12: Il Fiume

Baal

Jona si svegliò di soprassalto.
Il sole era molto alto.

Aveva temuto di non riuscire ad addormentarsi, data la tensione e la stanchezza, ma non era stato così.
Rotolò fuori dal letto, ripiegando il mantello che gli era servito da coperta.
“Buon giorno!” Lo salutò l’Amuleto.
“Buon giorno anche a te. Ti sei annoiato?”
“Non troppo. Ho controllato lo stato delle rapide. Tu dormivi come un bambino.”
“Infatti mi sento ben riposato”, disse stiracchiandosi e cominciando gli esercizi per sciogliere le articolazioni irrigidite dal sonno. “Siamo ancora a tempo per partire oggi? Non mi pare sia ancora mezzogiorno”
“Se ti sbrighi sì, anzi, penso sarebbe meglio, visto che tra non molto ci saranno altri che devono usare questo rifugio.”
Jona non fece commenti. Si stava abituando a quel vezzo irritante di dare consigli circostanziati senza spiegazioni. Sapeva per esperienza che insistere era inutile. L’Amuleto avrebbe spiegato se e quando gli fosse parso opportuno.

Finì rapidamente i suoi esercizi e si preparò in fretta, fece colazione con gallette e miele ed era pronto a partire.
La zattera era dove l’aveva lasciata. Un rapido giro d’ispezione mentre sistemava la sua roba a bordo gli confermò che tutto era in ordine.
Mentre si allontanava dalla riva, spingendosi con il suo lungo palo per guadagnare il filo della corrente un gruppo di elfi entrò nella radura reggendo sulle spalle qualcosa.
“Quello è l’”appuntamento” di Thano”, spiegò laconico l’Amuleto, “vengono per liberare la sua anima.”
Jona fece a tempo a notare l’asse che portavano e su cui era scritto un nome in caratteri rossi: “Audagor”, ma sembrava sostenere solamente un vecchio mantello; decisamente Thano non aveva lasciato molto, pensò con un brivido, poi l’ansa del fiume li nascose alla vista.

La corrente era vigorosa, ma regolare e la zattera procedeva senza troppe scosse.
“Siamo partiti senza preparazione. Che mi dici di queste famose rapide?”
“Niente che ti debba impensierire troppo, basta che tu segua la rotta”.
Una striscia gialla apparve al centro del fiume, poco lontano dalla zattera.
“Non discuto”, disse Jona mordendosi la lingua e manovrando per avvicinarsi a quella striscia, “ma preferirei ugualmente sapere che cosa mi aspetta.”
“Va bene.” Apparve l’Occhio dal Cielo che mostrava il fiume che faceva meandri in un’ampia pianura boscosa per poi incunearsi in un passaggio fra un’alta montagna e un collinotto roccioso che chiudeva la valle. L’occhio calò in picchiata sulla strettoia con una velocità tale da costringere Jona a stringere il remo per evitare di cadere per le vertigini mentre lo stomaco gli arrivava in gola.
L’Amuleto aveva tracciato una rotta che evitava accuratamente i gorghi e i buchi che costellavano le rapide.
Si poteva fare, ma di spazio per errori non ce n’era molto.

Jona si sedette al centro della zattera e posò il remo. Stancarsi per cercare di tenere la rotta migliore ora, era del tutto inutile.
Studiò accuratamente le immagini e discusse con l’Amuleto le ragioni di certe scelte, più per passare il tempo che per vera necessità.

Il sole era ben alto nel cielo del primo pomeriggio estivo quando Jona cominciò a sentire da lontano il rombo delle rapide; bevve un sorso d’acqua dal suo otre e si preparò.
Riguadagnò la striscia gialla e cominciò a seguirla vogando lentamente per mantenere il controllo della zattera che già cominciava a dar segni di nervosismo e smaniava per mettersi a girare su sé stessa.
Le rive del fiume si alzarono ai suoi lati e non ebbe più il tempo di pensare. Concentrato sulla striscia gialla davanti a lui aveva un solo scopo nella vita: non lasciarsela scappare, anche se si contorceva e cercava di nascondersi fra gli spruzzi.

Il sole stava accarezzando i dolci pendii dei monti a ovest quando si permise di alzare lo sguardo dalle onde.
La valle era larga alla sua sinistra.
Le rapide erano alle sue spalle.
Di fronte a lui, poco lontano, c’era un piccolo agglomerato di case. Strane, ma indubitabilmente umane.
Jona si diresse da quella parte.

Di fronte a quel gruppo di case ben tenute, in uno specchio di acqua calma, c’era un piccolo porto fluviale con un solido molo di legno al quale fissò la sua zattera, prima di prendere la sua roba e dirigersi verso quella che sembrava una locanda.
Le case erano tutte costruite con grosse travi che si intersecavano in modi complicati, gli spazi fra di esse riempiti di materiale intonacato a calce.

Vicino alla porta di ciascuna di esse c’era un’asta che recava un’insegna di ferro battuto. Jona si diresse verso quella che rappresentava un letto con sopra un enorme boccale. Difficile sbagliare.

La stanza aveva il soffitto basso ed era divisa in molte piccole alcove dagli innumerevoli travi e travetti che costituivano l’intelaiatura portante di quella casa. Cerano una decina di avventori divisi su tre tavoli, più un paio seduti su alti sgabelli vicino al bancone dietro il quale un omone con un grembiule di pelle nera stava spillando una birra chiara da una grossa botte.
Jona sentì qualche parola di una lingua dura e assolutamente incomprensibile prima che l’amuleto cominciasse, come al solito, la sua opera di traduzione:
“Benvenuto straniero, cerchi alloggio?”
Jona si trovò davanti un enorme boccale di birra schiumosa prima di avere il tempo di rispondere.
“Solo per stanotte. Ho bisogno di un posto per dormire e di qualcosa da mangiare.”
“Hai denaro?”
Jona fece rotolare sul tavolo alcune monete di rame.
L’oste fece un rapido calcolo, poi spazzò il bancone con una mano che sembrava un badile: “Stufato, patate e un altro boccale come quello. Dovrai dividere la stanza con un altro pellegrino”, disse come se tutto fosse oramai deciso. Jona fece un cenno d’assenso e trasportò il boccale e il suo zaino fino a un tavolo nell’angolo più lontano dalla porta dove si sedette in silenzio a osservare sala e avventori.

