, come aveva sempre fatto sin da Blanzoon, “Chiedo quindi il permesso di visitarlo e di rivolgere domande”.
    “La volontà di Thano verrà rispettata”, disse Falanor lentamente, “devo ammettere che i Cercatori di Thano non ci hanno mai dato veri problemi. Non loro, a differenza di quasi tutti gli altri umani che sono penetrati nei nostri territori.”
    Jona ebbe la netta sensazione che gli Elfi dovessero aver provato a fermare qualche Cercatore. Probabilmente una sola volta.
    “Confido che Gornor saprà guidarvi nella vostra Ricerca. Che Asclep sia con voi.”

  • Il Risveglio

    Jona si svegliò con il sorgere del sole. Lo avevano lasciato a dormire ben più delle ventiquattr’ore previste.
    Si alzò di scatto. Si sentiva completamente riposato e tutti i dolori erano spariti.
    Non sarebbero bastate solo ventiquattr’ore.
    “Amuleto, quanto ho dormito?”

    “Quasi sessanta ore.”
    Due giorni e mezzo! Doveva essere veramente distrutto! Poi notò i flaconi e le cannule appese vicino alla testa del letto e si palpò le braccia. Come previsto nel cavo del gomito sinistro c’era la traccia di un ago. Lo avevano tenuto sedato.
    Esplorò la porticina che aveva notato e si trovò in un piccolo bagno. Lo specchio gli rimandò l’immagine di un viso fresco e pulito. Dovevano averne approfittato per fargli un bel bagnetto. Anche la barba sembrava appena rifatta, e probabilmente lo era. Decisamente un servizio di prima classe. Fece una smorfia. Avevano la tendenza a essere un po’ bruschi e autoritari, però.
    Quando uscì trovò l’Elfa del giorno prima — di tre giorni prima, si corresse — ad aspettarlo. Aveva in mano dei vestiti di un bel colore rosso.

    Stavano di nuovo forzando la mano, ma Jona si sentiva troppo bene per darci peso. Poi gli venne un sospetto: “Amuleto, sono ancora sotto effetti di qualche droga?”
    “Non credo. Dovresti aver completamente smaltito tutto quello che ti hanno pompato in corpo. Se ti senti un po’ euforico è solo perché sei in perfetta forma fisica, considerando l’età.”
    “Che mi hanno fatto?”
    “Un po’ di tutto, compresa una quantità incredibile di fisioterapia — e qui sono molto più attrezzati che da voi, anche se Asclep ha cercato di insegnare un po’ ovunque, come ben sai. Ti hanno massaggiato e rigirato per quasi tutto il tempo che sei stato addormentato. Prova a fare un piegamento.”
    Jona si curvò verso il pavimento cercando di mantenere le gambe dritte. Con sua sorpresa riuscì a toccare il pavimento con le palme delle mani. Erano parecchi anni che non ci riusciva più. L’Elfa sorrise: “Non avrai più bisogno di aiuto per lavarti la schiena, almeno per un po’.” L’Amuleto aveva parlato solo per Jona, ma il gesto era stato eloquente.
    “Serve aiuto con questi?” chiese appoggiando i vestiti sul letto.
    “Non credo”
    Lei lo guardò di traverso, ma uscì senza commentare.

