Blanzoon
La famiglia si mise in moto che ancora era buio, nonostante fossero i giorni più lunghi dell’anno. All’alba Stephan prese la via del ritorno, mentre i pastori stavano ancora finendo di mungere le loro vacche.
La colazione venne solo dopo quest’operazione mattutina.
“Se davvero vuoi entrare nei territori degli Elfi”, diceva il pastore, “ti conviene andare apertamente. Presentati a Blanzoon. Non conviene cercare di entrare di nascosto. Chi ci prova muore.”
“Sono davvero così terribili?”, chiese Jona.
Il pastore rise: “Terribili? No. Sono diversi, diffidenti. Sembra che sappiano sempre quando stai cercando di nascondere qualcosa. Forse per questo loro non mentono mai, a differenza di noi umani.”
“Non ne hai mai visto uno, vero? Certo che no, altrimenti non faresti domande stupide.”
Jona non riuscì a cavargli una descrizione che avesse senso. Di sicuro erano cacciatori formidabili e correvano come il vento, ma poi i particolari si facevano confusi.
Comunque la curiosità sarebbe durata poco. Il pastore si era offerto di accompagnarlo verso nord fino quasi in vista di Blanzoon: la Porta degli Elfi.
La città era a un paio di giorni di cammino da dove si trovavano adesso e il pastore doveva portare parte del bestiame a un’altra fattoria proprio in quella direzione. Jona fu ben lieto di accodarsi.
La valle del Tich era ampia e verde, circondata da foreste di alberi enormi. Si vedevano, lungo il fiume, alcune fattorie molto distanziate l’una dall’altra. Si trattava di piccoli mondi chiusi, oppressi dalla vicinanza del micidiale bosco alieno. Passarono accanto a un paio di queste ampie case costruite prevalentemente con i sassi presi dal greto del fiume. Alcuni boschetti fornivano il legname. Nessuno aveva l’ardire di andare a far legna nel bosco degli Elfi.
A sera arrivarono alla fattoria dove erano diretti.
Furono accolti amichevolmente dalla famiglia che la abitava. Amici del pastore. Si trattava di una famiglia allargata, dove l’anziana nonna ancora comandava a bacchetta sei figli, le mogli e un numero imprecisato di marmocchi di tutte le età. Jona fu stupito della quiete e del silenzio che regnava in una casa così densamente popolata. La presenza degli Elfi era palpabile, anche se non era ancora riuscito a vederne uno.
“E non ne vedrai”, gli disse la matriarca, “sembra quasi che abbiano paura di farsi vedere, ma non è così, naturalmente. Comunque sono dei vicini ideali: non danno mai fastidio e non permettono che qualcuno ne dia.”
“Vero”, confermò il pastore, “diversi anni fa una banda di balordi è venuta dal sud pensando di poter razziare facilmente il bestiame, no, non qui, più a valle di casa mia, verso le Ceneri”, precisò vedendo lo sguardo stupito della matriarca.
“Sono durati esattamente tre giorni. La mattina del quarto li abbiamo trovati legati come salami in mezzo al fiume. Non avevano un segno addosso, a parte quelli lasciati dalle corde. Li abbiamo salvati quasi tutti per le galere del Visconte. Gli altri se li è portati la polmonite. Sicuramente gli è passata la voglia di fare i gradassi da queste parti.”
In Blanzoon
Il Mago si mise in moto di buon’ora, procedeva senza fretta scrutando la foresta, ma non vide mai nessun movimento.
Dopo una mezza giornata di cammino si lasciò alle spalle l’ultima fattoria. Si fermò presso il fiume per riposarsi e mangiare un boccone.
Prima di ripartire rimise l’Amuleto ben visibile in cima al suo lungo bastone da passeggio. L’Amuleto, quasi avesse indovinato le sue intenzioni, cominciò a risplendere di una luce minacciosa.
