9: In difesa dei Pesci

I Pescatori di Tigu

Posse era appena svanito e ancora aleggiavano nell’aria gli echi della sua rabbia.
Serna era accorsa al molo appena aveva sentito il brontolio minaccioso della voce del Dio.
Il suo studio non era lontano dal porto, ma quando era arrivata Posse era alle battute conclusive:
Interrogò con lo sguardo Sullo, un omaccione grande e grosso che dettava legge nel porticciolo.
“Abbiamo trovato i resti della barca dei Pardi, Signora”, disse con un’aria mogia che non gli si addiceva, “completamente distrutta. Un Fulmine Celeste, credo”.
C’era dell’altro. Serna lo sapeva e aspettò pazientemente.
“Erano andati a pescare alla secca”, disse come se questo spiegasse tutto.
Serna sapeva che avevano scoperto da poco un secca, parecchio al largo, che era molto pescosa, ma non capiva ancora che fosse successo. Decisamente le mancavano informazioni. Stava per chiedere qualcosa quando vide Sullo alzare lo sguardo e fissare qualcosa alle sue spalle. Si girò e vide Tarasso che si avvicinava a grandi passi.
“Vi avevo avvertiti!” Gridò rivolto ai pescatori assembrati, “ma voi niente! Se non ci scappa il morto non siete contenti. Eppure dovreste sapere che con Posse non si scherza. Pescare con le reti in quella secca non si può. Lo ha vietato.”
Serna cominciava a capire “Perché lo ha vietato?”
“Posse non è stato molto chiaro nemmeno con me,”rispose Tarasso direttamente a Serna, “ha detto che con le reti finiremo per non avere più pesci perché distruggono più di quello che raccolgono. Sinceramente non mi sono azzardato a chiedere spiegazioni; era già abbastanza infuriato.”

“Noi dobbiamo dar da mangiare alle nostre famiglie!” Saltò su un pescatore cercando di aggirare la mole di Sullo che lo fulminò con un’occhiata.
“Gengi ha ragione”, convenne poi guardando dritto Tarasso, come se fosse colpa sua,
“Beh, ora le famiglie dei Pardi staranno meglio, vero?” ritorse Tarasso, provocando un brontolio minaccioso dalla piccola folla di pescatori.
“Sei sicuro che siano le reti a dar fastidio a Posse?” intervenne Serna, più per interrompere la discussione che era avviata su una pessima china che perché avesse effettivamente qualcosa da dire.
“Sì”, rispose Tarasso rendendosi conto di aver esagerato, “su questo è stato chiarissimo”.
“Beh, allora proviamo a chiedere a Festo se ci può dare qualche alternativa”, propose Serna tirando fuori il suo Amuleto dalla tasca del grembiule.
“Festo, chiediamo il Tuo consiglio ed il Tuo Aiuto!”
Festo non si fece attendere a lungo. L’Amuleto cambiò colore e: “Chi ha bisogno della mia Arte?
“Sono io, Serna figlia di Jona e Dania, che ti invoco. Posse ha proibito l’uso delle reti, ma i pescatori devono pescare. Puoi suggerirci qualche altro modo?”
Perché Posse ha proibito le reti?
“Dice che distruggono più di quello che raccolgono”, spiegò Serna cercando di ripetere quello che le aveva detto Tarasso con le stesse parole, sperando fossero quelle che aveva usato Posse.

“Ma con gli ami si pesca poco!” intervenne una voce da dietro Sullo.
Sullo, Serna e Tarasso si voltarono per vedere chi fosse che osava interrompere un Dio.
Festo, che fino a quel momento era stato solo una voce incorporea, apparve con il suo viso affilato sopra l’Amuleto e guardò dritto verso Serna: “Cara ragazza, io non sono imbecille e con gli imbecilli non parlo.” Dopo di che, senza dire altro, scomparve. L’Amuleto riprese il suo normale colore giallo.
Serna chiuse gli occhi, prese un gran respiro e poi esplose: “Bravi!” Urlò con quanto fiato aveva, “Avete fatto arrabbiare Posse e ora volete mettervi contro anche Festo? Perché non pensate, prima di parlare? Farete esattamente quello che dice Lui. Per ora si pesca con canna, lenza e amo.”
Si girò a guardare Sullo negli occhi e, per un istante, sembrò sovrastarlo, anche se era trenta centimetri abbondanti più bassa di lui: “Tu sei responsabile. Nessuno deve usare le reti, almeno non nei pressi di quella stramaledetta secca!”
Si girò verso Tarasso ignorando completamente i pescatori: “Intanto noi dobbiamo cercare di capire come uscire da questa situazione; puoi chiedere udienza a Posse per me?”

Affrontare Posse

Serna e Tarasso imboccarono la lunga scalinata che portava in cima al promontorio dove torreggiava il Tempio di Posse.