La birra era buona, meno amara di quella a cui era abituato e sembrava anche più leggera, ma non per questo mancava di sapore, anzi.
L’atmosfera era strana, per una locanda. Jona ci mise un po’ a capire che cosa lo disturbava: la quiete. Tutti parlavano a bassa voce, tanto che Jona riusciva a sentire lo sciabordare del fiume sopra il sommesso brusio.
Non c’era tensione o imbarazzo nell’atmosfera; ripensandoci si rese conto che anche l’oste aveva parlato con un tono di voce molto basso. Ci fosse qualcuno che dormiva? No, non sembrava una cosa studiata; pareva un’abitudine. Jona fece un appunto mentale di cercare di tenere il suo tono basso.
L’oste fece scricchiolare l’assito sotto il suo peso, quando venne a portargli il suo stufato fumante e il secondo boccale, come promesso, ma quello fu quasi l’unico rumore.

Jona mangiò lentamente, cercando di rilassarsi, poi raccolse le sue cose e chiese all’oste: “Dove?”
Quello gli indicò la scala e, mentre Jona cominciava a salire, girò attorno al bancone per seguirlo.
La stanzetta era angusta e spoglia. Due pagliericci ne occupavano la maggior parte.

“Ti conviene prenderti il letto sotto la finestra, così quando Wolfo verrà a dormire non ti disturberà troppo. Potrebbe essere un po’ brillo. Gli capita spesso, da qualche tempo”, aggiunse con un evidente imbarazzo, “non ti avrei messo con lui, ma ho tutte le camere piene.”
Jona lo guardò dritto negli occhi: “Devo stare attento a qualcosa in particolare?”

Quando l’oste uscì richiudendosi la porta alle spalle sistemò lo zaino come cuscino, con l’apertura verso la parete, pur sapendo che la migliore difesa contro i furti la portava appesa al collo.
Il cielo era ancora chiaro quando si stese.
Il letto era comodo e lui stanco: si addormentò come un sasso.

Lo risvegliò un boato spaventoso.
Wolfo era entrato nella stanza reggendo un fungo luminoso elfico che ondeggiava parecchio assieme alla sua mano che cercava un appiglio.
Trovò uno dei travetti che dividevano in due lo stanzino e si trascinò ondeggiando verso il pagliericcio più vicino. Decisamente Wolfo aveva bevuto parecchio. Sentiva il suo fiato alcoolico senza bisogno di avvicinarsi. Jona aprì la finestra un po’ di più, sperando in un ricambio d’aria.
Altro boato. Questa volta Jona capì di che si trattava: un rutto colossale.
Wolfo si lasciò cadere sul letto senza nemmeno togliersi i grossi zoccoli che aveva ai piedi. In pochi istanti cominciò a russare sonoramente.
No, decisamente non c’era nulla da temere, almeno da quella parte.
“Amuleto: incantesimo del silenzio!”

I pellegrini

La “colazione inclusa nel prezzo” offerta la mattina dall’oste di Baal si rivelò un pasto importante che Jona, pur affamato, non riuscì a finire.
Rimase un po’ sorpreso di vedersi portare carne e uova, invece delle focacce dolci degli Elfi, ma non fece commenti.

Stava caricando la sua roba sulla zattera quando venne avvicinato da quattro uomini segaligni e dall’aspetto duro, in abiti da viaggio, ma di buona fattura. Quello che precedeva gli altri, evidentemente il capo, anche se non appariva dall’abbigliamento, si tolse il largo cappello piumato e si esibì in un complicato inchino che lasciò Jona di stucco.
“Buongiorno, Messere, io sono Ivan, capo della delegazione inviata dal Signore di Minz per trattare con gli Elfi.” L’Amuleto diede un rapido bagliore verde.
“Il piacere è mio, Messere, cosa Vi porta da me?”
“La missione è stata un discreto successo”, la soddisfazione era evidente nella sua voce e l’Amuleto la gratificò con un altro lampo verde. “Ora abbiamo premura di ritornare e la strada è lunga, specie per i cavalli. Ci chiedevamo se fosse possibile affittare la Vostra imbarcazione, Messere; accorcerebbe il nostro viaggio di molti giorni.”
Jona rimase un attimo interdetto. Aver compagnia non gli dispiaceva e quella poteva essere l’occasione per racimolare notizie sulle zone più a nord. La prima impressione, abbastanza negativa, era stata mitigata dalla gentilezza. Probabilmente si trattava di militari.
Fraintendendo l’esitazione Ivan tirò fuori da sotto il mantello una borsa di cuoio che aprì mostrando una piccola fortuna in monete d’oro: “Possiamo pagare bene per il passaggio.”
Jona non era mai stato particolarmente attratto dalla ricchezza e stava per dire qualcosa al riguardo, ma ci ripensò: meglio apparire avido che fuori posto. Artigliò la borsa e disse: “Affare fatto, ma dovete preoccuparvi delle vostre vettovaglie, io ho a malapena quello che basta per me.”
Un sorriso di soddisfazione si disegnò sul viso di Ivan: “Non c’è problema: avevamo già preparato per un viaggio a cavallo e non ci sono locande per molte miglia. Dobbiamo solo sistemare i cavalli e prendere le nostre cose. Non ci faremo attendere molto.”
Si girò verso i suoi:
“Jona”

Vlad, effettivamente, diede una mano a sistemare le poche cose di Jona a bordo in modo che rimanesse spazio anche per la loro roba, ma Jona era certo che il suo compito principale fosse assicurarsi che lui non prendesse il largo con la borsa di denaro.

