Minz
L’Amuleto lo svegliò che era ancora buio pesto.
“Tra poco è l’alba. Meglio prepararsi. Gli orchi sono mattinieri.”
Jona non si fece pregare. Spese gli abituali cinque minuti per rimettere in moto le articolazioni e poi sellò il cavallo che sembrava essersi ripreso perfettamente dalle fatiche del giorno prima. Stava terminando quando sentì un urlo isolato nelle prime luci dell’alba.
“Devono aver trovato le mie tracce.”
“Probabile. Meglio togliere il disturbo in fretta.”
Rumori fra i cespugli preannunciavano l’arrivo di qualcuno di gran carriera.
Jona finì di sistemare le bisacce e montò a cavallo proprio mentre dall’alta ripa spuntavano le teste di tre Orchi. Rimase un attimo interdetto. Non sapeva che cosa si fosse aspettato, ma non questo. Gli Orchi avevano un grugno suino con un grosso naso rotondo. La bocca aveva bene in vista quattro zanne giallastre da cinghiale. Il tutto era di un colore roseo, reso ora ancor più accentuato dalla corsa.
Il cavallo scartò e prese il galoppo mentre i tre orchi si lanciavano all’inseguimento. Jona si teneva aggrappato al collo scosso dalle risate. Li distanziarono facilmente, ma quelli continuarono a inseguirli. Correvano veloci, non quanto gli Elfi, ma sicuramente più di un uomo. Jona fece rallentare il cavallo a un’andatura che sarebbe stato in grado si reggere a lungo.
“Quanto distano le prime case umane?”
“Una quarantina di chilometri,” Jona imprecò in silenzio. La voglia di ridere gli stava rapidamente passando, “ma non ti seguiranno fin laggiù. Tra poco arriveremo al torrentello che hanno scelto come confine del loro territorio”.
Si trattava di un rigagnolo che scorreva allegro fra i sassi e che il cavallo superò con un salto senza perdere il passo, ma gli orchi si fermarono sulla riva come si fosse trattato di una muraglia impenetrabile. Rimasero a guardare Jona che si allontanava, forse per assicurarsi che non tornasse indietro.
“Altre sorprese del genere, più avanti? Sai, preferirei essere preparato.” Jona aveva la netta sensazione che l’Amuleto si divertisse a fargli scoprire le cose all’ultimo momento. Era una direttiva di Thano o lo faceva di testa sua?
“Non credo. Per quel che so la gente qui è abbastanza amichevole e accetta i viandanti. I brutti incontri li puoi fare dappertutto, naturalmente.”
“Naturalmente.”
“Dammi un po’ d’informazioni su questa valle.”
L’Amuleto si lanciò in una dettagliata descrizione della valle e dell’economia del luogo. Si trattava di un’ampia zona attorno alla confluenza del Rin e del Min che si stendeva verso est fino agli insediamenti degli Orchi e a nord fino a dove il Rin si infilava nelle gole fra i monti e formava le sue famose cascate. A sud la Foresta Oscura regnava incontrastata; solo una sottile striscia di terra sulle sponde del Rin era percorribile, con molti pericoli, per andare a commerciare con gli Elfi delle grandi montagne.
La valle era ampia e fertile. L’unica città degna di questo nome era Minz, presso la confluenza, dove avvenivano i commerci avevano sede diversi templi e si trovavano le botteghe di molti artigiani. Alcuni piccoli centri lungo i fiumi erano specializzati in lavorazioni particolari, come le ceramiche di Ruudesh.
Il sole era ben alto quando incontrarono i primi segni di attività umana: armenti al pascolo. I mandriani si girarono a guardare, ma, visto che si trattava di un umano a cavallo e non di Orchi persero rapidamente interesse.
La sera chiese ospitalità in una cascina al centro di campi coltivati ordinatamente. Gli fu concesso di dormire nella stalla assieme al suo cavallo, ma non di entrare in casa.
A Jona questo andava più che bene: non aveva voglia d’inventare un’altra storia e di sottoporsi al vaglio delle domande di quegli sconosciuti.
La mattina dopo era di nuovo a cavallo.
Il paesaggio era splendido. Piccoli centri abitati erano molto distanziati fra loro, circondati da campi coltivati e, più oltre, da pascoli. Queste oasi di umanità erano separate da ampie zone boscose dove, ogni tanto, incontrava qualche cacciatore con i suoi cani.
La sera, questa volta, trovò alloggio in una piccola locanda. Altri viaggiatori erano lì in sosta. Jona aveva pensato di usare la solita scusa dello speziale in cerca di erbe strane, ma, questa volta, avrebbe dovuto modificarla parecchio. Era del tutto evidente, infatti, che lui veniva da molto lontano. La sua pelle era più scura, i suoi capelli neri, la stessa conformazione del viso diversa. Qui la gente aveva la pelle chiarissima, i capelli che andavano dal biondo al castano chiaro e visi più larghi e rotondi, il suo naso affilato non aveva uguali. Anche di corporatura erano di una buona spanna più alti di lui che, a casa sua, era considerato una persona alta.
L’oste che gestiva la locanda non fece commenti e si limitò a intascare le monetine che Jona gli dette, a fargli vedere la sua camera e a dirgli che la cena sarebbe stata pronta di lì a poco.
Il sole era ancora alto quando scese per cena, ma si accorse subito di essere l’ultimo, si diresse quindi verso l’unico tavolo libero, vicino alla porta.
Qualcuno lo guardò con curiosità, ma nessuno gli rivolse la parola e lui ne fu grato. Mangiò in fretta e si ritirò nella sua stanza, mentre di sotto l’atmosfera cominciava a scaldarsi aiutata dalla birra scura.
Il giorno dopo era in vista delle mura di Minz.