Camminavano con passo spedito; non è il caso di far attendere un Dio, specialmente uno irascibile come Posse. Ognuno era chiuso nei suoi pensieri. Serna stava utilizzando la scala per gli esercizi di concentrazione che suo padre le aveva insegnato: coordinare il movimento delle gambe con la respirazione, mantenere l’attenzione sul “punto”: quella zona del basso ventre da cui sembrava scaturire tutto il movimento. In breve tempo l’ansia scomparve assieme ai pensieri coscienti e lei era pronta ad affrontare Posse

Posse apparve nell’istante stesso in cui entrarono nella cella interna del tempio, senza bisogno di invocazioni.

Era chiaramente furibondo, tanto che l’aura blu che lo circondava non riusciva a nascondere compiutamente il colorito paonazzo del suo viso.

Questo scempio deve finire!” attaccò rivolto direttamente a Serna.
I pescatori devono capire che il Mare non è loro; devono rispettarlo. Il Mare è generoso, ma ha i suoi diritti, come li hanno gli abitanti del Mare!
Posse continuò la sua invettiva per un certo tempo, mentre Serna taceva, ascoltava e aspettava il momento adatto per intervenire.
Una cosa era chiara: i pescatori avevano fatto qualche danno con le loro reti in quella famosa secca, Posse ne aveva vietato l’uso, ma qualcuno aveva provato a ignorare il divieto. Più di questo, dalla filippica di Posse, Serna non riuscì a cavare.

Serna approfittò di una breve pausa per intervenire.
“Anch’io non capisco e Ti chiedo umilmente di aiutarmi a capire.”
Ma continuano a distruggere senza curarsi di capire!
“Io non sono una pescatrice e il mio Ufficio è capire!” intervenne Serna con improvvisa veemenza.
Posse la guardò con occhi nuovi: “Va bene: se vuoi capire ti darò i mezzi per capire. Domani all’alba vieni alla cala del granchio.
“Ci sarò!”
Posse la guardò in modo strano: “Lo credo bene”, disse lentamente, “non sembri una ragazza stupida.
Serna sentì un brivido lungo la schiena.

Sotto il mare

La mattina dopo Serna era alla Cala del Granchio ben prima del sorgere del sole. Si trattava di una lunga spaccatura larga una decina di metri, incassata nell’alta falesia. Era quasi buia e il pescatore che l’aveva accompagnata con la sua barca a remi aveva imprecato più di una volta contro il maroso che tentava di portarli contro gli scogli. L’aveva lasciata sulla spiaggetta sassosa ed era ripartito come avesse le orche sulla sua scia
Serna si aggiustò il mantello leggero che aveva portato. L’umidità della notte lo stava bagnando e lei cominciava ad aver freddo. Il cielo era oramai chiaro, ma la cala era ancora in ombra tanto che Serna non si accorse dell’arrivo dello strano pesce fino a quando questo non si arenò sulla spiaggia. Aveva un corpo nero e affusolato e un’enorme testa trasparente e rotonda che sembrava una boccia di vetro. Il pesce aprì la bocca e tirò fuori una lunga lingua rossa che arrivò fin quasi ai piedi di Serna. L’invito era esplicito. Serna salì sulla lingua che era dura e ruvida; non cedette di un millimetro sotto il suo peso.
Appena salita, la lingua si ritirò e la bocca, se era una bocca, si richiuse. Serna era in una bolla sferica di un materiale trasparente che sembrava vetro, ma non lo era. Lei era in piedi su quella lingua rossa che sembrava un pavimento e non si vedevano né gola né denti
Lo strano pesce cominciò ad arretrare e presto fu di nuovo completamente in acqua. Procedette a ritroso fino a che non trovò spazio sufficiente per permettergli di girarsi, quindi tornò al mare aperto. La volta azzurra si chiuse sopra la sua testa e Serna ebbe un attimo di terrore, ma nella bolla l’aria rimase fresca e asciutta. Si rilassò e allentò la presa dal tubo che correva tutto attorno alla bolla e al quale si era aggrappata quando il “pesce” si era girato, ondeggiando lievemente. L’attenzione di Serna fu attratta dal mondo che la circondava.

Stava viaggiando a pochi metri dal fondale che scorreva veloce sotto i suoi piedi. Tutto stava diventando azzurro. Gli altri colori svanivano lentamente per lasciar spazio solo al colore del mare. Le rocce della costa lasciarono presto posto a foreste di posidonie che ondeggiavano languidamente al maroso.
Continuarono a scendere seguendo il fondale fin dove divenne pianeggiante. Era molto scuro e si distinguevano appena i particolari. La superficie, lassù, era lontanissima. Il fondale, prima dominato da grandi massi staccatisi dalla scogliera, ora si stava facendo più piatto e i pesci più rari e più grossi. Serna stava cercando di capire in che direzione stessero andando, anche se era quasi certa che il suo vascello stesse correndo verso la famosa secca. La posizione del sole confermava la direzione. Serna si rilassò cercando di godersi il viaggio. Molto presto il pesce ricominciò a salire e la velocità di nuoto diminuì di rapidamente. Già arrivati? Evidentemente sì. Le piccole pinne sulla coda del suo pescione si agitavano meno furiosamente, ora e la bolla che la conteneva scivolava pigramente fra enormi nuvole di pesci di tutti i colori e di tutte le dimensioni.