Tornarono in un tempo brevissimo, come se tutto fosse stato preordinato e probabilmente era proprio così. Il bagaglio consisteva in quattro grosse bisacce da sella e da un piccolo forziere cubico che Ivan trasportava personalmente.
Poco dopo erano sul filo della corrente e procedevano senza scosse verso nord.
“E stata una vera fortuna aver incontrato te, Jona. Abbiamo cercato in tutta Baal che, come avrai notato, non è grande, un’imbarcazione adatta, ma ci sono solo chiatte, troppo grosse, o barchette inadatte ad affrontare le rapide. Dove l’hai presa questa meraviglia?”

La giornata passò lenta e Ivan si dimostrò un eccellente conversatore, come c’era da aspettarsi da un diplomatico di qualsivoglia genere. I suoi compagni, invece, rimasero per lo più in silenzio come si addiceva a una scorta armata. Due di loro pagaiavano lentamente mentre il terzo scrutava in continuazione il fiume dietro di loro.
Venne a sapere che Minz era una grossa città mercantile presso la confluenza del Rin e del Min, poco prima delle cascate del Rin e capoluogo dell’ampia vallata che si stendeva a nord della Foresta Oscura, quella che ora stavano attraversando. Cerano molte strane leggende sulla Foresta che si diceva abitata da esseri malvagi.

Le Fate

Il Rin procedeva rapido e con un percorso abbastanza rettilineo, senza meandri fra due ali di alti pini di un verde scuro e compatto.

Di tanto in tanto si vedevano animali sulle rive che venivano ad abbeverarsi. La fauna nella foresta doveva essere abbondante. Ivan gli confermò, aggiungendo poi che pochi cacciatori avevano il coraggio — o la stupidità — necessari per addentrarsi lontano dalle valli abitate.
La sera si accamparono su un piccolo prato che copriva la riva sassosa circondati dagli alberi.

Quando andarono a raccogliere la legna Jona si stupì di quanto fosse buio nella foresta ad appena pochi passi dal fiume; Ivan rise: “Perché credi che la chiamino “Foresta Oscura”? Non è certo per caso!” Jona dovette convenire che il nome era appropriato.
Un fuoco ruggente tenne a bada le tenebre, ma loro si sistemarono prudentemente fra il fuoco e il fiume, lasciando ampio spazio tra loro e la foresta.
I suoi compagni di viaggio si stesero sui loro mantelli.
“Una splendida notte”, gli disse Ivan mentre si coricava, abbastanza lontano dal fuoco, “fa molto caldo in questa stagione”.
Jona non commentò, ma si strinse addosso il mantello. Tutto quel caldo lui non lo sentiva e l’umido del fiume già cominciava ad ammantare di bruma la riva. Il fuoco teneva lontana anche quella, ma era evidente che i suoi compagni non gradivano. Jona era di gran lunga quello più vicino al focolare.

Di notte la foresta era piena di rumori, ma non erano diversi da quelli a cui era abituato e Jona non faticò ad addormentarsi e a dormire tranquillo fino a che Vlad non lo venne a svegliare per il suo turno di guardia, l’ultimo prima dell’alba.
Controllò il fuoco, ma Vlad doveva averlo appena alimentato. Un’occhiata alla scorta di legna gli confermò che ne avevano più che a sufficienza per arrivare a mattina. Bevve un sorso d’acqua e si dispose ad aspettare l’alba.
L’acqua bevuta lo stimolò e lui si avvicinò alla foresta per vuotare la vescica.

Così, sul limitare del bosco, intese un lontano ronzio che sembrava un canto. Si girò verso il punto da cui sembrava provenire e vide, poco lontano, un lieve chiarore.
“Che cos’è?”
“Fate, probabilmente”
“Pericolose?”
“Moderatamente, non mi sembri tipo da lasciarti affascinare.”

Jona si mosse per andare a investigare.
Dal cavo di un grande albero spezzato uscivano decine di piccoli esseri volanti che emanavano una debole luce colorata.
Quando fu abbastanza vicino le Fate si accorsero di lui e gli sciamarono intorno cantando.
Jona non aveva mai visto nulla di simile. Si trattava di piccole donne in miniatura, alte un palmo e con grandi ali da libellula. Erano tutte bellissime, anche se le proporzioni erano alquanto strane con quelle gambe lunghissime e quegli occhi enormi.
Cantavano una nenia dolcissima.

Jona sentì una forte attrazione fisica, testimoniata da un’improvvisa erezione. Proprio questo segnale lo riscosse: “Amuleto: che cosa sono queste “Fate”?” chiese agitando un braccio per allontanare quelle che gli stavano sfiorando il viso.
“Tecnicamente sono degli insetti.”
“Naturali?”

“Chi?”

“Sono pericolose?”
“Ti ho già detto “moderatamente”. Non hanno armi, ma la loro malia può far scordare il tempo che passa e la direzione presa. Ci vuol poco a perdersi in questa foresta.”
Jona si voltò, ma il chiarore del fuoco era ancora visibile fra i rami. Nessun pericolo da quella parte.
“No, non mi sono ancora perso. Come si spiega l’attrazione, anche fisica, che sento?” Le Fate, intanto, si erano riavvicinate, ma la magia era andata e Jona ora solo onestamente curioso.
“Come ti dicevo non mi sembri tipo da lasciarti affascinare, anche se ci sei andato abbastanza vicino. Sono ferormoni di prima qualità, in quantità assolutamente sproporzionate alle dimensioni dei questi esserini.”
Jona aveva aperto una mano e una Fata ci si era posata sopra.
Ora poteva vedere bene che si trattava, effettivamente di un insetto: aveva sei zampe, anche se due le teneva strettamente avvolte attorno a quella che sembrava la vita tanto da sembrare una cintura. Aveva un esoscheletro, come testimoniavano le giunture e anche gli enormi occhi erano compositi come quelli di tutti gli insetti. Quella che sembrava una gonna aperta sul davanti a mostrare le gambe era in realtà l’addome.
“Uno splendido lavoro!”
“Dana sarà felice della tua approvazione”, gli rispose asciutto l’Amuleto.

