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  • Come i Salmoni

    Le imbarcazioni che erano andate alla pesca in mare aperto, presso un gruppo di isole lontane, furono avvistate esattamente dieci giorni dopo il suo arrivo al villaggio.

    In questo periodo Jona aveva saputo molte cose sul popolo dei Viknuit — così si chiamavano i suoi ospiti — soprattutto da Tremalsong, sempre contento di raccontare e ascoltare racconti, ma anche da tutti gli altri che, poco a poco, avevano preso a fidarsi di lui e venivano volentieri nella grande casa vicino al mare a sentire le storie fantastiche che raccontava.

    Venne così a sapere che i Viknuit si consideravano il popolo dei salmoni: come i salmoni migravano in mare aperto per trovare cibo, come i salmoni ritornavano sempre al villaggio d’origine dove trovavano le loro donne per prolificare e, più tardi, per finire la loro vita.
    Le donne, specie quelle in età feconda, non si allontanavano mai troppo o troppo a lungo dal villaggio dov’erano arrivate alla pubertà.
    Molto raramente, quando i villaggi diventavano troppo affollati, avveniva una diaspora e un certo numero di ragazzini non ancora nella pubertà venivano portati in un nuovo posto per formare una nuova colonia e lì lasciati assieme ad un certo numero di anziani per aiutarli.

    I maschi adulti dei Viknuit prendevano il mare due volte all’anno: una in primavera, seguendo le rotte dei salmoni verso nord — ed erano questi che stavano ora tornando — e una seconda volta qualche settimana dopo il rientro, i più giovani partivano per la grande traversata verso la foce del Fiume Rabbioso, dal quale si diceva che venissero tutti i Viknuit e tutti i salmoni del mondo.

    Questa grande traversata era tanto lunga che chi andava doveva svernare laggiù e tornare l’estate successiva.

    La ricchezza principale del villaggio era costituita da una miniera di sale sulle colline dell’entroterra, sale che veniva usato per la concia e la conservazione del pesce.

    Buona parte della lavorazione del pesce e della carne delle foche, altra risorsa importante, veniva fatta direttamente sulle barche.

    Jona si stupì che si potesse fare una cosa del genere su barche tanto piccole, ma Tremalsong rise: le barche che vedeva erano solo dei giocattoli. Le navi Viknuit erano molto più grandi, fino a quaranta metri.

    Le navi della “migrazione breve” erano imponenti, simili, come struttura, alle barche da pesca, ma lunghe dai venticinque ai quaranta metri e larghe, al centro, dai sei agli otto metri.

    Erano navi slanciate, con prua e poppa alte e quasi identiche fra loro, solo la presenza del largo timone differenziava la poppa.
    Avevano un unico albero che sosteneva un pennone che lo faceva diventare ancora più alto.
    Le vele erano due: un fiocco e una randa aurica.

    La giornata era splendida e il vento favorevole.
    Arrivarono ad appoggiare la prua sulla battigia senza usare i remi.

    Jona capì a cosa fossero dovuti i lunghi solchi che partivano dalla spiaggia a lato del villaggio.
    Le grandi navi vennero tirate a terra su quegli scivoli naturali e lì rimasero mentre la festa del ritorno cominciava.

    Il Mago rimase in disparte a guardare.
    Erano sei, sapeva che tre avrebbero ripreso il mare per raggiungere, si sperava, il Fiume Rabbioso.

  • Al villaggio

    Le poche barche del villaggio stavano prendendo il largo per un’altra giornata di pesca.

    Jona rimase a guardarli pensoso. I conti non tornavano.
    Le case erano ampie e ben tenute, le barche poche e a portarle erano ragazzi e vecchi.
    A terra si vedevano solo bambini e donne.
    Dov’erano gli uomini?
    Di certo non troppo lontani, dato che aveva intravisto lavarsi alla fonte una ragazza che doveva essere ai primi mesi di gravidanza.