La secca era un enorme panettone che si alzava dal fondale. La bolla stava risalendo lentamente a spirale verso la cima.
Serna aveva fatto un po’ di ricerche la sera prima e Dana le aveva spiegato che molti dei pesci di quei mari avevano bisogno di fondali poco profondi per deporre le uova. Quella era la stagione della riproduzione e, infatti, si vedevano nuvolette di migliaia di pescetti, avannotti nati da poco, che si inseguivano e si nascondevano fra l’alta vegetazione per sfuggire a rapaci predatori che si avventavano su chi si attardava.
Improvvisamente la scena cambiò, le alghe erano ammonticchiate e morte, il fondale arato. I branchi di grossi pesci c’erano ancora, ma gli avannotti erano scomparsi. Le reti?
Le reti”, confermò la voce di Posse al suo fianco.
Serna sobbalzò. Posse stava nuotando senza sforzo accanto a lei.

Ma non pescheranno a lungo se non permettono ai pesci di riprodursi!
“Quando è l’epoca della riproduzione?”
Ragazza, non fare la furbetta con me. So benissimo che ti sei documentata
“Scusa. Non intendevo mancarTi di rispetto, volevo solo lasciare che Tu esprimessi il Tuo Volere.”
Farò finta di crederti: per questi pesci qui il periodo critico è Aprile-Maggio, ma, comunque, la vegetazione ci mette parecchio tempo a ricrescere. Devo vietare la pesca con le reti a strascico per tutto l’anno.
Serna era delusa, aveva sperato di riuscire a contrattare una sospensione della pesca per un paio di mesi. Ai pescatori non sarebbe piaciuto, ma potevano sopravvivere, poi quello che Posse aveva detto arrivò a segno: “quindi possono usare le reti fisse?” chiese speranzosa.
Non da fine Marzo a metà Aprile quando le femmine sono cariche di uova.
“E per la pesca con gli ami?”
Quella possono farla anche tutto l’anno, se vogliono, basta che li usino abbastanza grossi da non prendere i giovani
“Sono sicura che i pescatori non Ti deluderanno.”
Ho i miei dubbi. Avvertili che non mi interessa che cosa usano o perché, ma se qualcuno fa di nuovo qualcosa che assomiglia a questo farò del mio meglio per usarlo come cibo per i miei sudditi!” disse con voce minacciosa allargando le braccia.
Serna era rimasta concentrata sul Dio e non si era accorta che si erano fermati nel bel mezzo della secca, a pochi metri dalla superficie. La sabbia bianca copriva tutto il fondale. Non c’era ombra di vegetazione e solo qualche predatore passava veloce.
Ci vorranno anni perché questo posto torni a essere verde.
Serna abbassò il capo come se fosse una sua colpa personale.
“Farò del mio meglio”, bisbigliò.
E io darò forza alle tue parole, cara ragazza” rispose Posse con la voce più gentile che Serna gli avesse mai sentito usare.

Tarasso

In pochi minuti di corsa forsennata erano di fronte alla costa. Puntavano dritti verso la scogliera del capo, come se volessero andarci contro. Solo all’ultimo momento Serna vide che davanti a loro si apriva un lungo tunnel oscuro. Il pesce entrò senza rallentare e, dopo un breve tragitto nel buio più assoluto, si fermò in una piccola caverna avvolta nella penombra. Riaprì la bocca e la lingua andò a posarsi su un piccolo molo sotterraneo di pietra liscia e umida. Serna scese e il pesce si rituffò senza rumore.
Dal molo partiva una scala scavata nella roccia; lei cominciò a salire lentamente.
“Amuleto: luce!” disse nella lingua della magia. L’Amuleto divenne più luminoso e proiettò un fascio di luce giallastra davanti a lei. La scala era molto antica, ma ben tenuta e pulita. Esattamente duemila gradini più tardi si trovò davanti a un archetto coperto da una tenda pesante. Dopo un istante di esitazione Serna la scostò e uscì alla luce del sole.
“Ti stavo aspettando. Posso offrirti un rinfresco? Devi essere stanca.”
Tarasso, il Sacerdote di Posse, le stava offrendo una coppa di succo di frutta.
Serna si rese conto che aveva ragione; la tensione era stata forte.
“Grazie”, disse sincera assaporando il liquido asprigno; melograno e lamponi? Combinazione interessante.
“Posse ha un’alta considerazione di te. Ti conviene non deluderlo.” Serna venne riportata con i piedi per terra da quella semplice constatazione. Le implicazioni erano molteplici. Passare inosservati, al di sotto del livello della coscienza degli Dei era relativamente facile. Essere notati era un privilegio di pochi, ma, spesso, anche una maledizione.
“Non ho mai cercato di passare inosservata”, disse Serna ad alta voce seguendo i suoi pensieri.
“No, penso proprio di no”, assentì Tarasso, “Devono essersi accorti di te fin da quando hai rubato l’amuleto di tuo padre per fare i fuochi in cielo sulla spiaggia”.
Serna arrossì. Tarasso aveva solo una decina d’anni più di lei e, quella famosa sera, era anche lui con gli altri ragazzi alla spiaggia. Lei aveva solo cinque anni e suo padre era andato su tutte le furie. Non aveva alcuna difficoltà a ricordare il dolore delle tre scudisciate che le aveva affibbiato sulle gambe, né l’umiliazione per il fatto che la punizione fosse pubblica. Ora sapeva che suo padre era stato orgoglioso della sua performance, anche se l’aveva punita come meritava. Non era strano che una bambina cercasse di giocare con gli attrezzi dei grandi, ma era assolutamente eccezionale che l’Amuleto si lasciasse rubare e cooperasse con lei. Lo spettacolo di fuochi in cielo era stato veramente bello
“Sapevi perché Posse era così arrabbiato con i pescatori?”
“Non di preciso. Ho visto anch’io la devastazione solo ora”, disse indicandole quella che a Serna era sembrata un’ampia fontana. Era sbucata in una zona del tempio che non aveva mai visitato, sotto un ampio porticato c’era la fontana. Serna si avvicinò e vide che si trattava di un gigantesco occhio degli Dei. Una riproduzione in miniatura del tratto di mare davanti al golfo di Tigu. Tarasso mormorò qualche parola e la vista cambiò, mostrando la sommità della secca. Era possibile vedere tutte le ferite inferte dalle reti.