Un gallo cedrone lanciò il suo roco grido poco lontano.
Il chiarore dell’alba filtrava vagamente dalla riva del fiume.
Jona si girò per ritornare mentre le Fate, deluse, sciamavano verso il loro tronco.
“Perché fanno così?”
“Così come?”
“Hai capito benissimo: che ci guadagnano ad ammaliare i cacciatori?”
“Prima di tutto non è detto che ci debbano guadagnare qualcosa: le ha create Dana per fare uno scherzo e poi si sono diffuse, anche se, credo, le uova vengano sempre prodotte dalle piante-utero di cui ti parlava Gornor.”
“Comunque hai ragione. Il canto e l’attrazione sono funzionali. Lavorano anche su piccoli animali che finiscono per morire di fame. Le Fate sono carnivore.”

Rabbia

Un’imprecazione gli uscì dalle labbra.
Il fuoco era quasi spento.

Nessuna traccia né dei suoi compagni né della zattera.
Neppure sul fiume si vedevano.
La sua sacca rimasta lì dove l’aveva lasciata, un rapido controllo gli disse che nulla era stato toccato, nemmeno la borsa di denaro.
“Bella guardia che hai fatto! Perché non mi hai avvertito?”
“A differenza di quanto sembri credere”, rispose gelido l’Amuleto, “non vedo e sento tutto quello che succede su questa terra.”
“Ammetto che avrei potuto accorgermi che questi questi quattro se la stavano filando, se avessi pensato a guardare da questa parte. Disgraziatamente stavo controllando lo stato di salute di un certo Mago di mia conoscenza che è rimasto imbambolato per quasi un’ora a guardare le lucine colorate!”
“”quasi un’ora”?” Jona sentì girare la testa.
“Quasi un’ora; cinquantatré minuti, per l’esattezza. Ancora sette minuti e sarei stato costretto a intervenire, anche se gli ordini di Thano sono abbastanza precisi: “se si caccia nei guai da solo è lui che deve trovare il modo di uscirne””.

“Mai detta una bestialità del genere: “moderatamente pericolose” e “innocue” non sono sinonimi, almeno sul mio vocabolario; comunque ti avevo anche detto che non mi sembravi persona da lasciarti affascinare, per questo mi sentivo libero di contravvenire all’ordine di Thano: tecnicamente non ti eri ficcato nei guai “da solo”. Ma tutto questo non c’entra. Ne sei uscito senza il mio intervento. Ora non dare la colpa a me per la fuga dei quattro “Messeri”, però!”

Jona si era oramai calmato abbastanza da capire che l’Amuleto aveva, come al solito, ragione: “Scusa, ho abbassato la guardia e sono stato prontamente punito per questo.”
“Spiace anche a me. Non capisco cosa sia successo. Ivan è stato rigorosamente onesto; quando ti parlava non mentiva.”
“Forse l’occasione si è presentata e loro l’hanno colta al volo. Inutile piangere sul latte versato. Fammi vedere un Occhio dal Cielo.”
L’Occhio mostrava solo un mare verde scuro, interrotto dalla striscia argentea del Rin. Niente altro. Jona si sentì stringere il cuore. Il bordo della foresta, a nord, era lontano centinaia di chilometri. Settimane, almeno, di cammino. Se la foresta era pericolosa come si diceva
“Mi domandavo se ci saresti arrivato da solo. Ci sono diversi piccoli villaggi: qui, qui e qui.”

L’Amuleto riusciva a essere decisamente irritante, quando voleva. Stava cercando di fargli scontare di averlo aggredito, poco prima? O seguiva direttive precise? Probabilmente entrambe le cose, decise alla fine.
Scelse un villaggio che si trovava quasi esattamente a nord, a diverse leghe di distanza. Avrebbe seguito il fiume per un po’, per poi tagliare verso l’interno.

Fece una colazione leggera e poi si affibbiò lo zaino sulle spalle.
Seguire il fiume si dimostrò presto impossibile. Il sottobosco formava una cortina compatta che non lasciava quasi possibilità di muoversi. Diverse volte fu costretto a tornare sui suoi passi perdendo parecchio tempo. Non aveva paura di perdersi visto che l’Amuleto sapeva sempre dove si trovava, ma anche l’Occhio non poteva aiutarlo molto a trovare una via attraverso quel labirinto vegetale. Alla fine, a malincuore, Jona si decise a seguire un sentiero battuto da animali, cervi, a giudicare dalle orme. La foresta si chiuse su di lui con la sua eterna penombra.

Mano a mano che si addentrava nella foresta la luce diventava sempre più fioca, ma con questa si diradavano anche le piante del sottobosco, oppresse dalla mancanza di sole e dal peso degli aghi di pino che coprivano ogni cosa.
Jona si trovò, quasi senza rendersene conto, sotto la volta di un’immensa cattedrale le cui navate, scandite da infinite colonne si perdevano in una foschia che si faceva sempre più densa.
Il cammino, comunque, si fece decisamente più agevole. Gli unici ostacoli erano i tronchi caduti e la naturale ondulazione del terreno.

La foresta

Jona grugnì qualcosa d’incomprensibile e continuò ad avanzare caparbiamente appoggiandosi pesantemente al suo bastone.
“Il villaggio è ad appena un chilometro di distanza, proprio davanti a te. Se non ci fosse tutta questa nebbia lo vedresti anche tu.”
Altro grugnito.

Jona sapeva che doveva sbrigarsi. Era questione di vita o di morte. L’Amuleto era stato molto chiaro, anche senza dirlo esplicitamente. Non aveva detto perché e Jona non aveva fiato da sprecare a chiederglielo.
Era da un po’ che stava insistendo perché affrettasse il passo. Dall’ultima fermata che aveva fatto, un paio di ore addietro.
Aveva le gambe che sembravano di legno. Anzi no: il legno non fa male.
La penombra si stava facendo più fitta. Doveva arrivare al villaggio
La risposta gli arrivò all’improvviso, bucando la nebbia che lo circondava e quella nel suo cervello. Un lupo stava ululando il suo richiamo non troppo lontano.
La scarica di adrenalina gli schiarì le idee e lui raddrizzò la schiena.
Un vago chiarore più avanti gli diede nuova speranza.