    Scese lentamente dal crinale per dar modo ai pescatori di avvistarlo e, sperava, decidere che non era pericoloso.
    La sua apparizione generò scompiglio.
    I bambini scomparvero e così anche le ragazze più giovani.
    Le donne mature e i vecchi presenti si riunirono in un capannello, evidentemente per decidere sul da farsi, poi si schierarono presso le prime case del villaggio. Avevano in mano quanto poteva servire da arma, inclusi parecchi arpioni di rispettabili dimensioni.

    “Probabilmente non hanno mai visto un cavallo”, lo informò l’Amuleto.
    Jona valutò la distanza, poi, ben prima di arrivare alla portata delle armi da lancio, si fermò e scese da cavallo.
    La cosa provocò un visibile ondeggiamento nelle fila di quelli che si stavano preparando a difendere il villaggio da un mostro.

    Jona avanzò ancora qualche passo tenendo il cavallo per le briglie, arrivato ad un piccolo pruno selvatico vi legò la bestia e procedette appoggiandosi pesantemente al suo bastone.
    L’Amuleto scelse di mantenere un basso profilo ed evitò di mandare lampi o bagliori che potessero essere interpretati come una minaccia.

    L’Occhio di Lince gli mostrava volti preoccupati e tesi, sempre più tesi mano a mano che lui si avvicinava.
    Prima che la tensione finisse per andare fuori controllo Jona si fermò e attese. Immobile.

    Per qualche minuto non successe nulla, poi il muro compatto si aprì per lasciar passare una vecchia incartapecorita che venne verso di lui appoggiandosi a un corto bastone.

    “Chi sei, straniero?” Chiese quando fu a pochi passi.
    “Sono un pellegrino che segue il volere degli Dei.”
    “Da dove vieni? Non abbiamo mai visto stranieri in questa terra”, poi indicò con il bastone il cavallo “e nemmeno mostri come quello!”
    “Io vengo da un mare molto lontano. Ci sono altri uomini su questa terra, ma a molti giorni di cammino e non credo siano interessati a venire da queste parti. Per quanto riguarda il “mostro”, è un cavallo; è un animale docile e, in cambio di un po’ di foraggio fresco, è disposto a trasportare me e la mia poca roba.”
    “E dove devi andare adesso?”

    “Attento”, sibilò l’Amuleto.
    La vecchia aveva ancora il bastone alzato e, al nome di Thano, tentò di calare la punta acuminata sulla testa del Mago che si limitò a passare il suo lungo bastone dalla mano destra alla sinistra, intercettando il pericoloso fendente,

    “Non credevo di meritare tanta attenzione dalla Morte”, disse la vecchia riguadagnando l’equilibrio perduto nell’attacco.
    “Tutti avremo la nostra parte di attenzione da parte di Thano”, le rispose sorridendo Jona, “ma io non credo di aver niente a che fare con questo. A quanto pare è a me che Thano si interessa in questo momento e ha deciso che devo andarlo a incontrare lontano da casa.”
    “Scusa”, gli mormorò l’Amuleto all’orecchio, “temo di aver tradotto qualcosa del tipo “mi manda Thano” che suona abbastanza minaccioso.”

    Jona le mostrò la Bussola che puntava dritta verso il villaggio.
    “Vi chiedo ospitalità in nome degli Dei fino a quando non mi indicheranno di ripartire.”

    Jona la interruppe: “Non so se voi abbiate scelta, io non ne ho di sicuro. Se preferite posso accamparmi da qualche parte nei dintorni in attesa di capire quali sono le volontà degli Dei.”
    La vecchia scosse il capo: “No. Sento il volere di Thano molto forte. Non ci conviene cercare di sfidarlo. Aspetta un momento.”

    Ciò detto si girò e tornò verso la sua gente.
    Ci fu un concitato conciliabolo, poi la piccola folla si divise in due, mantenendo tutta la sua compattezza, e formò un corridoio.
    La vecchia lo chiamò con un cenno della mano.
    Lui andò a recuperare il cavallo e si incamminò a passo lento verso di lei.