    Gli abiti che gli aveva portato erano abbastanza diversi da quelli che aveva visto finora. Probabilmente si trattava di abiti da cerimonia o qualcosa di simile.
    Oltre a indumenti intimi abbastanza normali c’erano una camicia dalle ampie maniche di un tessuto pesante e un po’ rigido, un paio di pantaloni larghi e con dei lunghi legacci in vita e quello che sembrava essere una via di mezzo tra una giacca e un mantello. Jona non aveva la minima idea di come indossarli.
    “Amuleto, come si usa questa roba? Lo sai?”
    L’Amuleto emise un suono che poteva essere solo uno sbuffo di impazienza e fece apparire un modellino che rappresentava Jona vestito di tutto punto con i suoi abiti nuovi. Jona non mancò di notare che i legacci erano fissati con nodi complicati e artistici.
    “Bello. Come faccio per arrivare lì?”
    Il modellino mostrò Jona con la lunga camicia da notte che indossava ora e cominciò a sfilarsela. Jona stava per dire: “lo so come ci si toglie una camicia da notte!” ma si morse la lingua. Aveva già capito che il resto della lezione non sarebbe stato altrettanto semplice.
    Aveva appena finito di allacciare l’ultimo legaccio della giacca e stava infilandosi le sue scarpe leggere — non c’era nessuna possibilità di usare le scarpe elfiche — quando l’infermiera rientrò. Gli occhi da gatta gli si fecero ancora più rotondi per lo stupore mentre esaminava i particolari della vestizione senza trovare nulla da eccepire. L’Amuleto aveva convenientemente fatto sparire il modellino e Jona si poté godere un’occhiata ammirata. Aveva la certezza che la sua prodezza sarebbe stata raccontata in giro presto, molto presto.
    “Spero che queste vadano. Abbiamo dovuto farle fare apposta”, disse alla fine dell’esame porgendogli un paio di scarpe elfiche fatte per il suo piede. Erano senza calcagno e con uno strano snodo che permetteva di alzarsi facilmente in punta dei piedi. Jona non ebbe difficoltà a infilarle. Non erano certo comode per un plantigrado come lui, ma aveva portato di peggio.

  • Riposo

    Jona stava lottando per rimanere in piedi. Prima che perdesse la battaglia e la faccia il sacerdote lo prese familiarmente sotto braccio e, parlando sommessamente, lo condusse attraverso il portale a ogiva che dava accesso alla grande sala delle udienze del tempio, poi voltò bruscamente a destra e si infilò in uno stretto corridoio.
    “Non cercare di camminare da solo. Considera un successo il semplice fatto di essere riuscito a stare in piedi finora. Uomini molto più giovani di te non sarebbero sopravvissuti al viaggio.” Jona faceva fatica a camminare normalmente. Le gambe continuavano a cercare di saltare, ma, senza il sostegno degli elfi, non sarebbe riuscito nemmeno a scendere un gradino. Fortunatamente non ce n’erano. Il sacerdote lo guidò per un paio di brevi corridoi poi entrò in una stanzetta che aveva tutta l’aria di essere uno studio medico.

    Lo fece stendere sul lettino. Jona fece per protestare ma era debole come un gattino e l’elfo era abituato a trattare con i malati recalcitranti. Lo palpò leggermente tenendo gli occhi fissi sul suo Amuleto verde. Jona ebbe una fitta al cuore riconoscendo i gesti di sua moglie. Che stava facendo ora? Trasalì quando il sacerdote batté le mani.
    “Signore?” Un’Elfa alta e sottile era comparsa come per magia al suo fianco.
    “Pasto ipercalorico proteico tipo B, poi tisana calmante per ventiquattr’ore di sonno. Il nostro amico ha bisogno di riprendersi. Idratazione.”
    “Non potete mettermi a dormire per un giorno intero”, cercò di protestare Jona. Il Sacerdote lo guardò fisso negli occhi: “Pensi veramente di essere in grado di ragionare? Hai da smaltire tante di quelle tossine, e non solo di stanchezza, che non so se un giorno di sonno basterà. Meglio essere in forma per l’udienza con Re Falanor, non credi?” Jona sapeva che aveva ragione. L’assistente lo prese delicatamente sotto braccio e lui riuscì a seguirla senza appoggiarsi troppo.
    “Bell’aiuto mi hai dato”, disse rivolto all’Amuleto mentre si lasciava guidare verso una stanzetta con un letto, un tavolino e una deliziosa finestra a sesto acuto che lasciava filtrare la luce attraverso un vetro decorato con mille sfumature di verde.
    “Ho controllato costantemente i tuoi parametri. Non hai mai corso pericoli. Questa corsa, anzi, ti è servita a rimettere un po’ di tono in quei muscoli che stavi lasciando inflaccidire. Quando ti sarai ripreso sentirai d’avere dieci anni di meno.”
    Jona rispose con un improperio che l’Amuleto non si curò di tradurre, ma fece fremere le orecchie dell’infermiera che, pur senza capire le parole sentì il tono e gli lanciò un’occhiata di riprovazione molto professionale.
    Jona le sorrise serafico: “Allora? Arriva questo “pasto ipercalorico proteico tipo B”? Effettivamente ho un po’ fame.”
    Lei lo guardò dubbiosa e uscì per tornare subito dopo con un vassoio su cui si trovavano tre grosse tazze. Sorrise alla sua evidente delusione: “Cosa credevi? Cervo arrosto con salsa di marroni? Dovevi andare al tempio di Dionne per quello.”
    Jona sapeva benissimo che non sarebbe riuscito a tenere nello stomaco niente di complicato, ma non lo disse.
    Le tre brodaglie non erano, in realtà, male.