Serna annuì meditabonda. “Grazie. Avrò bisogno del tuo aiuto.” “

Rimase ancora un po’ a parlare con Tarasso e accettò un leggero spuntino, poi ripartì verso casa. Era ancora mattina e il sole stava appena cominciando a scaldare l’aria. La strada era lunga, ma tutta in discesa. Serna si mise al piccolo trotto, impaziente di arrivare. Per fortuna aveva messo un paio di solide scarpe e non i sandali leggeri che usava di solito quando andava al mare.

Il dono di Festo

“Dardaaaaa!” urlò senza fermarsi mentre passava davanti alla cucina.
Darda entro nello studio pochi minuti dopo: “La signora ha chiamato?” disse senz’ombra di ironia. In altra occasione Serna sarebbe arrossita fino alla radice dei capelli, ma ora non la sentì nemmeno, affascinata com’era dalla cosa che aveva davanti.

Darda rimase in silenzio a guardare quello strano millepiedi che occupava quasi tutta la stanza. Interrompere Festo per chiedere spiegazioni era impensabile. L’Amuleto di Serna era diventato d’argento e pulsava al ritmo delle parole del Dio.
“Ci riusciremo! Riusciremo a farlo funzionare! Grazie Festo!”
Aspetta a ringraziare. Dovete ancora dimostrare di non essere gli imbecilli che siete sembrati ieri. Non vi darò, stavolta, le istruzioni complete. Solo l’idea generale. Guarda bene questo modello perché è tutto quello che avrai.
L’Amuleto tornò a splendere del solito colore giallo intenso. Festo se ne era andato.
“Amuleto: fai una copia di questa immagine prima che scompaia.”
“Festo ha inibito questa funzionalità.” Serna imprecò fra i denti.

“Mi vuoi spiegare che sta succedendo?” chiese Darda, che, intanto, si era avvicinata e stava osservando da vicino l’immagine.

Il rompicapo di Festo

La preparazione dello strano marchingegno prese due giorni completi di tentativi ed errori da parte di Serna e alcuni pescatori. La scelta delle sagole da usare e il semplice annodare tutti quegli ami si rivelarono un rompicapo niente male, ma, alla fine, Serna era convinta di avere davanti al lei esattamente quello che Festo aveva suggerito.

Arrotolarono il millepiedi sul fondo di una barca, lo coprirono con una cerata e andarono a dormire tranquilli. Domani all’alba sarebbero andati a provare.