Si trattava, in realtà, di un muro fatto per tener fuori i ladruncoli e non come bastione difensivo. Si vedeva chiaramente che in tutta quella zona non c’era ombra di eserciti e guerre. La terra era buona e molta in attesa d’esser colonizzata.
La zattera
Chiese ad un bottegaio che vendeva vasi dove poteva trovare alloggio per la notte, quello lo squadrò dall’alto in basso con aria dubbiosa:
Jona ringraziò e scese verso la riva dove stavano, bene allineati, i piccoli moli dove attraccavano le barche che portavano le merci dalle campagne.
Le case erano tutte costruite con la stessa tecnica che aveva visto a Baal: una complicata intelaiatura di legno con travi incrociate a vista chiuse con tamponature intonacate e pitturate a colori vivaci. Il Cigno d’Oro era un elegante palazzo a tre piani con le travi nere come la pece e i muretti di riempimento di un bel giallo carico. Un enorme cigno dorato in ferro battuto appeso a fianco della porta non lasciava dubbi.
All’interno c’erano pochi avventori che chiacchieravano davanti a grossi boccali di ceramica dipinti.
“Cerco un posto per dormire e una stalla per il mio cavallo là fuori.”
“Posto ne abbiamo. Tu hai di che pagare?”
Decisamente devo avere un aspetto male in arnese, pensò Jona tirando fuori dal panciotto la borsa che gli avevano dato
“Mi scusi, viene da lontano? Ha un aspetto molto stanco. Forse un bel bagno?”
Jona fece uno sforzo per non mettersi a ridere: “Sì, penso che un bagno mi farebbe bene. Devo anche far lavare la mia roba e comprare qualche cosa, prima di ripartire. Pensa si possa fare?”
“Come? Certo, certo!” Le monete, nel frattempo, erano misteriosamente scomparse, “Olga! Prepara il bagno della stanza del cigno, presto!”
“Gradisce della birra?”
“Non ora, più tardi, dopo essermi cambiato. Mi fermerò solo pochi giorni.”
Fiodor, intanto era entrato dalla porta posteriore tenendo in spalla le bisacce che aveva tolto dal cavallo e lo zaino semivuoto. Era un ragazzone grande e grosso dai capelli rossicci e il viso pieno di lentiggini e qualche residuo brufolo.
Jona si mosse per seguirlo.
“Aspetti che l’accompagno, Signore”
L’oste assunse un’aria a metà tra l’offeso e lo stupito: “Certo che può mangiare qui! E dove sennò? Mia moglie fa la migliore cacciagione di tutta Minz!”
“A più tardi, allora” tagliò corto imboccando le scale dietro a Fiodor.
La stanza del cigno doveva essere la migliore della locanda ed effettivamente era molto ampia, situata su un angolo e con una specie di balconcino rotondo completamente chiuso da vetri. Jona stava avvicinandosi per dare un’occhiata al fiume quando una ragazza che doveva essere la sorella di Fiodor uscì da una porta dicendo:
“No, grazie. Solo di rilassarmi.” I due uscirono in silenzio.
Il bagno era tutto di ceramica bianca. La migliore che Jona avesse mai visto. Anche la vasca era di ceramica e fatta in modo da poterci stare sia seduto che sdraiato. Probabilmente non sarebbe stata così comoda per gli abitanti di Minz che sembravano essere tutti parecchio più alti, ma per lui era semplicemente enorme.
Lasciò che l’acqua calda e il sapone portassero via la tensione e la stanchezza assieme al sudiciume. Quando finalmente arrivò ad asciugarsi con il ruvido telo che gli avevano lasciato per quello scopo si sentiva veramente bene.
Il sole stava calando e lui, ricordando quanto cenassero presto da quelle parti, si affrettò a vestirsi e a scendere.
La cena si rivelò all’altezza delle promesse e, con sua sorpresa, anche il vino, che non si aspettava di trovare così a nord. Lo disse all’oste che, con un certo sussiego gli spiegò che il clima sulle rive del Rin era particolarmente dolce e che l’uva cresceva benissimo, poi cominciò a decantare le doti dei vinai di Minz e Jona smise di ascoltarlo.
Tornò presto nella sua stanza, con un grosso bicchiere di liquore in mano. Si accomodò al tavolinetto su quel balconcino chiuso e si mise a guardare oziosamente il panorama.
Il sole stava tramontando dall’altra parte del Rin, che era veramente enorme.
Non c’erano ponti che potessero attraversarlo, c’erano, invece dei traghetti che usavano un cavo teso molto in alto come guida. Uno stava venendo verso di lui. Era una larga chiatta che portava parecchi uomini e un paio di cavalli. Il barcaiolo teneva la zattera inclinata in modo che la corrente, colpendola di traverso, la facesse avanzare verso riva. Solo nell’ultimo tratto lui e il suo aiutante furono costretti a mettere in acqua due lunghi pali per spingerla verso il piccolo molo di legno.
I passeggeri scesero e i due barcaioli legarono solidamente la chiatta. Evidentemente quella era l’ultima corsa della sera. Normale. Tra poco il sole sarebbe sceso dietro l’orizzonte. Non era il caso di attraversare con il buio.
La grande zattera rimase da sola, o meglio, lì accanto ce n’era un’altra molto più piccola, che buffo, sembravano quasi mamma e figlia. Un momento. Quella “figlia” era la “sua” zattera!
“Occhio di Falco!” L’Amuleto eseguì senza commenti e ogni residuo dubbio scomparve.
“Thano, il tuo servo ti invoca!” La stanza si fece fredda e rossa.
“Che vuoi da me, Mago?”
“Invoco la Divina punizione contro i ladri che hanno tentato d’impedirmi il cammino, cercando di coartare la Tua volontà!”
Thano proruppe in una risata particolarmente stridula: “Vuoi dire che IO dovrei cercare di rimediare ai TUOI sbagli? Ti prego, dimmi che ho capito male!”