D’improvviso, mentre i richiami di caccia dei lupi si facevano più insistenti e più vicini, si trovò davanti ad una solida palizzata alta almeno quattro metri e realizzata con grossi tronchi di pino infissi nel terreno.
“A destra!” sibilò l’Amuleto.
Jona non chiese e corse da quella parte.
La porta era stretta. In pratica tre tronchi affiancati.
“Aprite!” gridò l’Amuleto mentre Jona cercava di riprendere fiato, “Aprite per l’amor di Dana!”

Gli ululati si erano spenti, ma i lupi erano evidentemente vicini, se ne sentivano oramai i passi in corsa. Non si preoccupavano di procedere in silenzio.
Da dietro la pesante porta si sentivano rumori di assi smosse.
“Chi chiede di entrare?” chiese una voce, ma la porta si stava già aprendo e Jona si buttò dentro mentre i suoi salvatori si affettavano a richiudere.
Il pesante paletto era appena stato rimesso al suo posto quando un coro di ringhi certificò la delusione dei lupi là fuori.

Jona si tirò dritto, appoggiandosi al suo bastone e disse: “Grazie.”
“Chi sei, Straniero?”
Aveva davanti una dozzina di persone, tutte vestite con pelli di animali. Davanti gli uomini, piccoli di statura, ma molto muscolosi, dietro, sulle soglie delle case di legno, stavano le donne anche loro minute, ma robuste. Tutti lo guardavano con sospetto, anche i bambini che facevano capolino dietro le donne.
“Stavo discendendo il fiume con la mia barca, ma si è rovesciata. Fortunatamente ero vicino a riva e sono riuscito a salvare qualcosa.”
“Come ci hai trovati?”
“Non lo so”, mentì Jona, “è da questa mattina che vago nella foresta. Non pensavo di riuscire a vedere altri giorni”.
“Scusate, ma non ce la faccio più.” disse mentre le gambe gli si piegavano e lui crollava sotto il peso dello sforzo, dello zaino e dell’età.
Sentì delle mani forti che lo sorreggevano e lo trasportavano al coperto in uno stato di semi-incoscienza.

Molto più tardi si riprese abbastanza da guardarsi attorno.
Una donna, di un’età indefinibile, con i lineamenti di una donna matura e gli occhi da bambina, gli stava porgendo una ciotola di legno con dentro un liquido scuro e odoroso di erbe mentre, con l’altra mano, lo sorreggeva e lo aiutava a mettersi seduto.
“Bevi, ti farà bene, Straniero.”
Era un brodo di carne, pieno di aromi che ne modificavano il sapore e l’odore fino a renderlo quasi irriconoscibile. Jona bevve fino all’ultima goccia, mentre la donna lo sosteneva, poi ripiombò nel sonno.

Il villaggio isolato

Il canto del gallo lo svegliò all’alba.
Era su un mucchio di fieno in una stalla dove facevano bella mostra di sé diversi grandi cavalli dai larghi zoccoli. Jona notò che non erano ferrati.
Stava per uscire quando entrò la donna che aveva intravisto la sera prima.
“Vedo che sei sveglio. Come ti senti oggi, Barcaiolo senza barca?”
“Meglio, molto meglio, grazie. Il mio nome è Jona.”
“Come vuoi, Barcaiolo Jona. Io sono la Dana di questo villaggio.”
“”La” Dana?”
“Sì, la Dana. Sono stata accettata al servizio della Dea da sette lustri oramai.”

Lei rise: “Sono più un capo-villaggio che una sacerdotessa. Come dovresti sapere Dana non ama essere venerata, ama ancora meno venir importunata e va su tutte le furie se si contravviene a uno dei suoi decreti.”

Jona non aveva troppa dimestichezza con Dana. Nella sua Ligu, schiacciata tra monti e mare, tra pesca e pastorizia c’era poco spazio per la caccia. Dana si occupava anche della fauna in generale ed era per problemi degli allevatori che l’aveva, a volte, frequentata. Qui le cose sembravano essere ben diverse.
“Stavo per disturbarla. Poi ho visto la firma degli Elfi”, la mano di Jona corse all’orecchio.
“Sai leggere l’Elfico?”
La Dana annuì.

“Vieni, avrai bisogno di mangiare e di lavarti.”
Uscito dalla stalla vide il cielo.
Ieri sera non lo aveva notato, ma tutta l’area circondata dalla palizzata era sgombra da alberi, fatta eccezione per un singolo albero che torreggiava al centro.
Jona capì subito che si trattava di un prodotto degli Dei. Era imponente, con un tronco di quasi un metro di diametro e una serie ininterrotta di grossi rami che partivano in orizzontale per poi curvarsi verso l’alto. I rami erano disposti a spirale attorno al tronco e formavano una specie di scala a chiocciola che partiva larga da terra e continuava poi in alto fino alla cima, dove era chiaramente troppo stretta per essere percorsa.

La Dana fece un rapido gesto di saluto in direzione dell’albero, poi vedendo l’interesse con cui Jona lo fissava spiegò:
Jona si guardò attorno e si accorse che gli alberi intorno alla palizzata non erano gli onnipresenti pini: “Castagni?”
“Qui attorno, per la maggior parte, ma abbiamo anche noci, più oltre ci sono le querce”.