    Il corridoio si allargò.
    “Starai a casa mia finché piacerà agli Dei, se anche mio marito è d’accordo”, gli disse la vecchia.
    La casa era simile a tutte le altre: un grande rettangolo di mura a pietra coperto da un tetto a doppio spiovente composto da uno spesso strato di lunghi fili d’erba sovrapposti in modo da tenere la pioggia fuori e il caldo dentro. Era vecchia, ma molto ben tenuta, ed era la più vicina alla riva del mare, proprio dove finivano i ciottoli della spiaggia e cominciava l’erba.

    Davanti all’ingresso sedeva un vecchio pescatore intento a rammendare una rete. Le sue mani correvano veloci sui fili, mentre il suo sguardo vagava lontano.
    “Chi porti, Issa?”
    “Un vagabondo mandato da Thano, penso che stia meglio da noi che altrove, che ne dici?”
    “Un messaggero di Thano?” Si girò verso Jona con lo sguardo esitante:

    Jona avrebbe voluto sbuffare, ma lo fece il cavallo per lui.
    Il vecchio si girò verso il cavallo allarmato: “Thano?”

    “I suoi occhi hanno visto troppe primavere. Ora non vedono più nulla”, spiegò la vecchia Issa.

    “Non sono un messaggero di Thano. Thano mi impone questo viaggio, ma non ho incombenze e non sono certo venuto per prendere te.”

    Jona guardò l’Amuleto, ma la Bussola era sparita. Lo fece notare alla vecchia: “Questo significa che mi devo fermare qui fino a nuovo ordine.”

    Il vecchio era evidentemente in bilico fra il sollievo di non essere l’oggetto delle attenzioni di Thano e la delusione. Sembrava molto più rassegnato al suo immancabile destino di quanto non lo fosse Issa.

    Jona rimase affascinato nel vedere come le mani del vecchio danzavano sulla rete, ne trovavano i difetti e li curavano, senza essere aiutate dagli occhi.
    La vecchia Issa era entrata in casa e Jona rimase a lungo a chiacchierare con Tremalsong — questo era il nome del vecchio — e da lui seppe che tutti gli uomini adulti erano ora in mare, come tutti gli anni. Sarebbero tornati presto, una settimana, forse due, dipendeva da come era andata la pesca, poi sarebbero ripartiti per la grande traversata, ma non tutti. Alcuni sarebbero rimasti per iniziare la costruzione di altre barche.

    Tremalsong tendeva a divagare, a raccontare aneddoti, a far domande e Jona aveva ancora le idee piuttosto confuse quando arrivò la prima barca che fece per spiaggiare proprio davanti alla casa.

    La vista di Jona e, soprattutto, del cavallo produsse una notevole agitazione, con il risultato che l’operazione, evidentemente eseguita centinaia di volte, non riuscì bene e solo una piccola parte della prua salì sulla spiaggia, troppo poca per riuscire a trascinare la barca in secca.

    Stavano cercando di usare una cima per trascinarla, ma la posizione non era comoda; Allora Jona prese la palla la balzo, si avvicinò con il cavallo, chiese “posso aiutare?” e poi, senza aspettare risposta dagli intimoriti marinai, legò la cima alla sella del cavallo e lo mise a tirare.
    Non era certo la bardatura ideale da tiro, ma il cavallo era molto robusto e la lunga scialuppa da pesca salì leggera sulla spiaggia salutata da grida di gioia e risate.

    Jona sorrise soddisfatto: il ghiaccio era rotto.