“I miei sbagli non c’entrano. Tu hai ordinato che io facessi questo viaggio e loro hanno cercato di fermarmi!”
Thano scomparve e Jona rimase immobile un istante mentre l’atmosfera nella camera ritornava alla normalità.
Aveva perso le staffe e invocato Thano prima di pensare. Brutto errore che avrebbe potuto costargli molto caro.
Appoggiò il bicchiere sul tavolo come fosse veleno. Doveva stare attento a mantenere la lucidità.
Comunque Thano qualcosa aveva detto: gli aveva detto che doveva agire e agire secondo il suo giudizio, che non gli era permesso provocare morti e l’aveva chiamato “Mago” due volte in poche frasi.
“Amuleto, tu puoi funzionare anche come Amuleto da Mago?”
“Sì”
Jona sorrise: “Capisci la lingua della magia?”
“In realtà quella non è “la lingua della magia”, ma solo la lingua del tuo vecchio Amuleto”
“Ma la capisci o no?”
“La capisco, ma non è la “mia” lingua. Se vuoi usarmi veramente dovrai fare lo sforzo di imparare la “mia” lingua”
Nemesi
La zattera oscillava placida sull’acqua calma. Jona era molto meno calmo. Aveva cercato di dare giustificazioni per il comportamento dei suoi ex compagni di viaggio, ma ora non riusciva a giustificare un accidente. Si erano comportati da briganti di passo e l’avevano costretto a una deviazione lunga, faticosa e, soprattutto pericolosa. Era deciso a fargliela pagare cara, ma prima bisognava trovarli.
“Mwanga mwili (luce del corpo)” alcune parti della zattera assunsero una luminosità rosata. Era fortunato. Tracce del calore dei corpi era ancora presente. Forse si potevano seguire quelle tracce. Voltò l’Amuleto verso il pontile e fu ricompensato da aloni rosati a forma di mani e di piedi che salivano. Il sorriso durò poco. Una volta sul pontile le macchie scomparvero inghiottite da una fiumana rossa. Con tutta la gente passata di lì era impossibile tener dietro le tracce più vecchie.
“Kupata chanzo cha kupanda (trova la sostanza della pianta)” Obbediente l’Amuleto analizzò la struttura delle cellule della pianta e cominciò a cercare in giro frammenti che combaciassero. Una scia di pagliuzze di un verde scintillante si dirigevano verso la strada che costeggiava il fiume. La buccia della zucca era coperta da una fine peluria che, rimasta addosso ai ladri, ora gli indicava la strada. Questa non era difficile da seguire.
Colto da un’ispirazione improvvisa tagliò la corda e lasciò che la zattera seguisse la corrente, poi tornò a seguire la traccia. In caso d’inseguimento, dopo quello che aveva in animo di fare, avrebbero inseguito una zattera vuota.
Non dovette fare molta strada. La scia di lucciole verdi si infilava nel portone di una grande casa dai muri verde pallido. Il portone era sbarrato, ma a fianco pendeva la catena di una piccola campana. Jona tirò con decisione.
Si sentì in rumore di passi affrettati e uno spioncino si aprì: “Chi suona a quest’ora?”
“Devo vedere il tuo padrone.”
“Per te, forse, non certo per lui!” Disse sbattendo di malagrazia lo spioncino.
“Come previsto. Come stanno le tue riserve di energia?”
Jona, intanto lo aveva sistemato in cima al bastone dove scintillava di luce di un purissimo giallo, senza traccia di rosso. Che stesse continuando a ricordargli le parole di Thano? Non ce n’era bisogno: a Jona non erano mai piaciute le morti inutili e nella sua lunga carriera era sempre riuscito a evitarle.
Protese il bastone verso la campana che si intravedeva incastrata in una fessura del muro, sopra il portone: “kuomboleza wafu (lamento dei morti)!”.
La campana cominciò a vibrare emettendo un suono lugubre che Jona modificava sia con piccoli spostamenti delle mani che con il mormorio che gli usciva dalla bocca.
Si sentiva vociare dietro il portone.
“tetemeko mungu wa dunia (terremoto di Festo)!” Il protone cominciò a vibrare violentemente e quando alcuni calcinacci di staccarono là dove i cardini di ferro battuto erano infissi nelle travi di sostegno, si spalancò e quattro uomini armati di lunghe spade si lanciarono verso di lui.
Jona era pronto: “miguu kulala (gambe che dormono)!” disse facendo percorrere al suo bastone un ampio arco orizzontale. Come se avesse passato una falce gli uomini caddero a terra incapaci di reggersi in piedi paralizzati dalla cintola in giù.
Passò in mezzo a loro piantando la punta ferrata del suo bastone nella mano di uno che stava cercando di usare la spada anche da quella scomoda posizione.
Il portone, dopo un breve corridoio dava in un ampio cortile con al centro un pozzo di ceramica bianca. Jona si sedete sul muretto e disse ad alta voce: “Allora, si può parlare con il padrone di questa bicocca?”
Una finestra, alle sue spalle si aprì cigolando lievemente:
Per quasi un minuto il buio e il silenzio regnarono incontrastati, poi una porta si aprì e si fece avanti un uomo di mezza età, più basso di Jona, il che lo rendeva un nanerottolo, da quelle parti, e decisamente sovrappeso. Era avvolto in una vestaglia sfarzosa. Al suo fianco aveva due armigeri segaligni che lo facevano sembrare ancora più basso e grasso. Cercava, con un certo successo, di darsi un contegno.
“Chi mi cerca?”
Jona lo ignorò completamente e si rivolse verso l’uomo alla sua destra: “Che piacere ritrovarti in buona salute, Ivan. Fatto buon viaggio?”