La valle cominciava a restringersi, i due lembi della foresta ad avvicinarsi e infine apparve l’alta rupe su cui doveva trovarsi Blanzoon.
A Jona parve solo un’altra altura completamente coperta da alti alberi maestosi. Nessun animale animava il paesaggio e di Elfi non si vedeva nessuna traccia.
Si avvicinò prudentemente al limitare della foresta.
Non si sentiva altro che lo stormire delle fronde e non si vedeva un movimento che non fosse l’ondeggiare di rami al vento.
“Amuleto, non vedo animali, neppure uccelli”, si decise, finalmente, a chiedere.
“Infatti, non ce ne sono.”
“Strano!”
“Hanno imparato sulla loro pelle a evitare questa parte della foresta.”
“Potresti essere più preciso?”
“Vedi quei cespugli ai piedi dei grandi pini? Sono dei parassiti di questi pini rossi che, però, hanno bisogno di luce, quindi li trovi solo al limitare delle foreste, dentro è troppo buio”. Jona aspettò pazientemente che l’Amuleto venisse al punto. “Si tratta di piante molto pericolose: basta sfiorarle che rilasciano le loro spore. Si tratta di un veleno potentissimo per tutti gli esseri che respirano. Meglio tenersi a distanza.”
“Capisco. Non sono pericolosi anche per gli Elfi?”
“Sono pericolosi solo se non li conosci. Per passare basta solo turarsi il naso e correre.”
“Occhio di lince!”
L’Amuleto obbedì prontamente e la distanza sembrò scomparire. In un’ampia zona circolare attorno alla linea di vista del Mago la foresta gli balzò incontro e lui poté esaminare con tutta calma le micidiali piante che facevano la guardia ai territori elfici con tanta efficienza. Si trattava di larghe fronde simili a felci. Apparentemente innocue. Jona raccolse un sasso e lo lanciò verso le felci. Mancò completamente il bersaglio ingannato dell’Occhio. “Spegni l’Occhio fino al lancio!” Il secondo tentativo andò molto meglio: l’Occhio riapparve quando la pietra lasciò la sua mano e Jona la vide andare a disturbare alcune foglie frangiate. Le spore erano quasi invisibili. Impossibile evitarle, anche sapendo che cosa si doveva fare. Inutile mettere sentinelle al confine.
Jona rivolse l’attenzione alla rupe su cui doveva, secondo le indicazioni della matriarca, trovarsi Blanzoon. Vide solo enormi alberi. Diversi dai grandi pini che circondavano la rocca. Questi sembravano latifoglie, con i rami che correvano in orizzontale. Poi li vide. Gli Elfi stavano sui rami, badando ai fatti loro. “Avvicina!” Gli alberi gli balzarono incontro e Jona si rese conto che erano ben strani. Quei rami enormi e quasi piatti formavano delle ampie strade aeree che collegavano i vari tronchi sui quali si aprivano porte.
Gli elfi, invece, furono una grossa delusione. Jona aveva immaginato fossero quasi sovrannaturali, si trattava, invece di esseri sgraziati dalle lunghe braccia muscolose, ma con le gambe corte e dei ridicoli piedi lunghissimi. Ce n’era un gruppo intento a parlare e sembrava fossero accoccolati sui talloni. Concentrò la sua attenzione su un altro paio che stavano camminando lentamente, assorti in conversazione. Erano veramente goffi con quelle gambe corte e quei piedoni lunghi quasi quanto la gamba. Jona si rese conto che qualcosa non quadrava. “Amuleto: quelli sono Elfi?”
“Sì”, rispose laconico quello.
“Non sembrano dei gran corridori.”
“A volte le apparenze ingannano.” Nella voce c’era una distinta nota di scherno. Jona, intanto, aveva ripreso a camminare. A un tratto sentì una serie di fischi lontani e la scena si animò improvvisamente. Dovevano averlo avvistato. Niente di strano. Non faceva nulla per passare inosservato.