  • I pescatori del fiordo

    Ne passarono tre, di settimane, prima che Jona arrivasse nei pressi del villaggio che costituiva, per ora, la sua meta.
    Dopo essersi inerpicato per un ripido crinale di quella terra che sembrava graffiata da titaniche zampate che l’avevano ridotta a striscioline grossomodo parallele, vide sotto di sé il villaggio: un insieme di case con i tetti di paglia poste intorno alla riva del mare, che lì sembrava più un largo fiume o uno stretto lago.
    Gli ultimi giorni di viaggio erano stati molto duri. Il continuo sali-scendi fra le alture e la difficoltà di trovare un passaggio praticabile l’avevano sfinito.
    Anche i boschi, prima rigogliosi si erano fatti sempre più radi fino a cessare del tutto, lasciando solo qualche macchia di piccole betulle a presidiare un territorio dominato dall’erba alta e dalle rocce nude.

    “Occhio di Lince!” Mentre il villaggio gli balzava incontro e gli riportava le immagini familiari dei pescatori intenti a rammendare le reti e riporre le barche si sentì stringere il cuore in una fitta di nostalgia per il suo mare lontano.

    Poi le differenze divennero evidenti. Quello non era il suo mare, nonostante gli scogli e l’azzurro intenso che già stava prendendo i colori dorati della sera. Quello era un mare freddo; piatto come una tavola, tanto da sembrare un lago, costretto com’era in quell’intrico di fiordi, ma serio, quasi minaccioso, non giocoso e allegro come quello che conosceva. D’altra parte: chi si sarebbe mai sognato di andare in spiaggia vestito di pelle e a volte di pelliccia in piena estate?

    Anche gli abitanti erano differenti: avevano lineamenti grossolani, facce rotonde e piatte con occhi piccoli e un gran naso schiacciato.
    “Sono i figli di qualche altro Dio?” Chiese all’Amuleto.
    “No. A quanto ne so sono una popolazione naturale, non modificata dagli dei. Vengono da lontano, molto lontano.”
    “Ho come la sensazione che mi toccherà vederla la terra da cui provengono. Vieni, preferisco presentarmi domattina, con tutta la giornata davanti. Torniamo ad accamparci dietro quella macchia di betulle che abbiamo passato poco fa.”

  • Il viaggio verso nord

    Erano dieci giorni che Jona cavalcava verso nord.
    Da quando aveva salutato Tarciso non aveva più visto essere umano, né alcun segno che ce ne fossero nei dintorni.
    Stava percorrendo sentieri usati dagli animali fra boschi e radure.
    Le sue provviste erano quasi finite, ma la natura, almeno in quel periodo dell’anno, era generosa e trovare cibo non era un grosso problema.

    “Questo è il posto più solitario che abbia mai visto. Anche nella Foresta Oscura c’era più gente.”

    “Vuoi dire che mi stai facendo evitare i villaggi di proposito?”
    “No, qua attorno non c’è nessuno davvero. Ti stavo solo facendo notare che hai espresso un giudizio senza avere tutti i dati.”
    “Vero. In questo caso avrei potuto fare delle ricerche, magari usando l’Occhio, ma si trattava di una cosa di scarsa importanza, almeno al momento, detta solo per parlare un po’. D’altra parte, fosse anche stata importante, non capisco il “avere tutti i dati”. Nella mia esperienza mi è capitato tante volte di “non avere tutti i dati” e dover decidere lo stesso, anzi, a voler essere pignoli, le volte che avevo tutti i dati sono state veramente poche!”
    “Alt, alt! Mi sono espresso male. Come al solito le sfumature di significato si perdono. Dicendo “tutti” io intendevo “tutti quelli che avresti potuto reperire senza troppe difficoltà””

    “Ovviamente no. Chi sono io per sapere esattamente cosa abbia in mente un Dio?” Poi, prima che Jona facesse seguire parole allo sbuffo seccato: “Però qualche ideuzza ce l’ho. Ricordi quel che ti diceva Tarciso sulla funzione di Comunicazione?”

    “E lo Swahili?”
    “Lo Swahili è una lingua molto antica. Ha molte parole per esprimere le forze della natura, le loro interazioni e la loro “volontà”. Penso che sia questo quello a cui si riferiva Ipno quando diceva che ti ha aiutato, tramite il sogno, a comprendere il collegamento fra la realtà e la nostra rappresentazione di essa.”