Entrarono in una casa costruita interamente con tronchi di pino incastrati fra loro. La materia prima non mancava di sicuro, lì intorno.
Il focolare era di pietra e sosteneva una padella dove stavano friggendo delle uova. Lo stomaco di Jona ebbe un sobbalzo. Il brodo della sera prima era stato digerito da tempo.
“Questa è Umma, una delle mie figlie”, disse la Dana indicando la ragazza che era all’altra estremità della padella; già, la padella. Mentre lo stomaco e il naso di Jona erano rimasti affascinati dal contenuto gli occhi erano rimasti attaccati alla padella.
Per un po’ Jona non riuscì a capire perché la trovasse tanto strana. Era una vecchia e pesante padella di ferro. Già, ma era lucida come non ne aveva mai viste. Era evidente che il nero della fuliggine si era depositato solo da quando la padella era stata messa sul fuoco quella mattina stessa. Intorno al bordo, poi, aveva una serie di iscrizioni incise con cura.

La Dana seguì il suo sguardo e, mentre la padella arrivava a tavola per depositare il suo contenuto sui piatti, disse: “Umma è una brava ragazza. Tra non molto avrà il permesso di mettere la sua firma sulla padella.”
Jona non fece commenti, ma Umma arrossì fino alla radice dei capelli e lanciò alla madre un’occhiata raggiante.

Le uova erano cotte al punto giusto e Jona fece onore intingendo fette di pane nel tuorlo ancora soffice. Il pane era scuro e aveva un sapore decisamente strano: “Farina di castagne?” chiese; la Dana annuì: “Non abbiamo cereali qui. La farina la facciamo con castagne e ceci.”
Continuarono a parlare per un po’ e Jona venne a sapere molte cose dell’organizzazione della vita in quel piccolo villaggio che viveva in simbiosi con la foresta. L’Albero di Dana teneva lontani i pini che soffocavano ogni altra vegetazione; attorno a quel cerchio c’era un anello di querce che, con le loro ghiande, sfamavano i maiali, dentro quello c’era un altro anello di alberi più utili, come i castagni e qualche albero da frutta; all’interno della palizzata cerano i piccoli campi coltivati.
“Ma perché non tagliate più alberi per poter coltivare qualcos’altro?” chiese Jona pensando di conoscere già la risposta.
“I Troll amano gli spazi aperti.” rispose invece la Dana “Abbiamo tagliato tutto quello che osavamo. Di più sarebbe come invitarli a farci visita e questo non sarebbe per niente furbo.”
Jona stava per chiedere spiegazioni, ma lei si alzò con fare deciso dicendo: “Io devo andare a curare l’Albero, tu sei libero di rimanere qui o ripartire, come pensi meglio”
“Preferirei rimanere qui un altro giorno. Poi devo ripartire, mi sento molto meglio, ma un giorno di riposo mi farebbe comodo. Chi mi può indicare la strada per il prossimo villaggio?”
“Da che parte devi andare?”
“Nord”
“Da quella parte c’è il villaggio da cui viene la moglie di Thib. Chiedi a loro.”
Un istante dopo era fuori della porta con due grossi secchi pieni d’acqua.

Jona si rivolse a Umma che, nel frattempo aveva cominciato a ripulire le stoviglie e, soprattutto, la padella. Era una ragazza giovane, appena fuori della pubertà, con i capelli tanto chiari da sembrare quasi bianchi e due occhi celeste simili a quelli della Dana. Quando la padella fu lucida e splendente, senza la minima traccia di unto o fuliggine Jona si azzardò a chiedere: “Che cosa significa che potrai mettere la tua firma sulla padella?”
Umma lo guardò con gli occhi sgranati, poi dovette ricordarsi che lui veniva da lontano, da molto lontano, e si decise a spiegare con l’aria di chi parla ad un bambino un po’ duro di comprendonio:
“Un raduno di padelle?” chiese Jona che cominciava a sospettare quale fosse il finale.
Umma lo guardò con aria offesa e Jona temette seriamente che volesse usare la padella per ammorbidirgli la testa. Poi decise che non era il caso di rischiare di rovinarla per un soggetto tanto ritardato.
“No il raduno della Scelta! Un cacciatore forte come un Troll mi sceglierà e mi porterà al suo villaggio!”
“Quindi te ne andrai.”
Un’ombra la passò rapida sul viso: “Sì e ho un po’ paura, ma, d’altra parte, finché resto qui non sono altro che una bambina.”
Ripose con cura la padella in uno stipo.
“Se vuoi ti faccio vedere dove abita Thib con sua moglie, prima che vadano nella foresta”
Jona non si fece pregare.

Lo trovarono che stava provando il suo lungo arco da caccia, dietro la sua casa che sembrava una copia esatta di quella della Dana.
“Ciao Thib”, esordì Umma, “Jona vuole andare al villaggio di Lenna. La Dana ha detto che forse lo puoi aiutare.”
“Che ci vuoi fare al villaggio di Lenna?” chiese con un cipiglio che non celava affatto il sospetto e la sfiducia.
“Nulla,” sospirò Jona mentre Umma si dileguava, “devo andare verso nord e la Dana mi dice che quello è il villaggio più vicino. Da lì proseguirò verso il successivo.”
Thib sembrò rilassarsi un po’.
“Io non la conosco. Sono un uomo del fiume. Ho visto che può essere pericolosa, ma non posso rimanere qui. Puoi aiutarmi?”

Thib prese l’Arco, incoccò distrattamente una freccia, si girò lentamente e la fece partire verso l’alto. Jona non aveva visto nulla, ma un animale simile a un grosso scoiattolo con una lunga coda spelacchiata cadde trafitto quasi ai loro piedi.
“Se non li teniamo a bada questi ci distruggono i raccolti, e poi sono buoni da mangiare.”
“Che cos’è?” chiese Jona che non aveva mai visto un animale simile. Sembrava un incrocio tra uno scoiattolo e un topo, ma grosso più di un gatto.
“Un opossum, non li conosci?”
“No, mai visto.”
“Beh, qui ce ne sono anche troppi”, tagliò corto Thib cominciando a scuoiarlo con mano esperta, “non sono certo questi che ti daranno problemi durante il viaggio.”
“Da che cosa, invece, mi dovrò guardare?”