I due che stava spiando si voltarono verso di lui e Jona poté vedere bene i loro volti angolosi e scarni, gli occhi grandi, con la pupilla a fessura verticale e le orecchie a punta, mobili e con un ciuffetto di peli in cima. Le orecchie si piegarono di scatto all’indietro mentre le bocche si aprivano in una smorfia di allarme che metteva bene in vista quattro canini ben più lunghi e aguzzi del normale. “Linci”, pensò il Mago. I due avevano perso tutta la loro goffaggine; si erano alzati sulle punte dei lunghi piedi e sparirono in una delle aperture con pochi passi che somigliavano a balzi felini.
Jona sentì un brivido correggergli per la schiena, ma si costrinse a mantenere il passo sostenuto e costante mentre avvicinava la rupe che, ora lo vedeva bene, era circondata da un’alta siepe di rami spinosi molto fitti e strettamente intrecciati. Passare da lì non sarebbe stato facile. Non si vedevano porte di sorta.
Mano a mano che si avvicinava Jona notò anche altri particolari. Gli alberi interni erano disposti con una certa regolarità e uno solo cresceva molto vicino alla siepe, tanto che i rami arrivavano fin sopra di questa.
Proprio su un largo ramo di quell’albero, a quasi venti metri dal suolo, si era radunata una piccola folla che lo aspettava. Gli archi furono incoccati e puntati; parevano proprio intenzionati a rimandarlo da dove era venuto senza dargli modo di parlare.
Jona li ignorò e continuò a camminare puntando dritto verso l’albero che sormontava le mura vegetali. Oramai poteva vedere benissimo gli Elfi anche senza l’Occhio.
Quando arrivò proprio sotto il ramo dove gli Elfi lo stavano aspettando, piantò con forza il suo bastone. L’Amuleto si produsse in una cascata di lampi vermigli che avvolsero il bastone e andarono a scaricarsi sul terreno. Quindi Jona urlò, amplificato dall’Amuleto che traduceva in prefetto Elfico: “Chiedo udienza!”
La reazione non si fece attendere. Il gruppo si sciolse e i guerrieri, sempre con gli archi pronti, si ritirarono su per i rami, lasciando solo un Elfo dall’aspetto autoritario vestito completamente di giallo.
Questo si tolse dalla spalla il suo bastone che aveva in cima un Amuleto splendente di luce gialla e avanzò sul ramo che, lentamente, cominciò a flettersi sotto il suo peso, fino ad arrivare, quasi fosse un pontile di sbarco da nave, a toccare terra proprio davanti a Jona. Proprio come una passerella era piatto e completamente privo di foglie.
“Vieni in pace?”, chiese l’Elfo guardandolo dritto negli occhi.
Jona sostenne lo sguardo: “Sì”, rispose semplicemente, sapendo perfettamente che l’amuleto del Mago Elfico analizzava lui e la risposta per capire se stesse mentendo. La domanda diretta serviva proprio a permettere un test rapido. Jona sorrise. Anche lui aveva usato tecniche equivalenti fin troppe volte. Era un po’ strano trovarsi “dall’altra parte”. Senza aspettare un invito formale si avviò sul ponte levatoio, seguendo l’Elfo che lo precedeva con lunghi passi agili. Goffi? Gli Elfi? Come diavolo aveva fatto a pensarlo?
Mentre si avvicinavano al tronco il ramo tornò alla sua posizione originale, a confondersi con gli altri nella chioma, risollevandosi senza la minima scossa. Era largo quattro metri e quasi perfettamente piatto. Anche senza il piede felino degli Elfi si poteva camminare con tutta tranquillità.