“Ivan, conosci questo “signore”?” Ivan si era fatto terreo. Lo si vedeva chiaramente anche alla fioca luce della lanterna che reggeva.
Jona fece un passo indietro lasciando che i due si spiegassero, intanto istruiva l’Amuleto su come e cosa controllare, per evitare spiacevoli sorprese lì, nel mezzo di una casa piena di personale sicuramente non amichevole.
Rimase in silenzio a guardare il signorotto. Adesso sembrava molto più sicuro di prima. In fondo si era aspettato qualcosa di peggio. Quando cominciò a inveire pesantemente contro Ivan:
“Non agivano sotto i tuoi ordini? mwanga wa ukweli (aura di Isto!)”
“I miei ordini? No, certo che no!”
L’effetto fu guastato sia dalle gocce di sudore che gli imperlavano la fronte sia dall’improvvisa luce rossa che gli circondò la testa.
“Non ci siamo capiti. Se io faccio una domanda esigo una risposta sincera. Mi spiego? ghadhabu ya Mungu ya kifo (ira di Thano)!”
L’Amuleto cominciò a emettere infrasuoni e bagliori rossi che avevano come effetto quello di provocare terrore nella vittima. I due sgherri si accartocciarono colpiti dalla paralisi, oltre che dalla paura.
Ora Jona e il signorotto erano virtualmente soli.
“Come ti chiami?” chiese Jona gentilmente.
“Vadym”, rispose quello cercando ancora di mantenere una parvenza di dignità.
“Bene, Vadym. Io sono Jona il Mago. Vengo da lontano e non ho tempo da perdere con gente come te. Ora mi spiegherai, con parole semplici e chiare, che cosa hai mandato a fare quei quattro tagliagole fino a Baal.”
“Che ti interessa? Sono affari miei e degli Elfi!”
“Risposta sbagliata.”
Mosse appena la mano sul bastone e un formicolio doloroso cominciò ad attanagliare il petto di Vadym che aprì e chiuse la bocca come un pesce fuor d’acqua. Jona allentò la presa.
“Riproviamo. Che volevi dagli Elfi?” Vadym si decise, finalmente, a parlare, mentre la rabbia gli dava nuovo vigore.
“Quei maledetti non sentono ragioni! Ho provato in tutti i modi. Niente, non vogliono commerciare, non vogliono vendere le loro dannatissime piante. Secondo loro non siamo degni di usarle! Non vogliono oro, non vogliono pelli, non vogliono nemmeno le nostre ceramiche!”
“Ma ora gliel’ho fatta vedere io! Non si rifiutano le offerte generose di Vadym! Non volevano vendere? E allora mi sono preso quello che volevo! Ora ho una pianta dei semi tutta per me! Ora potrò far nascere tutte le meravigliose piante degli Elfi! Chi ha più bisogno di loro?”
Jona cominciò a ridere. Incapace di fermarsi. Aggrappato al suo bastone per non cadere continuò a ridere mentre Vadym lo guardava interdetto chiedendosi se il Mago fosse impazzito o cosa.
Quando riuscì a fermarsi, con le lacrime agli occhi, Jona spiegò fra i singulti delle risate trattenute a stento: “Sei ancora più stupido di quanto sei avido e sei più ignorante di quanto sei stupido. Nemmeno gli Elfi controllano le piante dei semi! Le controlla Asclep in persona. Quando deciderai di chiedergli di farla funzionare per te, ti prego, chiamami: Non vorrei perdermi la scena per nulla al mondo.”
Vadym aveva le orecchie rosse come il fuoco. Non avrebbe dimenticato presto l’umiliazione, né l’avrebbero dimenticata i suoi accoliti, incapaci di muoversi, ma ben svegli. Ora doveva guardarsi anche dai pettegolezzi e se la storia veniva fuori lui sarebbe stato lo zimbello di tutta Minz. Un duro colpo per il suo amor proprio, che aveva l’aria di essere maggiore del suo, pur considerevole, giro-vita.
Jona si girò per andarsene e Vadym, pensando di non essere visto, estrasse un solido pugnale e si avventò silenziosamente contro di lui.
“Bisogna dire che non sai proprio perdere!” disse Jona e, senza curarsi di usare l’Amuleto, calò il pesante bastone sulla testa di Vadym facendolo stramazzare al suolo mentre il sangue gli colava dalla tempia.
Raccolse il bel pugnale e se lo mise alla cintura: “Questo lo terrò io per ricordo. Tu il ricordo lo terrai in faccia”, aveva visto abbastanza ferite da sapere che quella stupida palla di lardo non sarebbe morta, ma che la cicatrice sarebbe rimasta.
Quell’uomo gli riusciva veramente odioso.
Baldoria
Fece un ampio giro per tornare al Cigno d’Oro, entrò dalla porta posteriore badando a non essere notato e salì in camera sua dove ripose il mantello, cambiò la pesante giubba di pelle scura con un vistoso panciotto che aveva usato a cena e smontò l’Amuleto dal bastone.
“Domani dovrò stare attento a guardarmi da quel Vadym, ma per stasera credo proprio che abbia altro per la testa.”
“Io, comunque, non perderò d’occhio la porta. Non si sa mai.”
Riprese in mano il bicchiere che aveva lasciato sul tavolino, ne versò quasi tutto il contenuto nel bagno, scese nella sala dove ancora c’erano ancora un po’ di avventori e prese posto ad un tavolo isolato, sistemandosi i pantaloni come se fosse appena tornato dal bagno.
“Oste! Portami una caraffa di quel vino chiaro! Questo liquore mi sta bruciando le budella!”
Se l’oste si stupì di vederlo di nuovo al tavolo non lo diede a vedere, e comunque la cosa fu prontamente dimenticata perché, proprio mentre posava brocca e bicchiere davanti a Jona, entrarono due persone.
“I briganti anno assaltato la casa di Vadym il Mercante!”