“Non c’è modo di tenerli a bada?”
“Solo con il fuoco.”
“Fuoco? Nella foresta? Con quel tappeto di aghi per terra?”
“Appunto. Non ci pensare nemmeno. Vedo che sei sveglio, per un barcaiolo. Finiresti arrosto prima di accorgertene.”
“Non c’è altro modo?”

“Quanto dista il villaggio più a nord?”
“Quindici leghe”
Jona fece un rapido calcolo. Era un po’ di più della distanza che aveva percorso dal fiume fin lì

Continuò a parlare con Thib fino a che questi non raccolse le sue cose e si preparò a uscire; dopo di che si ritirò nella stalla dove aveva dormito, chiuse accuratamente la porta, si assicurò non ci fosse nessuno e poi tirò fuori l’Amuleto da sotto la giubba.
“Puoi farmi vedere i villaggi?”
“Pronto!” Comparve una mappa della foresta con sovraimposta una rete di cui i villaggi erano i nodi.

“Colpa mia”, rispose l’Amuleto con un’ombra d’imbarazzo nella voce, “loro, in realtà, usano la parola “casa”, che io ho tradotto in villaggio. Non hanno nomi, esattamente come casa tua è “casa tua”, e non “Jonapoli” o qualunque altra cosa.”
“Questo la dice lunga sugli interscambi fra “case””
“Puoi dirlo forte! In pratica gli unici contatti sono durante i raduni.”

L’attenzione di Jona tornò alla mappa. I villaggi erano disposti con una certa regolarità su un’ampia striscia che andava dal fiume alle montagne, con una propaggine che arrivava quasi alla pianura a nord. Chiaramente quella era la strada che doveva fare. Fece un rapido conto: quattordici villaggi prima di arrivare in un villaggio abbastanza vicino al limitare nord della foresta da poter arrischiare una corsa per uscirne.
“Non ce la farò mai!” imprecò ad alta voce. Un cavallo si agitò disturbato.

Trotta cavallino!

La Dana era rientrata in casa e si stava risciacquando il viso arrossato.
“Ho parlato con Thib”, cominciò Jona senza preamboli.
“E che ti ha detto?”
“Tante cose, mi ha parlato della Foresta e dei villaggi. Non ho speranze di tornare a casa senza un cavallo.”
“Non possiamo regalarti un cavallo, nemmeno se sei amico del Popolo delle Montagne!”
“Lo so. Non ci ho neppure pensato. Posso pagarlo generosamente”, disse mettendo sul tavolo una pallina d’oro grande a sufficienza da comprare l’intero villaggio.
“Che cos’è?” chiese la Dana avvicinandosi.
Non era la reazione che Jona si era aspettato, “oro” rispose quasi balbettando dalla sorpresa.
“E che ci dovrei fare?” Il tono della Dana era abbastanza duro da lasciar intravvedere l’acciaio sotto il chiaro di quegli occhi celesti che ora erano decisamente sospettosi.
La Padella!

Jona raccolse la preziosa pallina dicendo: “Scusa. Non avevo capito. Bello stupido. Torno subito.”

Ritornò pochi minuti dopo con un grosso involto che aveva contribuito ad appesantire il suo zaino da troppo tempo.
“Penso non ci sia bisogno di spiegarti cosa puoi fare con questo.”
Aprì l’involto e fu ricompensato dal suono di strozzata sorpresa che sfuggi alla Dana.
Sul tavolo c’era la grossa lama d’ascia da boscaiolo che Michele gli aveva regalato “per ricordo”.
“Pensi possa bastare?”
La Dana non riusciva a staccare gli occhi da quella meraviglia.
“Devi firmarla!”
“Con piacere. Allora affare fatto?”
La Dana non si curò di rispondere. Prese, invece, uno strano oggetto da un cassetto; si trattava di una specie di penna con una grossa punta di pietra: “L’avevo fatta perché Umma potesse firmare la sua padella, ma andrà benissimo anche per questa.”

La cavalcata

La mattina dopo, di buon’ora Jona stava percorrendo al piccolo trotto un oscuro sentiero nella Foresta. I larghi zoccoli non ferrati del suo cavallo baio erano perfettamente adatti al letto di aghi di pino che ricopriva ogni cosa. Aveva da poco lasciato il boschetto di querce che circondava il villaggio e ancora gli risuonavano nelle orecchie i saluti della Dana e degli altri.
C’era stata festa grande al villaggio la sera prima.

Jona era moderatamente stupito: “Amuleto, non capisco questa faccenda. So bene che la foresta è pericolosa e quindi i commerci non sono frequenti, ma la Dana ha detto che almeno gli Elfi vengono con una certa regolarità. Come mai non portano utensili? Ci sarebbe un certo guadagno.”
“E con che cosa pagherebbero? Cavalli? Ghiande? Cacciagione?”
Jona ci rimuginò su. Effettivamente la vita dei villaggi era molto particolare. Vivevano relativamente bene, anche grazie a piante “progettate” allo scopo e, forse disseminate dagli Elfi stessi, ma non producevano nulla che fosse d’interesse per il mondo esterno.
“A maggior ragione l’oro avrebbe dovuto essere bene accetto. Avrebbero potuto comprare molte accette, e chissà cos’altro, con quella pallina!”

Buon per lui. Adesso era a cavallo. Aveva le bisacce piene di provviste e, in fondo allo zaino, aveva anche una lettera della Dana che pregava le Dane degli altri villaggi di concedergli ospitalità. La lettera era suggellata con una gemma presa dalla cima dell’Albero di Dana. Nessuno, se non una Dana poteva accedervi. La Dea era piuttosto gelosa delle sue cose.

La strada di mattoni gialli che stava percorrendo piegava bruscamente verso est. Jona ne chiese il motivo.
“Non hai voglia d’incontrare una banda di Troll”, fu la risposta e l’Amuleto rifiutò ostinatamente altre spiegazioni.

Quando arrivò ai cancelli del villaggio successivo e si presentò, a piedi con il cavallo al fianco e la lettera di presentazione in mano il sole era ancora alto. Era stata una giornata tranquilla e riposante.