L’Elfo lo precedette sul ramo fino ad arrivare al tronco, che era veramente gigantesco, ancora più di quanto gli fosse sembrato da sotto, e inconsueto: quasi perfettamente ottagonale. Proprio dove il ramo arrivava a congiungersi, c’era una stretta apertura che dava accesso alla camera interna. La sua guida attraversò speditamente lo stanzone spoglio lasciando poco tempo a Jona per esaminarlo. Un attimo dopo erano sul ramo, dal lato opposto, che, come aveva fatto l’altro, al loro passaggio si piegò verso il basso portandoli dentro Blanzoon.
Appena i due scesero dal ramo-ponte-levatoio questo ritornò rapidamente in alto. L’Elfo gli fece strada tornando verso il tronco nel quale, al livello del terreno, si apriva un’altra apertura protetta da una pesante tenda imbottita. L’Elfo la scostò ed entrarono.
L’interno era una stanza spaziosa che prendeva buona parte del tronco dell’albero. Il pavimento era di legno lucido e una strana scala senza ringhiera saliva a spirale lungo la parete verso il piano superiore. I gradini sembravano uscire direttamente dalla parete di legno senza fessure visibili.
Un tavolo rotondo occupava un angolo. Anche quello sembrava fissato al pavimento, come un enorme fungo piatto.
Non c’erano finestre, ma l’aria era fresca e resa luminosa da piccoli globi che si trovavano sul soffitto ed emettevano una luce calda.
Il mago elfico rimase in silenzio, lasciando che Jona esaminasse la sala nei particolari. Solo quando questi riportò l’attenzione su di lui, disse: “Questa sarà la tua casa, per ora.”
“Grazie”, rispose Jona, “ma non credo di potermi fermare molto.” Così dicendo tolse l’Amuleto di Thano dal suo alloggiamento in cima al bastone e lo posò delicatamente sul tavolo. La Bussola era chiaramente visibile.
“Nessun umano li conosce, ed è così che deve essere!”, tagliò corto l’Elfo con un tono che assomigliava a un ringhio. Jona non si lasciò impressionare e proseguì come se l’altro non avesse parlato:
“Questo è quello che dici tu, umano.”
“Lo strano disegno sul tuo Amuleto punta direttamente verso l’Innerwald. Non sono molti gli umani che hanno avuto il permesso di entrarvi. Nessuno da solo.”
“Ti ho già detto che non vedo problemi a farmi accompagnare, anzi, mi piacerebbe molto. Non ho molte informazioni sulle intenzioni di Thano, ma dubito che voglia provocare una guerra tra Elfi e Umani.” Vide un lampo nello sguardo dell’Elfo e proseguì, guardandolo dritto negli occhi: “Se anche avesse questa intenzione, non credo che io e te potremmo impedirglielo.”
Il Mago elfico diede un’altra occhiata verso il suo Amuleto, della qual cosa Jona gli fu grato — gli Elfi non sembravano aver bisogno di sbattere le palpebre; cercare di sostenerne lo sguardo felino poteva essere faticoso — poi parve rilassarsi, quasi impercettibilmente: “No, non credo tu voglia creare problemi, anche se non sono così sicuro del tuo padrone.”
Guardò Jona con un’espressione sinceramente divertita, la prima non-ostile da che era arrivato a Blanzoon: “L’unico momento in cui non sei stato completamente sincero è quando hai detto che non potremmo opporci a Thano. Hai un’alta considerazione di te stesso.”
La prigione
Jona fece il giro dell’albero-casa. Si trovava in una specie di cortile interno recintato da siepi. Siepi simili a quelle esterne: un muro compatto di spine aguzze lunghe anche quindici centimetri.
“Amuleto, la siepe non è troppo vulnerabile al fuoco?”
“Molto meno di quanto possa sembrare: i rami vecchi e le spine sono essenzialmente silicee. Bruciano malissimo e, anche completamente carbonizzate, rimangono molto solide. Devo?”
“No. Era solo curiosità. Non voglio certo farmi nemici gli Elfi, se posso evitarlo.”