“Hanno abbattuto il portone con un ariete.”
“Erano almeno venti!”
“Dove?”
“Sono scappati in barca sul fiume.”
“Andiamo a vedere!”
“Non c’è più nulla da vedere. Hanno rabberciato il portone e si sono chiusi dentro. Pare che Vadym stesso sia stato ferito mentre cercava di difendere la casa.”
“C’era sangue per terra”
Intanto stavano arrivando altri, mentre i pochi che erano ai tavoli sciamavano fuori per andare a curiosare.
“Ho visto Ivan con tutti i suoi che si lanciavano all’inseguimento.”
“Con questo buio? Non c’è nemmeno la luna. Che sperano di trovare?”
“Probabilmente nulla, ma sempre meglio stare lontani da Vadym, quando è arrabbiato!”
Jona lasciò che le voci si trasformassero in un mormorio indistinto mentre si godeva la sua piccola rivincita. Domani avrebbe dovuto fare attenzione: Ivan conosceva bene la sua faccia, e lui era abbastanza diverso dalla popolazione locale da non passare inosservato.
“Lo ho osservato bene, stasera. Non era per niente contento di come stavano andando le cose e, quando Vadym ha vuotato il sacco ho temuto che riuscisse a liberarsi e lo strozzasse con le sue mani. C’è ancora qualcosa che non sappiamo.”
“Non sono sicuro che siano affari nostri.”
“Dopo quello che mi hai fatto fare stasera? E di chi dovrebbero essere questi “affari”, di grazia?” L’Amuleto lo stava di nuovo prendendo in giro e si divertiva a farlo.
“Asclep?”
“Vedo che ti bruciava particolarmente non essere riuscito a capire le vere intenzioni di Ivan.”
“Non sono sicuro ci fosse qualcosa da capire prima, ma: sì la cosa mi ha dato parecchio fastidio.”
“Non capisco perché dici che gli Dei non c’entrano. Non li ho forse invocati per tutta la sera?”
“L’unico invocato davvero è stato Thano e fortunatamente l’hai trovarlo in un momento di particolare bonomia. Tutto il resto lo ho fatto io, senza interventi celesti.”
“Quella di invocare Thano non è stata davvero una buona idea”, riconobbe Jona, “ma non tutto il male viene per nuocere. Ora ci capiamo molto meglio. Dici che tutto quello che hai fatto stasera è stato fatto da te da solo?”
“Sì, quello lo so, è facile: emetti onde sonore a frequenza troppo alta per essere sentita, concentrate verso la campana che risuona a una frequenza più bassa. Anche il Lampo di Zeo e il Tuono sono comprensibili, ma le “gambe che dormono”?”
“Oops, scusa, non volevo renderti le cose difficili”
“Non è un problema. Aggiungere un’altra trasformazione di coordinate non è certo difficile. Schermarti dagli effetti degli infrasuoni, invece è un esercizio di abilità”
“Infrasuoni?”
“Sì, sono parte dell’armamentario per l’”Ira di Thano”. Sono frequenze naturalmente associate ai terremoti e che provocano una reazione di paura, ma hanno una lunghezza d’onda molto lunga ed è difficile dirigerle bene.”
Jona si guardò attorno, ma nessuno faceva caso a lui. Continuavano a parlare dell’assalto dei “briganti” che, nel frattempo, erano diventati un centinaio.
Jona aveva bevuto un po’ troppo. Meglio smettere. Alzò il bicchiere per un’ultima volta.
“Posso offrirti qualcosa da bere?”
“Accetterei con piacere, ma non ho più quel che serve per apprezzare una buona bevuta.”
Ivan
Il mago era abbastanza euforico quando rientrò nella sua camera e si chiuse la porta alle spalle.
Sul letto, in bella vista, c’era un rotolo con un vistoso sigillo di ceralacca.
Lo prese e l’aprì.
Erano poche righe di una grafia elegante che terminavano con una firma chiaramente leggibile: “Ivan”.
L’euforia e quel po’ di ebbrezza da vino era scomparsa di colpo, sommersa da un’ondata di adrenalina. Ivan non si era lasciato ingannare come gli altri dal suo trucchetto con la zattera.
Un rapido controllo dimostrò che nulla era stato toccato e chi era entrato per lasciare il messaggio era rimasto solo pochi istanti.
Il messaggio era breve: “Carissimo Jona, desidero chiarire completamente quanto è avvenuto e le mie motivazioni. Sono sicuro che una breve chiacchierata sarà illuminante per entrambi. Mi scuso di nuovo, per quel che può valere, del mio comportamento. Lascia indicazione su dove e quando possiamo incontrarci in un biglietto sul molo dove era attraccata la zattera che ben conosciamo. Saluti Ivan”.
Una trappola? Probabilmente no; se Ivan avesse voluto prenderlo di sorpresa avrebbe agito questa sera stessa, magari tendendogli un’imboscata lì in camera sua.
“Pensi sia il caso di cambiare aria subito?” chiese all’Amuleto.
“Sinceramente non credo. Posso controllare tutta la locanda da qui. Se avesse voluto tentare qualcosa avrebbe evitato di metterci sull’avviso.”
“Riserve di energia?”
“Sto già recuperando quel po’ di energia spesa. Non ci sono problemi.”
“Beh, allora ti lascio a far la guardia”, lo rimise in cima al bastone e piazzò quest’ultimo vicino al letto, poi si dispose a riposare, “tu puoi anche essere pieno d’energia, ma io comincio ad essere stanco.”
“Dormi bene.”
La mattina dopo prese un po’ d’informazioni e decise che il mercato di Ruudesh, un paesotto qualche chilometro più a valle, poteva essere un buon posto per un abboccamento. Lasciò l’indicazione dove gli aveva detto Ivan e poi si diresse a cavallo da quella parte.