Serna si alzò di buon’ora e si recò al porticciolo dove avrebbe atteso il rientro dei pescatori che erano andati a provare il millepiedi, anzi, il “milleami”, come avevano preso a chiamarlo.
Arrivò al porto proprio mentre la barca faceva il suo ingresso con la piccola vela latina gonfia della prima brezza di mare.
Così presto? Strano. Dovevano tornare verso mezzogiorno o nel primo pomeriggio.
Serna allungò il passo. Qualcosa non andava.
La barca aveva ammainato la vela e stava attraccando al piccolo molo. Il vento le portò il brusio di voci incollerite. Qualcosa decisamente era andato storto! Serna cominciò a correre.
“Eccola!”
“Ecco il gran genio che arriva!”
“Scemi noi a darti retta!”
“Guarda che cosa ne è del tuo milleami!”
Le urla e gli sghignazzi la investirono come un’onda rabbiosa lasciandola boccheggiante e senza forze. Ci mise parecchio tempo a ricomporre nel mosaico di invettive l’accaduto: era bastato un piccolo spostamento della matassa che gli ami avevano agganciato le sagole. Il risultato stava davanti a lei: un enorme nodo informe sul fondo della barca.
Se ne andarono furenti per i tre giorni di lavoro inutile lasciandola a guardare, con occhi che rischiavano di traboccare di lacrime, il nodo della sua sconfitta. Nelle orecchie le rimbombava quel: “Ma dov’è il Mago? Perché ci ha abbandonati nelle mani di questa qua?”
Il brusio si spense lentamente alle sue spalle.
Dove aveva sbagliato?
Cosa avrebbe fatto suo padre?
E ora? Che fare? C’era qualcosa da fare?
“Conoscevo bene tuo padre”, la voce rasposa la fece sobbalzare, “avrebbe fatto esattamente quello che hai fatto tu.”
Serna si girò e si trovò di fronte Agio, il vecchio pescatore dalla faccia solcata di rughe e la pelle che sembrava cuoio maltrattato.
“L’unica differenza sarebbe stata che Jona avrebbe saputo che il primo tentativo sarebbe andato male. Gli indovinelli degli Dei non sono mai semplici.”
“Grazie Agio. Che devo fare ora?”
“Vai a casa e calmati. Io districo questo ginepraio.”
“Ti aiuto.”
Agio rise: “Queste mani hanno sciolto più lenze di quanto tu possa immaginare. A ognuno il suo lavoro. Saresti solo d’impiccio.”
Da chiunque altro sarebbe stata un’ulteriore offesa, ma Serna sapeva che Agio stava solo enunciando un fatto. Né più né meno.
“Va bene. Quando hai finito ti aspetto a casa.”
Agio soppesò l’intrico con un’occhiata: “Non prima di stasera, forse domattina.”

Serna e il pescatore

Le ombre si stavano allungando quando Agio si presentò alla grande casa con tre grossi saraghi in spalla.
All’occhiata interrogativa di Serna rispose con un sorriso: “Per il milleami non so, ma il dieciami funziona.”

“Il “dieciami”?”
“Ho tagliato un pezzo del tuo mostro e l’ho provato alla Cala del Granchio. Con un po’ d’attenzione una decina di ami si riescono a gestire. Questo è il risultato.”
“Ti fermerai a mangiarli con noi”, disse Darda con il tono di chi enuncia un fatto incontrovertibile mentre si impossessava delle prede che Agio aveva posato sul tavolo e cominciava a pulirle.
“Sei riuscito a districarlo?” chiese Serna.
“Sì, certo, ma ho dovuto tagliarlo in un paio di punti. Ho usato il pezzo più corto.”
“Non si aggroviglierà di nuovo?”
“Non c’è pericolo. Lo ho appeso ai pali che uso per far asciugare le reti.”
“Ottimo. Peccato che non possiamo portarceli in mare.”
“No. Non abbiamo barche abbastanza grandi.”

La mattina dopo Serna era dietro la baracca di Agio e guardava sconsolata quel lunghissimo arnese. Avevano già provato quattro modi diversi di arrotolare ordinatamente la lenza in una grossa cesta e poi a tirarla fuori, come per filarla a mare, tutte e quattro le volte, nonostante cercassero di evitare movimenti bruschi, inevitabili fra le onde, presto uno degli ami si impegolava nella matassa e dovevano smettere per evitare di ingarbugliare tutto.
“È inutile! Festo mi ha proprio presa in giro. Anche facendoci la mano, calare a mare quest’affare è un lavoro di tutta una giornata. Non lo vorrà usare nessuno!”
“Gli Dei non mentono mai!” Serna si girò e si trovò davanti Marlo.

“Se Festo ti ha detto che puoi trovare il modo di usarlo allora puoi trovare il modo, ma non è detto che sia facile. Non è ancora il tocco e ti vuoi già dare per vinta?”

“”Credevo”, “pensavo” e “speravo” non portan le api al favo” sentenziò Marlo.
Serna gli lanciò un’occhiata che avrebbe dovuto incenerirlo, ma che provocò solo un bonario sorriso:
Serna rimase un attimo in silenzio. “Grazie Marlo. Cercherò di ricordarmelo”, disse poi con voce seria.
“Perché non proviamo a legare le lenze secondarie, in modo che non diano problemi mentre le caliamo a mare?” disse rivolta ad Agio.
Il nuovo tentativo fu coronato da successo

Agio rimase abbastanza stupito da dimenticare l’irritazione. Chiuse la porta della casupola presso il porto troppo grande per lui, ora che non aveva più nessuno con cui condividerla, e seguì Serna che continuava a parlare più per riempire il silenzio che per dire veramente qualcosa.
“Daardaaaa! Ho portato Agio, come mi avevi chiesto tu!” Disse varcando il portone rivolta verso la cucina.