Il cortile era molto ampio e allungato, circa trenta metri per cinquanta, con l’enorme albero che torreggiava, con i suoi quasi dieci metri di diametro, a un’estremità. Non c’era altro. Il cortile era coperto da un verde tappeto erboso, assolutamente piatto. Anche le pareti dell’albero erano completamente lisce., coperte da una corteccia chiara simile a quella della betulla. Alzò gli occhi e vide, come si era, d’altra parte aspettato, diversi Elfi che brandivano i loro archi e pareva non vedessero l’ora di usarli. Meglio non dar loro scuse. Jona si ritirò nell’albero che ora gli parve assai meno allegro e interessante.
Raccolse il suo zaino e cominciò a salire i gradini. Il buco scuro nel soffitto era un piccolo pianerottolo su cui si aprivamo tre porte, chiuse da pesanti tende imbottite in funzione di usci. Non ci mise molto a esplorare i suoi possedimenti; disponeva di due ampie stanze da letto gemelle e un bagno con servizi igienici separati.
Decise di occupare utilmente il suo tempo: tolse i vestiti e si diresse deciso verso la stanza da bagno.
Era strana. Parecchio strana.
Tutto era di legno, e questo poteva anche essere, ma non si vedeva la minima giuntura. Sembrava che l’intera stanza, compresa vasca, lavandino e tutto il resto fosse stata ricavata da un unico blocco scavato e lucidato.
Non era difficile indovinare la funzione delle varie suppellettili, anche se erano ben diverse da quelle che Jona conosceva.
Quell’affare che troneggiava in un angolo era certamente una vasca da bagno, anche se assomigliava a un tino. Salì i tre piccoli gradini più adatti alle zampe degli elfi che ai suoi piedi e si calò dentro, usando come appoggio il sedile che si trovava all’interno. Poco sopra la sua testa c’era una protuberanza legnosa che assomigliava più a un capezzolo che alla cipolla di una doccia. Non si vedevano rubinetti. Era cedevole al tatto e, come Jona spinse, cominciò a uscire un fiotto di acqua tiepida che si fermò quasi subito. Il mago spinse con più decisione e il flusso rimase costante per alcuni minuti prima di tornare a fermarsi. Non somigliava alla doccia di casa sua, ma era funzionale.
Jona passò molto più tempo del solito nel bagno, esplorando tutte le meraviglie che vi erano contenute. Poche cose non erano di legno: lo specchio, gli asciugamani, il sapone e poco altro.
Quando uscì, oltre che pulito, sbarbato e profumato era anche assai meravigliato. Sembrava la casa fosse “cresciuta” in quel modo, più che essere stata costruita o scavata.
Si rivestì e rimase a guardare l’attaccapanni al quale aveva, senza farci troppo caso, appeso il suo mantello: anche quello sembrava “cresciuto” dalla parete, come fosse una foglia o una spina e non applicato a posteriori.
Poi scese di nuovo al piano inferiore.
Sul tavolo c’erano due piatti fumanti, un bicchiere e due brocche.
Guardò verso la porta.
Una lieve oscillazione tradiva un’uscita precipitosa.
Si slanciò fuori con tutta la velocità di cui era capace, ma lo accolse solo la notte, illuminata da bolle lucenti che costellavano gli alberi. Nessuno era in vista, nemmeno i suoi guardiani.
Rimase qualche minuto a fissare le luci, ma non poté vedere molto perché l’alta siepe copriva tutto tranne le cime degli alberi più vicini.
Faceva fresco. Rientrò al tepore dell’albero-casa, o, meglio, dell’albero-prigione, pensò mestamente.
“Amuleto, fammi compagnia. Odio mangiare da solo e essere in galera non migliora il mio umore”, disse di malagrazia.
L’Avatar rosso dell’Amuleto apparve. Era la solita figura incappucciata, ma a Jona parve più tenebrosa del solito.