Ruudesh era famosa per le ceramiche bianche. C’erano moltissime botteghe e Jona si interessò alle varie lavorazioni, come se fosse veramente intenzionato a comprare.
“Eccolo” gli sussurrò l’Amuleto all’orecchio.
Non ebbe difficoltà a capire di chi parlasse, anche perché Ivan non faceva nulla per passare inosservato. Stava discutendo animatamente con un vasaio. Jona si avvicinò e cominciò a osservare la merce, poi fece qualche commento, Ivan rispose in maniera del tutto casuale, poco dopo si allontanarono come due persone che si sono appena conosciute e che potrebbero avere interessi in comune. Nessuno fece caso a loro.
Seduti a un tavolino sotto una grande pergola dove si cominciavano a vedere i grappoli ancora acerbi, pareva non avessero altri problemi che non riguardassero la qualità e il prezzo delle ceramiche. L’oste aveva portato una caraffa di vino e uno strano pane salato che pareva fatto apposta per far venire sete e, con ogni probabilità, era proprio così.
Quando l’oste si allontanò e loro furono ben certi di non essere spiati Ivan si decise a parlare liberamente: “Temo di aver fatto tre errori di valutazione in un colpo solo. Un bel record.”
“A cosa ti riferisci, esattamente?”
“Ho sbagliato a giudicare, nell’ordine: Vadym, gli Elfi e te. Per la parte che ti riguarda mi scuso sinceramente, per quel che può valere.”
“Ho l’impressione che l’ordine sia, oltre che di tempo, anche d’importanza, sbaglio?”
“No. Non sbagli”, la voce di Ivan aveva una piega amara; Jona era certo che doveva costargli parecchio quella confessione che, a giudicare dai rilevamenti dell’Amuleto, era del tutto sincera, “L’errore peggiore l’ho fatto con Vadym, gli altri sono conseguenza. Oh, certo, mi sono reso conto che era un affarista con pochi scrupoli, ma è riuscito a convincermi che, in questo caso, stava facendo la cosa giusta per tutti.”
“Ma che cosa credeva di fare? Dal mio punto di vista la cosa ha veramente poco senso. Come pensava di controllare la Pianta dei Semi?”
“Quello che ha detto a me, e oramai non so più fino a che punto ci credesse lui stesso, è che gli Elfi, in qualche modo, erano riusciti a trattenere per sé, là in mezzo alle montagne, i doni che Asclep aveva fatto a tutta l’umanità. Il piano era quello di “liberare” i doni, ma, se quello che dici è vero, non c’è nulla da liberare.”
“Quello che dico è vero. E, se non mi credi, basta andare al Tempio di Asclep. Ce n’è uno anche a Minz, mi pare. Una capatina al Tempio avresti anche potuto farla, prima d’imbarcarti in questa storia.”
Ivan si ritrasse come se fosse stato schiaffeggiato. Jona si chiese se non avesse esagerato.
“Tutto per la segretezza”, disse poi con un sospiro, “certo che gli Elfi non hanno fatto molto per convincermi della loro buona fede. Sembra debbano nascondere chissà quali segreti, e probabilmente è così.”
“Sono sospettosi per natura. Poi arrivano “umani” come te che li convincono di aver tutte le ragioni di questo mondo a sospettare.” Ivan fece una smorfia e Jona si affrettò ad aggiungere: “in realtà è un gatto che si morde la coda. Loro sono, come ti dicevo, sospettosi e territoriali di natura; questo li rende scostanti e chi gli sta di fronte pensa che nascondano chissà cosa; c’è chi semplicemente li lascia perdere, ma c’è anche chi cerca di scoprire “cosa c’è dietro”, provocando ancora più sospetti, eccetera eccetera”
“Mi pare che tu conosca bene questa storia.”
“Abbastanza. Fortunatamente ero in condizioni diverse e sono riuscito a rompere il cerchio. Adesso devi cercare di romperlo anche tu.”
“Che intendi dire?”
“Prima di tutto devi renderti conto di come stanno davvero le cose. Io posso dirti qualcosa, ma tu non ti fidare della mia parola: controlla, vai ai vari Templi, prendi informazioni per tuo conto. Mi pare che tu abbia tutte le possibilità di accertare la verità.”
“E poi?”
“Poi decidi tu. Per quel che mi riguarda cercherei di rendere inoffensivo Vadym. Mi pare un tipo pericoloso. Quanto sei legato a lui?”
Ivan sorrise: “Non molto, per fortuna. Ero consigliere di Petruk il vecchio mercante di pellami. Alla sua morte Vadym ha rilevato gran parte delle attività, incluso il sottoscritto.”
Ci pensò su un istante, poi sorrise di nuovo: “Sono d’accordo con te: Vadym ha una smania di potere che non porterà nulla di buono né a lui né a quanti gli stanno attorno. Devo ringraziarti per avermi aperto gli occhi. Dopo quello che è successo ieri sera sono parecchi a guardarlo con occhi diversi, soprattutto nella sua stessa casa.”
“Non prendere decisioni affrettate, ma, se credi, avrei qualche idea per scuotere ancora di più la credibilità di Vadym, anche fuori dalle mura del suo palazzo.”
“Non saprei. Devo capire meglio la situazione.”
Continuarono a parlare a lungo e la discussione si spostò verso sud, verso le montagne. Jona fece del suo meglio per spiegare il carattere degli Elfi, pur senza rischiare di tradirne i segreti.
Si lasciarono alle prime ombre della sera e rientrarono separatamente a Minz.
Mentre trottava veloce verso il Cigno d’Oro Jona e l’Amuleto parlarono a lungo di quello che Ivan aveva detto e di quello che non aveva detto.
Di una cosa l’Amuleto sembrava molto sicuro: Ivan era sincero.