Darda era, come al solito, sulla sua poltroncina in un angolo del portico e stava riordinando il suo interminabile lavoro di ricamo. Era oramai troppo buio per continuarlo. “Grazie cara” disse semplicemente guardandola dritta negli occhi. Vi lesse quello che doveva leggervi e, senza aggiungere altro, prese Agio sotto braccio e lo guidò verso la cucina: “Ieri pesce, oggi carne. Sono sicura che il mio stufato non ti dispiacerà.”
Serna tirò un sospiro di sollievo.
Il giorno successivo caricarono la cesta con il milleami sul calesse e la portarono nel cortile della grande casa del mago. Tutta la mattina, infatti era stato un susseguirsi di curiosi, di perdigiorno e, soprattutto, di malelingue. Serna era stata costretta a invocare un incantesimo di allontanamento per avere un po’ di pace, ma sapeva bene che quello che bruciava di più era il sospetto che avessero ragione, quando canzonavano Agio perché dava retta alla “strega pazza”.
Continuarono a lavorare, ma il risultato era sempre lo stesso: schemi semplici portavano ad aggrovigliamenti e schemi complessi funzionavano, a volte, ma richiedevano troppo tempo. Dopo un paio di giorni non avevano più idee. Oramai stavano pensando in circolo. Così non si andava da nessuna parte.
L’unica cosa veramente positiva era che Agio aveva abbandonato la sua indole taciturna, forse dovuta più al fatto di non aver nessuno con cui parlare che ad una vena del suo carattere. Ora parlava molto. Con voce lenta, come dovesse sempre cercare le parole, ma raccontava di una vita passata sul mare, come marinaio in terre lontane da giovane, come pescatore in vecchiaia. Serna era affascinata da quelle storie e aveva cominciato a chiamarlo “Zio Agio”
“Andiamo a farci un caffè”, propose Serna.
“Un caffè non si rifiuta mai!” sentenziò lo “Zio” alzandosi prontamente dal suo sgabello.
Andando verso la cucina passarono davanti alla solita postazione dove Darda stava ricamando: “Già finito, oggi?” chiese dando un’occhiata significativa verso il sole ancora molto alto nel cielo.
“Pausa Caffè!” le rispose Serna con un sorriso.
“Mi pare una buona idea”, approvò Darda scostando il telaio che aveva davanti, “metto a posto gli aghi, ché altrimenti mi si ingarbugliano tutti i fili e arrivo.”
Darda stava infilando gli aghi che aveva usato e che teneva appuntati sul petto, sul bordo di morbido sughero del cestino, assieme a tutti gli altri. Tutti in fila a formare un variopinto arcobaleno di fili di lana.
Serna e Agio si guardarono: “Nonna, sei un GENIO!!”
“Ma che dici?”, ma oramai i due erano in fondo al corridoio. Darda scrollò le spalle bofonchiando: “Mi sa che dovrò prendermi il caffè da sola.”
A cena Serna era raggiante, tanto da rompere la regola che vietava di parlare di lavoro a tavola: “Funziona benissimo! Abbiamo filato il milleami due volte in un’ora! L’idea di Darda è stata perfetta. Abbiamo messo un bordo di sughero attorno alla cesta e ci abbiamo infilato gli ami uno dopo l’altro, così non possono aggrovigliarsi. Domani andiamo a provare in mare. Darda, devi venire anche tu con noi.” Era un fiume in piena.

La Pesca

Agio scostò la sua barca dal molo con una pedata, issò la vela con pochi movimenti decisi e fissò la drizza sulla galloccia con due volte, poi afferrò la scotta per far prender vento alla vela e sbandò completamente il timone con il piede nudo.
Serna lo guardava affascinata. Nulla nei suoi movimenti era casuale. Sembrava una danza, ma non lo era. Non si trattava di una coreografia, fissa e immutabile, ma del reagire al richiamo del mare e del vento. La barca sbandò un momento, come un cavallo che scuote la testa a una briglia troppo nervosa, poi si raddrizzò e filò serena verso l’uscita del porticciolo sotto la spinta di un vento leggero, ma costante.
Agio era nel suo elemento. Fuori dal porto mise la prua in direzione della secca, regolò la vela, fissò la scotta e finalmente si sedette, prendendo la barra del timone con la mano per la prima volta da quando erano saliti sulla barca.
“Rilassatevi e godetevi il viaggio. Ci vorranno almeno due ore, se il vento non gira.”
Il sole non era ancora sorto e l’aria era fresca. Le due donne si avvolsero nei loro scialli. Darda aprì un paniere che aveva ai piedi ed estrasse una grossa bottiglia di legno chiaro.
“Qualcuno vuole del caffè?” chiese, mentre versava il liquido nero e fumante in tre piccole ciotole.
Il sole si alzò pigro disperdendo la bruma del mattino. Nel porticciolo oramai lontano si vedeva crescere l’attività e altre vele raccolsero il vento. Serna sorrise: erano riusciti a ottenere almeno un’ora di vantaggio. Probabilmente non avrebbero avuto curiosi attorno. Tirò fuori l’Amuleto e iniziò il rito di evocazione per Posse.
“Mi sto recando alla secca”, disse quando il Dio si manifestò.
Lo so
“Dobbiamo provare il milleami dono di Festo.”
So anche questo.
“Chiediamo il tuo permesso.”
Vi osservo.
Decisamente Posse non era particolarmente di buon umore. Serna era tentata di rinviare a tempi migliori, ma il tempo stringeva.