“Temo che dovrai farci il callo. Non credo che decideranno tanto in fretta. Non quando si tratta di autorizzare l’accesso all’Innerwald.”
“Cambiamo argomento. Questo non è adatto ai pasti. Non ho mai visto una casa più strana. Tutto sembra naturale, ma l’insieme è ovviamente molto artificiale e sofisticato. Non ci sono finestre, ma l’aria è fresca e profumata. Fuori fa abbastanza freddo e il legno è un buon isolante, ma non mi pare sufficiente a giustificare il calore interno.”
“Le finestre non ci sono proprio perché questo è un alloggio temporaneo, di sicurezza, per quelli, come te, considerati pericolosi intrusi. Gli Elfi prediligono i piani alti, di solito alla base degli alberi-casa ci sono stalle, magazzini e, a volte, botteghe. Le abitazioni sono molto più in alto. Hanno delle bellissime finestre con vetri decorati.”
Jona evitò accuratamente di soffermarsi sulla sua condizione: “E per areazione e riscaldamento?”
“Pensavo avessi notato le luci rosse al bagno e le fessure di aerazione.”
Jona si guardò di nuovo intorno, seguendo lo sguardo dell’Avatar. Vicino al soffitto, sulle pareti, si vedevano delle fessure che lui aveva considerato un semplice ornamento. Ce n’erano altre vicino al pavimento. Jona mise la mano davanti alla più vicina e sentì una lieve corrente d’aria entrare. Senza dubbio quelle al soffitto servivano da sfiato. Oramai si era alzato e si diresse verso la scala, in modo da poter esaminare più da vicino i bulbi luminosi. Alcuni erano decisamente più rossi. Da un metro di distanza sentiva il calore sul viso.
“Esatto, hai una buona memoria. Quelli in bagno sono molto più grossi. Gli Elfi non amano essere bagnati e stare al freddo.”
“Strana scelta le montagne, allora. Qui non deve mancare né l’acqua né il freddo.”
“Oh, se è per quello sono perfettamente in grado di sopportare entrambi, ma se possono stare al caldo lo fanno volentieri.”
Jona, e non per la prima volta, pensò al suo grosso gatto nero. Fin da quando era un micio amava acciambellarsi in un angolo del grande camino fino a sembrare una palletta. Il nome era rimasto. Gli elfi glielo ricordavano parecchio. Gli erano sembrati goffi, esattamente come sembra goffo un gatto accoccolato sulle zampe posteriori.
“Si sono evoluti dai felini?”
“Non esattamente, ma hanno parecchi geni dei grandi felini.”
“Linci?”, azzardò Jona.
“Non lo so. Può essere, a giudicare dalle orecchie, ma è meglio non saltare alle conclusioni.”
Anche lo stufato era buono, specie se annaffiato con quel vino ambrato che gli avevano portato. Jona si stava godendo la cena.
Quando ebbe finito mise i piatti in disparte e chiese il collegamento con Serna.
“Ciao papà! Dove sei?”
Fece un rapido resoconto degli ultimi giorni. Quando arrivò alla conversazione con il Mago elfico l’Amuleto si produsse in una perfetta registrazione dell’evento e quindi Jona poté riesaminare il suo comportamento. Forse l’entrata era stata un po’ troppo teatrale, ma era comunque servita allo scopo.
“Che vuol dire che: “non sei stato completamente sincero”, papà?”
“Questo è tutto, più o meno. E tu, che mi racconti?” Serna era eccitata e Jona se ne era accorto.
“Mi hanno invitata a Geva per le premiazioni.”
“Premiazioni?”
“Servigi resi al Granducato.” Serna lo stava deliberatamente tenendo sulle spine.
“Va bene: che diavolo hai combinato? E, soprattutto, come sei riuscita a convincere il Granduca a non sbatterti nelle segrete e buttar via la chiave?”