  • La corsa

    Lo lasciarono a marcire per due giorni completi.

    Jona fece esercizio di pazienza e cercò di riposare, ma si sentiva in gabbia, e lo era.
    All’alba del terzo giorno, quando scese deciso a sollevare un cancan pur di farsi ascoltare, trovò l’altro Mago ad aspettarlo. Come al solito gli elfi andavano e venivano senza fare il minimo rumore.
    “La richiesta di recarti nell’Innerwald è stata accettata.”
    “Era ora!” sbottò lui, felice del cambiamento, ma non del tutto ammansito.
    “Devi capire che, nonostante quello,” ribatté l’Elfo guardando fisso l’Amuleto di Thano, “non si penetra tanto in territorio elfico senza autorizzazione. Re Falanor ha dato la sua autorizzazione, ma non mi è sembrato molto contento di darla, se capisci quel che voglio dire.”
    “Capisco, e credo di capire anche parte delle ragioni dietro la sua esitazione, ma star rinchiuso qui dentro, anche se con la pancia piena e riposato, non è piacevole. Specialmente quando nessuno si degna di dirti che cosa succede”, aggiunse con una punta di rimprovero.
    “Comunque sia: ora stai per partire. Facciamo colazione insieme.”
    Mangiarono rapidamente, con Jona che cercava di far parlare l’Elfo e quello che rimaneva sul vago, ripetendo che alle sue domande avrebbero risposto quando fosse arrivato nell’Innerwald.
    Quando ebbero terminato Jona raccattò lo zaino e il suo mantello.
    “Di quello non avrai bisogno, per ora. Anzi è meglio che ti metta qualcosa di più leggero, se non vuoi scoppiare di caldo.”
    Jona lo guardò stupito. Sapeva perfettamente che l’aria era fresca tutto il giorno e che la mattina era, a dir poco, frizzante, ma non fece commenti. Cambiò la pesante giacca con una camicia senza maniche e i pesanti pantaloni di pelle con comode braghe di tela. Quando ebbe finito di riporre la sua roba nello zaino, l’elfo lo afferrò, se lo mise su una spalla e disse: “Andiamo!”
    Trovarono quattro Elfi ad aspettarli sul ramo-ponte-levatoio. L’aria era gelida, ma anche loro erano vestiti leggeri.
    Riattraversarono il doppio ponte levatoio e Jona fu di nuovo fuori da Blanzoon senza aver potuto vedere nulla del suo interno. Su un largo camminamento aereo, dove al suo arrivo c’erano gli arcieri di scolta, adesso c’era una piccola folla di curiosi, in mezzo alla quale Jona vide alcune persone con abiti cerimoniali.