Anche le due settimane successive furono assolutamente uguali, tanto che Jona si annoiò mortalmente e cominciò a lamentarsi di tutto, a partire dalla scomodità della sella per finire alla perenne penombra della foresta.

Solo le serate nei vari villaggi — o nelle varie “Case nella Foresta”, come le chiamavano loro — gli fornivano un po’ di svago, così il Mago si ritrovò, quasi senza accorgersene, a raccontare storie e intrattenere i suoi ospiti con piccoli trucchi e scherzi.

fuori dalla foresta

Jona si attardò per diversi giorni nell’ultimo villaggio, riposandosi e, soprattutto, facendo riposare il suo cavallo.
Aveva passato ore a studiare l’Occhio dal Cielo. Quello era il villaggio più vicino al margine nord della Foresta Oscura, ma ne distava ancora circa venti leghe. Una distanza assolutamente impossibile da percorrere a piedi e difficile a cavallo, senza strade e su terreno non battuto.
Gli Alberi di Dana erano disposti con una certa regolarità su un arco che andava verso est, allontanandosi dal margine. Quello sembrava essere un altro dei confini che gli Dei cercavano di rendere impenetrabili, o, per la precisione: cercare di attraversarli era possibile, ma comportava rischi non trascurabili. Gli errori si pagavano con la vita.

Jona si alzò ben prima dell’alba. Si sentivano ancora chiaramente i richiami dei lupi in caccia.
Il cavallo era teso e nervoso, roteava gli occhi e girava le orecchie in tutte le direzioni.
Jona lo condusse a piedi verso la porta del villaggio parlandogli all’orecchio per calmarlo.

Ai primi chiarori, assieme al canto dell’allodola, gli ululati si spensero.
Si fece aprire la porta, montò a cavallo e partì al piccolo trotto. Cercò di mantenere il più possibile un’andatura regolare per risparmiare le forze sue e del cavallo.
Le soste erano state calcolate al minuto e l’Amuleto teneva conto della posizione.

Jona sapeva di doversi riposare, ma il tempo passava inesorabile, anche se nulla sembrava cambiare nella penombra della Foresta.
La luce cominciò a calare e il cavallo era molto molto stanco. La bava bianca che gli usciva dalla bocca non era un buon segno.
Chiese per la millesima volta all’Amuleto la posizione. Stavano per arrivare a un fiumiciattolo che dovevano attraversare. Jona decise di fare lì l’ultima sosta. Fece bere il cavallo e gli permise di mangiare l’erba fresca che cresceva vicino alle rive melmose.
Attraversato il rigagnolo la foresta riprese il suo incontrastato dominio del territorio.

La luce stava calando lentamente.
“Sono io che ho perso la cognizione del tempo o il crepuscolo è più lungo, da queste parti?”
“La seconda che hai detto. Più si va a nord e più il passaggio dal giorno alla notte è graduale”

In quella incrociarono un sentiero che andava approssimativamente nella direzione giusta. Non era niente più che un tratturo dove gli aghi di pino erano stati calpestati e sminuzzati da piedi e zoccoli, ma si trattava di zoccoli ferrati e questo fece miracoli per il morale di Jona che cominciava a disperare.

L’oscurità era oramai quasi completa, tanto che fu costretto ad alzare ben alto l’Amuleto, splendente di luce appena venata di rosso, sul suo bastone per illuminare la strada.
Poi, di colpo, il fruscio sotto gli zoccoli del cavallo si fece diverso. Erba. Stelle sopra di lui. Gli ululati dei lupi erano molto lontani alle sue spalle. Più avanti, sulla riva di un fiume si intravedevano le sagome di povere case.

Tirò un sospiro di sollievo e si diresse a passo lento in quella direzione.
“Fossi in te non lo farei”, disse l’Amuleto spegnendosi.
Jona si gelò. Aveva imparato a conoscere quel tono piatto e casuale del suo Amuleto. Non era il caso d’ignorare l’avvertimento. Tirò le briglie facendo deviare il cavallo verso ovest, tenendosi ben discosto dalle abitazioni e proseguendo al buio guidato solo dal rumore del fiume che scorreva placido alla sua destra. Si tenne sull’erba, dove gli zoccoli del cavallo non facevano rumore.

Quando l’Amuleto ricominciò a emettere una tenue luce che rischiarava solo pochi passi davanti a loro si azzardò a chiedere: “Mi spieghi, adesso?”
“Siamo usciti dalla Foresta troppo a est. Quello era un avamposto degli Orchi.”
“Orchi?” Jona sospettava di conoscere già la risposta, ma lasciò che l’Amuleto chiarisse.
“Si tratta di un’altra razza creata dagli Dei. Ipno, in questo caso.”
“Ipno?” Non ce lo vedeva proprio il dio dell’oblio a creare una nuova razza di uomini.
“Ipno. Sono una razza fortemente territoriale e, nonostante siano discretamente intelligenti, hanno la tendenza ad agire più d’istinto che razionalmente. Non sono molto amichevoli, almeno con chi non ha l’odore giusto.”

Il cavallo incespicò facendolo quasi cadere.
“Quanto dobbiamo allontanarci ancora? Non credo di essere in grado di proseguire per molto e questo povero cavallino è allo stremo”, disse mentre scendeva e prendeva le briglie in mano.
L’Occhio dal Cielo gli mostrò il fiume, l’avamposto alle sue spalle e la loro posizione.
“Qui avanti c’è un posto dove penso ci si possa fermare per la notte, a patto di ripartire all’alba. Siamo ancora troppo vicini agli Orchi. Questo, per un certo verso, è un bene: i lupi hanno imparato a stare alla larga.”
“Quanto dista?”
“Se continui a piedi ancora una mezz’oretta.”
Jona strinse i denti e riprese a camminare appoggiandosi al bastone.
“Niente fuochi, immagino”, chiese Jona mentre impastoiava il cavallo che aveva liberato dalla sella.
“Meglio di no. Meglio non rischiare.”