Ivan II
Il giorno dopo Jona lo passò preparando la partenza. Rimase ore chiuso nella sua camera a esaminare l’Occhio del Cielo cercando un passaggio sicuro nelle foreste sulle basse montagne che chiudevano la valle del Min verso sud. A volte aiutato da Serna che aveva buoni occhi per trovare i sentieri. Sembrava un percorso agevole, anche se non brevissimo. Non si vedevano insediamenti per parecchi chilometri, poi, cominciava un’ampia pianura che si estendeva fino al mare con diverse città, molto lontane le une dalle altre.
La sera un bimbetto di pochi anni gli si parò davanti, fece un grande inchino e, dandosi un’aria d’importanza, gli porse un biglietto arrotolato e sigillato con la ceralacca. Poi scappò via correndo.
Jona sorrise e ruppe il sigillo.
Come si aspettava il biglietto proveniva da Ivan.
Conteneva solo poche parole: “Pessime nuove. Dobbiamo incontrarci. Aspettami in camera tua dopo cena. Ivan”
Ivan arrivò dopo mezzanotte. Socchiuse la porta senza bussare, scivolò dentro e se la richiuse alle spalle.
“Racconta dal principio.”
In realtà Ivan non sapeva molto più di quello che aveva già detto. Vadym si era chiuso nei suoi appartamenti e non aveva fatto entrare nessuno, tranne le sue concubine, che erano già dentro, e il capo delle guardie di casa, un tipaccio che Ivan sospettava essere un ex-brigante. Da lì erano partiti gli ordini.
“Io non posso e non voglio fare direttamente altro, in questa storia. Ho imparato a mie spese che, se si fa qualcosa poi bisogna assumersi la responsabilità di seguire le cose fino in fondo. Io questa possibilità non l’ho: parto domattina.”
Ivan aveva un’aria decisamente delusa.
“Non ho detto che non farò nulla, Ivan. Ho detto che non farò nulla direttamente.”
“Che intendi fare?”
Aveva già la mano sul catenaccio che bloccava la porta quando Jona lo richiamò: “mwanga wa ukweli (aura di Isto!). Ma tu, Ivan, che faresti se fossi al posto di Vadym?”
L’Aura di Isto era di un verde purissimo.
“A bella domanda una bella risposta. Ti auguro di trovarne una ancora migliore, in futuro”
Ivan aprì il catenaccio, poi si girò di nuovo: “Ma, secondo te, cosa dovrei fare?”
Il Sacerdote di Asclep
Il cielo stava appena cominciando a schiarire a oriente quando Jona si presentò alla porta del Tempio di Asclep.
L’Amuleto brillava giallo in cima al suo bastone spandendo una luce allegra che lasciava completamente in ombra il viso di Jona coperto dal cappuccio del suo mantello.
Il portone di legno chiaro si aprì prima che lui potesse usare la campanella che qui tutti i palazzi avevano.
“Il Sacerdote la attende”, disse un accolito deferente che lo scrutava per capire chi fosse il Mago che si faceva ricevere a quell’ora.
Il Sacerdote di Asclep era un omone gigantesco che aveva più l’aria di un tagliaboschi che di un chierico. Aveva in dosso una tunica verde immacolata stretta alla vita da una cinta di cuoio marrone alla quale era appeso il suo Amuleto.
“Quindi sei tu”, disse guardandolo dall’alto in basso, “che hai provocato tutto quello scompiglio l’altra notte. Un Mago, avrei dovuto immaginarlo.”
“Sono stato Mago, ora sono anche tante altre cose”, gli rispose Jona abbassando il cappuccio e mostrando il viso prima e l’orecchio sinistro tatuato poi.
L’Amuleto intanto aveva cambiato colore ed era di un torvo rosso sangue.
“Sì, l’Amuleto mi ha informato di qualcosa. Vedo che le cose sono anche più complicate di quanto pensassi. Siedi, posso offrire qualcosa?”
“No, grazie. Sono in partenza. Prima di andare volevo informarti sulle attività si Vadym.”
“Lo tengo d’occhio da un po’ di tempo e, debbo dire, le sue attività non mi piacciono proprio. Ivan ha avuto una brutta sorte a passare dal servizio di un galantuomo com’era Petruk a quel mascalzone di Vadym.”
“Questa è una cosa che non capisco bene: perché, se ha capito di che pasta è fatto, continua a rimanere al suo servizio?”
Il Sacerdote inarcò un sopracciglio:
“Capisco”, disse Jona che, in realtà, aveva solo capito che Ivan era legato e che non era il caso di scavare oltre. La natura del legame gli sfuggiva completamente.
“Anche tralasciando Ivan, le azioni di Vadym non porteranno nulla di buono all’intera Minz.”
“Vero, a quanto ho capito sta preparando una specie di esercito per farsi nominare Burgmaister con la forza, visto che già due volte gli è andata male al consiglio cittadino, ma io ho le mani legate.”
“Perché?”
“Perché rappresento Asclep, qui a Minz. Non posso prender parte ad azioni politiche. Una volta che ci ho provato e Asclep è stato molto chiaro. Gli Dei non vogliono entrare direttamente negli affari umani. Sono disponibili, alle loro condizioni, a offrire aiuto, ma non intervengono direttamente per dettare una politica. Danno consigli e oracoli se richiesti, molto raramente si permettono di elargire premonizioni in modo spontaneo. Tutto qui. Quando ho cercato di usare il mio prestigio di Sacerdote per forzare certe decisioni in Consiglio il mio Amuleto ha smesso di funzionare per un anno intero.”
Jona annuì:
“Questo non cambia nulla, anche se Asclep è molto affezionato agli Elfi.”
“Che intendi dire?” Il Sacerdote era proteso in avanti e i suoi occhi erano ridotti a due fessure.