Serna non abboccò all’amo. L’indignazione era tutta fasulla: “Come ti permetti? Ho salvato la vita al Granduca in persona e a buona parte della famiglia!”
“Perché non cominci dall’inizio, così, forse, riesco a capire qualcosa?”
Serna era andata da Marlo e stavano discutendo di certe questioni riguardanti terreni lasciati incolti che erano stati ceduti, non era ben chiaro a che titolo, quando avevano visto il veliero personale del Granduca inclinarsi pericolosamente in mezzo ad alte onde che contrastavano con il resto del mare relativamente calmo.
Serna si era precipitata sulla spiaggia cercando di parlare con Posse, evidentemente incollerito.
“Cosa provoca la Tua collera, o possente?”
“Il capitano di quella nave!”
“Come Ti ha offeso?”
“Ha detto a tutti di poter portare la sua nave dove vuole, con o senza il mio permesso!”
“Idiota”, mormorò Jona fra i denti. Posse era ben noto per i suoi accessi d’ira e i marinai che lo dimenticavano non avevano una vita lunga. “Che hai fatto?”
“Cercare di calmare Posse non aveva nessun senso. Anche ammesso che ce ne fosse la possibilità, ne mancava sicuramente il tempo. La barca del Granduca non poteva reggere ancora molto. Ho usato l’Amuleto per far apparire un messaggio al Granduca. Per fortuna erano abbastanza vicini”.
“Che gli hai detto?”
“La prima cosa che mi è venuta in mante: “Buttate a mare il capitano”!”
“Mi dicono che è rimasto fermo al suo posto a recitare invocazioni per cercare di calmare Posse, ma quando sono sbarcati era ancora bianco come un lenzuolo di bucato e si reggeva a malapena in piedi. Gli altri non stavano certo meglio. Quando gli ho spiegato le ragioni dell’attacco di Posse è diventato rosso come un tizzone e voleva ripescare il capitano per strozzarlo con le sue mani.”
“Quello che la nostra Maga non ti sta dicendo”, intervenne Darda,
La corsa
Lo lasciarono a marcire per due giorni completi.
Jona fece esercizio di pazienza e cercò di riposare, ma si sentiva in gabbia, e lo era.
All’alba del terzo giorno, quando scese deciso a sollevare un cancan pur di farsi ascoltare, trovò l’altro Mago ad aspettarlo. Come al solito gli elfi andavano e venivano senza fare il minimo rumore.
“La richiesta di recarti nell’Innerwald è stata accettata.”
“Era ora!” sbottò lui, felice del cambiamento, ma non del tutto ammansito.
“Devi capire che, nonostante quello,” ribatté l’Elfo guardando fisso l’Amuleto di Thano, “non si penetra tanto in territorio elfico senza autorizzazione. Re Falanor ha dato la sua autorizzazione, ma non mi è sembrato molto contento di darla, se capisci quel che voglio dire.”
“Capisco, e credo di capire anche parte delle ragioni dietro la sua esitazione, ma star rinchiuso qui dentro, anche se con la pancia piena e riposato, non è piacevole. Specialmente quando nessuno si degna di dirti che cosa succede”, aggiunse con una punta di rimprovero.
“Comunque sia: ora stai per partire. Facciamo colazione insieme.”
Mangiarono rapidamente, con Jona che cercava di far parlare l’Elfo e quello che rimaneva sul vago, ripetendo che alle sue domande avrebbero risposto quando fosse arrivato nell’Innerwald.
Quando ebbero terminato Jona raccattò lo zaino e il suo mantello.
“Di quello non avrai bisogno, per ora. Anzi è meglio che ti metta qualcosa di più leggero, se non vuoi scoppiare di caldo.”
Jona lo guardò stupito. Sapeva perfettamente che l’aria era fresca tutto il giorno e che la mattina era, a dir poco, frizzante, ma non fece commenti. Cambiò la pesante giacca con una camicia senza maniche e i pesanti pantaloni di pelle con comode braghe di tela. Quando ebbe finito di riporre la sua roba nello zaino, l’elfo lo afferrò, se lo mise su una spalla e disse: “Andiamo!”