L’Occhio del Cielo si aprì senza che Serna lo avesse invocato. Mostrava la secca sotto il mare; due ampie zone erano di un colore rosso acceso.
Potete piazzarli qui, dove le reti hanno già distrutto tutto.” La voce era tagliente, “vedete di non sbagliare”.
Fu Agio a rispondere sicuro: “Non Ti deluderemo Posse.”
Posse replicò con una voce diversa, più dolce e venata di rispetto: “So che non lo farete. Tu non mi hai mai deluso, Agio, non una volta nella tua lunga vita.
Quest’Occhio vi aiuterà a non sbagliare. Buona pesca!
L’aura blu del Dio scomparve, ma l’Occhio dal cielo rimase, molto più preciso e dettagliato di quelli che Serna riusciva a evocare. Agio lo osservò con occhio critico: “Se ci portiamo qui”, disse piantando l’indice calloso su un lato della più piccola delle macchie rosse, “Il vento dovrebbe spingerci fin qui” il dito percorse una retta che finiva sulla seconda macchia rossa, “e la distanza è quasi esattamente la lunghezza del milleami”
Serna finse di controllare, giusto per darsi un tono, ma sapeva perfettamente che Agio aveva ragione e che, in mare, sapeva valutare le distanze molto meglio di lei, con o senza Amuleto.
Quando si avvicinarono alla secca la loro barchetta comparve nell’immagine dell’Occhio dal Cielo. Serna seguiva il suo procedere, ma Agio guardava il mare e manovrava la barca con precisione millimetrica.
“Giù!” Al comando di Agio Serna tagliò la sagola che tratteneva il primo dei corpi morti e quello si inabissò mentre la barca, alleggerita, sbandava. Agio approfittò dello sbandamento per far girare la prua al vento e fermarla. Lasciò la barra del timone e corse a prua dove la cima legata al corpo morto si stava svolgendo rapidamente. Quando si fermò, segno che il corpo morto, un grosso pietrone irregolare, aveva raggiunto il fondo, si affrettò a legare la cima a bordo ancorando la barca. Serna gli porse un gavitello formato da una grossa boccia di spesso vetro giallo con due solidi anelli, sempre di vetro, alle due estremità. Usò uno degli anelli per fissarlo alla cima che saliva dal corpo morto. Il primo gavitello era in posizione.
Agio fissò un capo del milleami all’altro anello del gavitello e lo porse a Serna: “Pronta?” senza attendere risposta sciolse la cima che tratteneva la barca e questa, spinta dal vento, prese ad allontanarsi lentamente. Serna pregò che Ipno vegliasse su di lei e cominciò a filare il milleami mentre Agio, con mani sicure, innescava gli ami, mano a mano che dovevano esser gettati fuori bordo.
L’intera operazione richiese quasi un’ora e si svolse senza alcun incidente.
Alla fine calarono il secondo pietrone a far da corpo morto e fissarono il secondo gavitello. Sul mare c’erano ora due grossi palloni gialli uniti da una collana di perline gialle danzanti sulle onde che si stavano ingrossando sotto la sferza della brezza.

Pic nic sull’isolotto

Lo Scoglio del Pino era uno strano posto. Un enorme masso che sporgeva dalle acque per parecchi metri con un vecchio pino solitario, piegato dai venti, che formava un ampio ombrello verde sulla cima dello scoglio, quasi piatta. Era sempre stato meta di molti giovani, ed era uno dei posti più ambiti per chiedere la mano della propria bella. Si diceva nessuna ragazza avesse mai rifiutato una proposta fatta su quello scoglio che effettivamente aveva un certo fascino arcano. Le solite male lingue dicevano che nessuna ragazza con un briciolo di cervello avrebbe mai accettato la gita allo scoglio per poi rifiutare una volta arrivata lì.
Quell’estate lo scoglio aveva visto pochi visitatori. Era troppo vicino alla secca dove Posse infuriava. La barca di Agio era la prima che attraccava nella piccola insenatura da molti mesi.

Salirono la scala intagliata nella roccia viva e prepararono il pranzo sotto le fronde del pino.

“Ora Posse mi ha portato via anche i gemelli.” Agio parlava con voce serena, il dolore cristallizzato nel suo cuore, vissuto e accettato. Trasfigurato in una risorsa dalla quale attingere forza:
“Conoscevi mio padre da giovane? Nessuno mi parla di mio padre da bambino. Sembra che nessuno ricordi niente prima che venisse scelto come apprendista Mago.”
Agio rise: “Sole e sale non sono stati teneri con la mia pelle vero?”
Allo sguardo interrogativo di Serna proseguì:
Le riminiscenze di Agio furono interrotte dal ronzare insistente dell’Amuleto che, alle richieste di Serna rispose con un laconico: “Meglio affrettarsi.”