    Due Elfi lo presero delicatamente da sotto le ascelle e cominciarono a correre.
    Jona cercò di seguire, ma andavano troppo veloci per le sue gambe. Fu brutalmente trascinato per parecchi metri, poi, senza rallentare, i due elfi lo rimisero in piedi. Correvano con lunghi balzi elastici che lui non avrebbe potuto sognare di imitare nemmeno a vent’anni, figurarsi a sessanta. Si appoggiò alle braccia che lo sostenevano e cercò di usare le gambe solo per mantenere l’equilibrio. Andava meglio, ma aveva bisogno di tutta la sua attenzione solo per rimanere in piedi.
    Perse la cognizione del tempo. I polmoni gli bruciavano e il cuore andava all’impazzata. Le spalle erano un nodo di dolore. Si fermarono solo due volte per bere e scambiarsi i ruoli: due lo trasportavano, uno apriva la marcia e uno seguiva con i bagagli in spalla. Jona pensava di morire da un momento all’altro, ma arrivò la sera e si fermarono su un albero-casa in mezzo alla foresta dove riuscirono a fargli mandar giù una brodaglia dolciastra prima che crollasse con la faccia nel piatto.
    Non ricordò mai come fosse arrivato sul letto, ma ricordò chiaramente che lo svegliarono che era appena l’alba. Mangiarono delle focaccette dolcissime con qualcosa che sembrava latte, ma non avrebbe saputo dire di che animale, poi ripartirono al galoppo.
    Il viaggio durò sei giorni e solo durante l’ultimo Jona si riprese abbastanza da riuscire a guardarsi attorno senza il bisogno di rimanere costantemente concentrato sul movimento dei suoi piedi. Era in una bella valle dove i grandi pini lasciavano spesso posto a grandi alberi-casa e alle strade aeree che li collegavano. L’insieme sembrava ordinato e progettato, come se ogni singola foglia fosse lì perché lì qualcuno l’aveva voluta. L’insieme era bellissimo e completamente alieno
    Stavano risalendo la valle e gli alberi casa si facevano sempre più ravvicinati.
    Oramai c’erano elfi dovunque, anche se non si vedevano gli affollamenti delle città umane. Gli Elfi avevano bisogno di spazio, come tutti i cacciatori, pensò Jona.
    Oramai erano arrivati. Davanti a loro si ergevano due enormi alberi casa gemelli. Solo il colore era diverso: uno era completamente verde e l’altro sembrava d’argento. Erano così grandi da far sembrare un fragile fuscello l’albero che lo aveva ospitato a Blanzoon. Questi erano veri e propri palazzi.
    Le sue guide si diressero verso il palazzo verde dove rimontarono senza rallentare una rampa larga come una strada maestra. In cima li aspettava un Elfo completamente paludato di verde che accolse Jona con un asciutto sorriso: “Benvenuto al tempio di Asclep, umano.”
    I guerrieri elfi gli restituirono zaino e bastone prima di inchinarsi al sacerdote, girarsi all’unisono e ripartire di corsa. Jona dovette appoggiarsi al bastone per rimanere in piedi e la sua voce uscì stridula quando ricambiò il saluto: “Salute e onore a te e al tuo Dio, Elfo.”

  • La prigione

    Jona fece il giro dell’albero-casa. Si trovava in una specie di cortile interno recintato da siepi. Siepi simili a quelle esterne: un muro compatto di spine aguzze lunghe anche quindici centimetri.

    “Amuleto, la siepe non è troppo vulnerabile al fuoco?”
    “Molto meno di quanto possa sembrare: i rami vecchi e le spine sono essenzialmente silicee. Bruciano malissimo e, anche completamente carbonizzate, rimangono molto solide. Devo?”
    “No. Era solo curiosità. Non voglio certo farmi nemici gli Elfi, se posso evitarlo.”

    Il cortile era molto ampio e allungato, circa trenta metri per cinquanta, con l’enorme albero che torreggiava, con i suoi quasi dieci metri di diametro, a un’estremità. Non c’era altro. Il cortile era coperto da un verde tappeto erboso, assolutamente piatto. Anche le pareti dell’albero erano completamente lisce., coperte da una corteccia chiara simile a quella della betulla. Alzò gli occhi e vide, come si era, d’altra parte aspettato, diversi Elfi che brandivano i loro archi e pareva non vedessero l’ora di usarli. Meglio non dar loro scuse. Jona si ritirò nell’albero che ora gli parve assai meno allegro e interessante.

    Raccolse il suo zaino e cominciò a salire i gradini. Il buco scuro nel soffitto era un piccolo pianerottolo su cui si aprivamo tre porte, chiuse da pesanti tende imbottite in funzione di usci. Non ci mise molto a esplorare i suoi possedimenti; disponeva di due ampie stanze da letto gemelle e un bagno con servizi igienici separati.
    Decise di occupare utilmente il suo tempo: tolse i vestiti e si diresse deciso verso la stanza da bagno.

    Era strana. Parecchio strana.

    Tutto era di legno, e questo poteva anche essere, ma non si vedeva la minima giuntura. Sembrava che l’intera stanza, compresa vasca, lavandino e tutto il resto fosse stata ricavata da un unico blocco scavato e lucidato.