Trovarono quattro Elfi ad aspettarli sul ramo-ponte-levatoio. L’aria era gelida, ma anche loro erano vestiti leggeri.
Riattraversarono il doppio ponte levatoio e Jona fu di nuovo fuori da Blanzoon senza aver potuto vedere nulla del suo interno. Su un largo camminamento aereo, dove al suo arrivo c’erano gli arcieri di scolta, adesso c’era una piccola folla di curiosi, in mezzo alla quale Jona vide alcune persone con abiti cerimoniali.
Due Elfi lo presero delicatamente da sotto le ascelle e cominciarono a correre.
Jona cercò di seguire, ma andavano troppo veloci per le sue gambe. Fu brutalmente trascinato per parecchi metri, poi, senza rallentare, i due elfi lo rimisero in piedi. Correvano con lunghi balzi elastici che lui non avrebbe potuto sognare di imitare nemmeno a vent’anni, figurarsi a sessanta. Si appoggiò alle braccia che lo sostenevano e cercò di usare le gambe solo per mantenere l’equilibrio. Andava meglio, ma aveva bisogno di tutta la sua attenzione solo per rimanere in piedi.
Perse la cognizione del tempo. I polmoni gli bruciavano e il cuore andava all’impazzata. Le spalle erano un nodo di dolore. Si fermarono solo due volte per bere e scambiarsi i ruoli: due lo trasportavano, uno apriva la marcia e uno seguiva con i bagagli in spalla. Jona pensava di morire da un momento all’altro, ma arrivò la sera e si fermarono su un albero-casa in mezzo alla foresta dove riuscirono a fargli mandar giù una brodaglia dolciastra prima che crollasse con la faccia nel piatto.
Non ricordò mai come fosse arrivato sul letto, ma ricordò chiaramente che lo svegliarono che era appena l’alba. Mangiarono delle focaccette dolcissime con qualcosa che sembrava latte, ma non avrebbe saputo dire di che animale, poi ripartirono al galoppo.
Il viaggio durò sei giorni e solo durante l’ultimo Jona si riprese abbastanza da riuscire a guardarsi attorno senza il bisogno di rimanere costantemente concentrato sul movimento dei suoi piedi. Era in una bella valle dove i grandi pini lasciavano spesso posto a grandi alberi-casa e alle strade aeree che li collegavano. L’insieme sembrava ordinato e progettato, come se ogni singola foglia fosse lì perché lì qualcuno l’aveva voluta. L’insieme era bellissimo e completamente alieno
Stavano risalendo la valle e gli alberi casa si facevano sempre più ravvicinati.
Oramai c’erano elfi dovunque, anche se non si vedevano gli affollamenti delle città umane. Gli Elfi avevano bisogno di spazio, come tutti i cacciatori, pensò Jona.
Oramai erano arrivati. Davanti a loro si ergevano due enormi alberi casa gemelli. Solo il colore era diverso: uno era completamente verde e l’altro sembrava d’argento. Erano così grandi da far sembrare un fragile fuscello l’albero che lo aveva ospitato a Blanzoon. Questi erano veri e propri palazzi.
Le sue guide si diressero verso il palazzo verde dove rimontarono senza rallentare una rampa larga come una strada maestra. In cima li aspettava un Elfo completamente paludato di verde che accolse Jona con un asciutto sorriso: “Benvenuto al tempio di Asclep, umano.”
I guerrieri elfi gli restituirono zaino e bastone prima di inchinarsi al sacerdote, girarsi all’unisono e ripartire di corsa. Jona dovette appoggiarsi al bastone per rimanere in piedi e la sua voce uscì stridula quando ricambiò il saluto: “Salute e onore a te e al tuo Dio, Elfo.”