“Intendo dire”, proseguì Jona senza cambiare il suo atteggiamento rilassato, “che Vadym ha ordinato un furto in un qualche tempio di Asclep.”
“Impossibile!”
“Ma vero.”
“Dove?”
“Questo non lo so. Da qualche parte nel regno degli Elfi. Quel che so è ciò che è stato preso: una Pianta dei Semi.”
Il Sacerdote assorbì lentamente la notizia. Era chiaro che non sapeva se essere più indignato per l’enormità del sacrilegio o più divertito per la sua completa inutilità.
Poi prese il suo Amuleto, parlò per qualche istante in una lingua che l’Amuleto di Jona non conosceva o che, comunque, non si curò di tradurre. Anche la risposta fu breve e apparve un modellino del palazzo di Vadym con una luce verde pulsante su un’ampia terrazza.
“Grazie. Adesso posso agire.”
“Sì, sono d’accordo, è meglio così.”
La gogna di Vadym
Jona era appena uscito che il Sacerdote chiamò il suo Apprendista e dette una serie di ordini, poi tornò a parlare con l’Amuleto.
Poco dopo una piccola processione composta dal Sacerdote, dal suo Apprendista e da quattro accoliti lasciava il Tempio, mentre altri andavano a informare il Burgmeister e gli altri maggiorenti della città di quello che stava succedendo.
Il Sacerdote camminava in testa, con la sua tunica verde, cappuccio tirato fin sugli occhi e completamente avvolto da una luce pulsante. Dietro venivano i quattro accoliti che reggevano un’ampia cassetta vuota. L’apprendista chiudeva la piccola processione. Camminavano lentamente, senza guardare né a destra né a sinistra.
Non ci misero molto ad arrivare al palazzo. Vadym in persona li aspettava all’ingresso.
“Che Piacere! Cosa posso fare per te, oggi?” chiese con una giovialità che suonò falsa anche alle sue stesse orecchie.
Il Sacerdote non dette segno di averlo visto né udito. Continuò dritto come se fosse in mezzo alla pubblica strada.
Vadym si fece da parte appena in tempo. Un lembo della sua ricca palandrana sfiorò l’aura verde del Sacerdote e prese immediatamente fuoco.
La processione salì le scale fino agli appartamenti privati di Vadym. A fianco alla porta c’era il capo delle guardie, pallido, ma deciso.
Il Sacerdote, senza battere ciglio alzò la mano per aprire la porta e il capo delle guardie gli si parò davanti, entrando in contatto con l’aura verde. Un istante dopo si contorceva sul pavimento urlando per il dolore. Apparentemente illeso, ma era come se stesse bruciando vivo.
La porta si aprì senza sforzo e la processione entrò con il suo passo lento. Non avevano nemmeno guardato in basso mentre superavano il corpo che si contorceva ai loro piedi.
Le concubine pensarono prudente non fasi vedere.
Il Sacerdote arrivò alla grande porta a vetri che dava sulla terrazza privata, la aprì e si trovò di fronte una pesante inferriata in ferro battuto. La chiave che gli aveva dato Jona girò con uno scatto oleoso e la grata si aprì senza cigolare.
La terrazza era, in realtà, un modesto balcone al centro del quale c’era il vaso con la Pianta dei Semi.
Il Sacerdote rimase immobile a fianco del tavolo mentre l’apprendista la piazzava nella cassetta portata dagli accoliti, poi mormorò qualche parola e l’aura verde di Asclep ricoprì cassetta e Pianta.
La processione riprese la marcia seguendo il percorso inverso.
Quando uscirono dal portone trovarono una grande folla. In prima fila il Burgmeister e gli altri maggiorenti.
“Allora è vero!”
“Che dobbiamo fare, Sacerdote?”
La piccola truppa non ruppe il passo e tutti continuarono a guardare fisso davanti a loro, ma l’espressione del Sacerdote avrebbe potuto riempire volumi. Nessuno l’aveva mai visto così adirato e disgustato allo stesso tempo.
La folla si aprì per farli passare, poi cominciò a sciamare nel palazzo. Ne uscì poco dopo spingendo Vadym, che cercava di divincolarsi verso il Burgmeister.
Il processo fu sommario e breve. Buona parte della popolazione di Minz era presente.
Il Sacerdote di Isto invocò l’Aura di Isto e le menzogne di Vadym si tinsero di rosso vivo.
La sentenza era scontata: confisca di tutti gli averi ed espulsione dalla città.
L’esecuzione fu immediata: Vadym fu spogliato di tutto e venne gettato nudo nel fiume. Doveva attraversarlo subito a nuoto, se avesse rimesso piede su questa riva, in territorio della Città di Minz sarebbe stato ucciso senza ulteriori formalità.
Il Burgmeister, con l’approvazione degli altri maggiorenti, nominò Ivan curatore pro-tempore delle sostanze di Vadym.
Una porta verso i Monti.
Ivan era seduto su uno scomodo sgabello a tre gambe davanti al Sacerdote di Asclep, che ne occupava uno identico al suo.
“Se si parla di azioni materiali sei ancora più colpevole di Vadym, è vero”, disse pensieroso,
Lo lasciò a scaldare lo sgabello e a preoccuparsi per più di due ore.
Quando rientrò il suo sguardo era imperscrutabile.
“Forse è vero che non tutto il male viene per nuocere. Asclep mi dice che i tempi sono maturi per cominciare a diffondere alcune delle tecniche Elfiche più semplici anche fuori dalle montagne.”
“Se sei serio nel tuo proposito di ripagare per gli errori commessi invierai una delegazione per riportare quella Pianta dove è stata presa.”
Il Sacerdote sorrise:
“Come sempre Asclep è un faro di saggezza”, disse Ivan inchinandosi leggermente.
“Per ora questo è tutto. Ci rivedremo quando sarai pronto a partire.”
“Grazie.”