    Non era difficile indovinare la funzione delle varie suppellettili, anche se erano ben diverse da quelle che Jona conosceva.

    Quell’affare che troneggiava in un angolo era certamente una vasca da bagno, anche se assomigliava a un tino. Salì i tre piccoli gradini più adatti alle zampe degli elfi che ai suoi piedi e si calò dentro, usando come appoggio il sedile che si trovava all’interno. Poco sopra la sua testa c’era una protuberanza legnosa che assomigliava più a un capezzolo che alla cipolla di una doccia. Non si vedevano rubinetti. Era cedevole al tatto e, come Jona spinse, cominciò a uscire un fiotto di acqua tiepida che si fermò quasi subito. Il mago spinse con più decisione e il flusso rimase costante per alcuni minuti prima di tornare a fermarsi. Non somigliava alla doccia di casa sua, ma era funzionale.
    Jona passò molto più tempo del solito nel bagno, esplorando tutte le meraviglie che vi erano contenute. Poche cose non erano di legno: lo specchio, gli asciugamani, il sapone e poco altro.
    Quando uscì, oltre che pulito, sbarbato e profumato era anche assai meravigliato. Sembrava la casa fosse “cresciuta” in quel modo, più che essere stata costruita o scavata.
    Si rivestì e rimase a guardare l’attaccapanni al quale aveva, senza farci troppo caso, appeso il suo mantello: anche quello sembrava “cresciuto” dalla parete, come fosse una foglia o una spina e non applicato a posteriori.
    Poi scese di nuovo al piano inferiore.

    Sul tavolo c’erano due piatti fumanti, un bicchiere e due brocche.

    Guardò verso la porta.
    Una lieve oscillazione tradiva un’uscita precipitosa.

    Si slanciò fuori con tutta la velocità di cui era capace, ma lo accolse solo la notte, illuminata da bolle lucenti che costellavano gli alberi. Nessuno era in vista, nemmeno i suoi guardiani.
    Rimase qualche minuto a fissare le luci, ma non poté vedere molto perché l’alta siepe copriva tutto tranne le cime degli alberi più vicini.
    Faceva fresco. Rientrò al tepore dell’albero-casa, o, meglio, dell’albero-prigione, pensò mestamente.
    “Amuleto, fammi compagnia. Odio mangiare da solo e essere in galera non migliora il mio umore”, disse di malagrazia.

    L’Avatar rosso dell’Amuleto apparve. Era la solita figura incappucciata, ma a Jona parve più tenebrosa del solito.
    “Temo che dovrai farci il callo. Non credo che decideranno tanto in fretta. Non quando si tratta di autorizzare l’accesso all’Innerwald.”

    “Cambiamo argomento. Questo non è adatto ai pasti. Non ho mai visto una casa più strana. Tutto sembra naturale, ma l’insieme è ovviamente molto artificiale e sofisticato. Non ci sono finestre, ma l’aria è fresca e profumata. Fuori fa abbastanza freddo e il legno è un buon isolante, ma non mi pare sufficiente a giustificare il calore interno.”
    “Le finestre non ci sono proprio perché questo è un alloggio temporaneo, di sicurezza, per quelli, come te, considerati pericolosi intrusi. Gli Elfi prediligono i piani alti, di solito alla base degli alberi-casa ci sono stalle, magazzini e, a volte, botteghe. Le abitazioni sono molto più in alto. Hanno delle bellissime finestre con vetri decorati.”
    Jona evitò accuratamente di soffermarsi sulla sua condizione: “E per areazione e riscaldamento?”
    “Pensavo avessi notato le luci rosse al bagno e le fessure di aerazione.”

    Jona si guardò di nuovo intorno, seguendo lo sguardo dell’Avatar. Vicino al soffitto, sulle pareti, si vedevano delle fessure che lui aveva considerato un semplice ornamento. Ce n’erano altre vicino al pavimento. Jona mise la mano davanti alla più vicina e sentì una lieve corrente d’aria entrare. Senza dubbio quelle al soffitto servivano da sfiato. Oramai si era alzato e si diresse verso la scala, in modo da poter esaminare più da vicino i bulbi luminosi. Alcuni erano decisamente più rossi. Da un metro di distanza sentiva il calore sul viso.