Ritorno

Il vento era più fresco, ora che la brezza di mare soffiava decisa.
“Amuleto: chiamami Tarasso!”

La voce di Tarasso arrivò quasi subito: “Che c’è, Serna?”
“Puoi controllare la zona della secca e vedere se ci sono pericoli in arrivo?”
“Vado subito. Problemi?”

Si sentirono passi affrettati e un’invocazione salmodiante, poi il silenzio. Serna poteva quasi vedere Tarasso chino sull’immagine che cercava.

“Si mangeranno i pesci all’amo!”
“Che Posse se li porti!” inveì Agio torvo, “Se si mangiano i pesci all’amo, sempre che ci siano, possiamo dire addio al milleami. Lo faranno a pezzi!”
“Puoi fare qualcosa, Tarasso?”
Altre invocazioni seguite da un breve silenzio.

“Dove sono, di preciso?” chiese Serna facendo riapparire l’Occhio dal Cielo.
“Circa due miglia a sud-est della secca e stanno puntando lì, dritti dritti. Probabilmente sanno anche loro che è una buona zona per pescare.”

Serna fece muovere l’immagine e individuò il branco. Era ancora in acque profonde e nuotava veloce. Agio valutò la situazione con un’occhiata: “Arriveremo al milleami più o meno contemporaneamente, se mi muovo per intercettarli”, disse modificando la rotta di pochi gradi,
“Quanto tempo abbiamo?”
“Mezz’ora.”

Sentirono il rimbombo lontano del tuono molto prima di vedere l’uccello. Era candido e assomigliava a un grosso cigno con il lungo collo teso in avanti. Volava basso sull’acqua con le ali tese e ferme.
Erano molto rari e Serna aveva avuto a fortuna di vederne uno solo una volta. Volava alto e Jona aveva dovuto indicarglielo perché lei sentiva il suo urlo, ma non riusciva a localizzarlo. L’uccello era molto più avanti di dove lei lo stava cercando. Jona aveva approfittato della cosa per farle una lunga lezione pratica sulla velocità del suono e su come calcolare la distanza di una cosa dal tempo fra immagine e rumore.

Serna si era persa nei ricordi, nel frattempo l’uccello li aveva superati e puntava come un fulmine verso il branco dei tonni. Proprio mentre entrava nel raggio d’azione dell’Occhio si abbassò ancora fin quasi a sfiorare le onde. Si vedeva chiaramente che lasciava una scia sul mare, pur senza toccarlo.
Quando arrivò davanti al branco accelerò ancora e il tremendo tuono scosse le acque mentre l’uccello saliva in cielo per fare un ampio giro.
Gli occupanti della barca avevano gli occhi puntati sull’immagine dei tonni che si erano fermati e parevano disorientati. Serna mormorò qualche parola all’Amuleto.
L’uccello intanto aveva terminato il suo giro e puntava di nuovo verso i pesci. Fece un secondo tuono, identico al primo, tra i tonni e la secca. I pesci decisero che qualcosa non andava, da quelle parti e puntarono decisi verso il mare aperto.
Serna si accorse improvvisamente che da un po’ aveva dimenticato di respirare; urlò: “Grazie, Zeo!” con tutto fiato che aveva.
L’uccello, intanto stava girando rumorosamente su di loro, fece una specie di piroetta, come per salutarli, e se ne andò con un ultimo boato di tuono.
Serna si ritrovò a pensare oziosamente che quell’uccello non doveva essere molto bravo ad arrivare di soppiatto, con tutto il baccano che faceva.

Agio, intanto, stava nuovamente puntando verso la secca e il milleami: “Andare a vela non è la cosa migliore. Probabilmente poi sarà meglio usare le barche a remi, ma questo è quello che avevamo e dobbiamo arrangiarci.”
“Non ti preoccupare, sappiamo quello che dobbiamo fare.”

Arrivarono sul primo gavitello che già Agio stava ammainando la vela.
Serna afferrò la cima e la legò a bordo ancorando solidamente la barca.
Agio finì di sistemare vela e timone, poi prese in mano la cima, controllò che le due donne fossero pronte e infine sciolse il capo del milleami dal gavitello.
La barca cominciò a muoversi sospinta dal vento.
Agio tirava energicamente il milleami a bordo aiutato, in parte, dal vento.
Serna prendeva gli ami, staccava i pesci, se c’erano, e conficcava ordinatamente gli ami ormai puliti sul bordo della cesta.
Darda arrotolava ordinatamente il milleami e le lenze nella cesta.

Quando arrivarono al secondo gavitello si fermarono un momento a guardare il risultato del loro lavoro: il milleami era arrotolato nella sua cesta e non aveva subito danni, loro avevano le braccia indolenzite dal lavoro a cui non erano abituati e la barca stava rischiando di affondare sotto il peso dei pesci che ancora guizzavano.
Un grido di gioia esplose all’unisono: ce l’avevano fatta. Rimanevano ancora problemi, primo fra tutti quello dei tonni: non potevano scomodare Zeo tutte le volte! Ma ce l’avevano fatta!