    “Esatto, hai una buona memoria. Quelli in bagno sono molto più grossi. Gli Elfi non amano essere bagnati e stare al freddo.”
    “Strana scelta le montagne, allora. Qui non deve mancare né l’acqua né il freddo.”
    “Oh, se è per quello sono perfettamente in grado di sopportare entrambi, ma se possono stare al caldo lo fanno volentieri.”
    Jona, e non per la prima volta, pensò al suo grosso gatto nero. Fin da quando era un micio amava acciambellarsi in un angolo del grande camino fino a sembrare una palletta. Il nome era rimasto. Gli elfi glielo ricordavano parecchio. Gli erano sembrati goffi, esattamente come sembra goffo un gatto accoccolato sulle zampe posteriori.
    “Si sono evoluti dai felini?”

    “Non esattamente, ma hanno parecchi geni dei grandi felini.”

    “Linci?”, azzardò Jona.
    “Non lo so. Può essere, a giudicare dalle orecchie, ma è meglio non saltare alle conclusioni.”
    Anche lo stufato era buono, specie se annaffiato con quel vino ambrato che gli avevano portato. Jona si stava godendo la cena.

    Quando ebbe finito mise i piatti in disparte e chiese il collegamento con Serna.

    “Ciao papà! Dove sei?”
    Fece un rapido resoconto degli ultimi giorni. Quando arrivò alla conversazione con il Mago elfico l’Amuleto si produsse in una perfetta registrazione dell’evento e quindi Jona poté riesaminare il suo comportamento. Forse l’entrata era stata un po’ troppo teatrale, ma era comunque servita allo scopo.
    “Che vuol dire che: “non sei stato completamente sincero”, papà?”

    “Questo è tutto, più o meno. E tu, che mi racconti?” Serna era eccitata e Jona se ne era accorto.
    “Mi hanno invitata a Geva per le premiazioni.”

    “Premiazioni?”

    “Servigi resi al Granducato.” Serna lo stava deliberatamente tenendo sulle spine.

    “Va bene: che diavolo hai combinato? E, soprattutto, come sei riuscita a convincere il Granduca a non sbatterti nelle segrete e buttar via la chiave?”

    Serna non abboccò all’amo. L’indignazione era tutta fasulla: “Come ti permetti? Ho salvato la vita al Granduca in persona e a buona parte della famiglia!”
    “Perché non cominci dall’inizio, così, forse, riesco a capire qualcosa?”
    Serna era andata da Marlo e stavano discutendo di certe questioni riguardanti terreni lasciati incolti che erano stati ceduti, non era ben chiaro a che titolo, quando avevano visto il veliero personale del Granduca inclinarsi pericolosamente in mezzo ad alte onde che contrastavano con il resto del mare relativamente calmo.

    Serna si era precipitata sulla spiaggia cercando di parlare con Posse, evidentemente incollerito.
    “Cosa provoca la Tua collera, o possente?”
    Il capitano di quella nave!
    “Come Ti ha offeso?”
    Ha detto a tutti di poter portare la sua nave dove vuole, con o senza il mio permesso!
    “Idiota”, mormorò Jona fra i denti. Posse era ben noto per i suoi accessi d’ira e i marinai che lo dimenticavano non avevano una vita lunga. “Che hai fatto?”
    “Cercare di calmare Posse non aveva nessun senso. Anche ammesso che ce ne fosse la possibilità, ne mancava sicuramente il tempo. La barca del Granduca non poteva reggere ancora molto. Ho usato l’Amuleto per far apparire un messaggio al Granduca. Per fortuna erano abbastanza vicini”.
    “Che gli hai detto?”
    “La prima cosa che mi è venuta in mante: “Buttate a mare il capitano”!”

    “Mi dicono che è rimasto fermo al suo posto a recitare invocazioni per cercare di calmare Posse, ma quando sono sbarcati era ancora bianco come un lenzuolo di bucato e si reggeva a malapena in piedi. Gli altri non stavano certo meglio. Quando gli ho spiegato le ragioni dell’attacco di Posse è diventato rosso come un tizzone e voleva ripescare il capitano per strozzarlo con le sue mani.”
    “Quello che la nostra Maga non ti sta dicendo”, intervenne Darda,