    “Torniamo a bomba”, proseguì Jona dopo qualche minuto di silenzio. “Dicevi che qua attorno non c’è nessuno. Dove stiamo andando?”

    “Quanto è lontana ancora?”
    “Parecchio. Siamo a poco più che metà strada e, tra non molto, cominceranno le alture che ci faranno perdere più tempo.”
    “Fai vedere.”
    Apparve la vista dall’alto che comprendeva tutta Albon e le terre a nord. Jona vide che si trattava di una grande isola rozzamente triangolare. Il puntino giallo che rappresentava la loro posizione era più o meno a metà, mentre il cerchietto rosso che indicava la destinazione era molto più a nord, al fondo di un lungo fiordo che faceva penetrare il mare per chilometri.
    La terra era corrugata con ampie fratture che correvano parallele da sud-sud-ovest a nord-nord-est, quelle vicine alla costa formavano i fiordi.
    Di fronte, verso ovest, si intravedeva un’altra grande isola. Jona chiese all’Amuleto di mostrargliela meglio, ma quello rispose che non poteva. Poteva mostrare solo le cose fino a una certa distanza, poi diventavano sempre più confuse.
    “Ma come”, si stupì il mago, “anche l’altro giorno mi hai permesso di fare un Occhio su Tigu, che è sicuramente più lontano!”

    “Non vedo nulla che indichi la presenza di uomini fino al nostro arrivo.”
    “E infatti, a quel che ne so, non ce ne sono.”

    “Stai parlando di quell’orribile cosa che fanno con l’avena?”
    “No, quello, che qualcuno usa dalle tue parti, è uno dei peggiori! Non credo che tu riesca a preparartelo qui in mezzo al nulla, ma puoi cominciare a raccogliere gli ingredienti necessari.”
    “Che sarebbero?”
    “Radici di cicoria e pere selvatiche. Ci vorrebbe anche dell’orzo, ma qui non lo puoi certo trovare.” Continuarono a discutere di come sostituire l’amato caffè e Jona cominciò ad accumulare nelle bisacce erbe, frutti e radici che, a detta dell’Amuleto sarebbero serviti per produrre un “caffè” accettabile.

    Qualche giorno dopo, durante una delle interminabili chiacchierate con l’Amuleto, Jona tornò sull’argomento lingue.

    L’Avatar dell’Amuleto, appollaiato sul pomo della sella, lo guardò storto e stava par replicare, ma Jona lo bloccò in fretta:
    “L’albionese”

    “Si dà il caso sia la mia lingua natale.”
    “Coincidenza? Non credo molto alle coincidenze, specie quando c’è di mezzo Thano.”
    “Potrebbe essere stato uno dei fattori che ha deciso Thano a mandare proprio me, ma non saprei proprio.”
    “E non lo sapremo mai, se Thano stesso non ce lo dice; partiamo dal presupposto che sia, almeno un po’, importante. Quali sono le caratteristiche dell’albionese? In che cosa differisce dallo zenano o dallo swahili?”

    “Quattordici.”

    L’amuleto tacque per qualche istante, come se stesse pensando, poi, un po’ esitante:

  • Ipno

    L’ingresso della caverna era uno spazio nero, solo leggermente più nero della notte che li circondava.

    Senza la guida dell’Amuleto non l’avrebbero mai trovata.

    Entrarono in quella bocca spalancata che li inghiottì, separandoli dal fortunale che imperversava.

    Quel buio sembrava appiccicoso e si scansava di malavoglia davanti alla luce proveniente dall’Amuleto.

    Si stavano ancora scrollando di dosso l’acqua che li inzuppava quando, sottovoce, l’Amuleto disse: “Abbiamo visite.”

    Il buio si coagulò nella figura di Ipno.

    Sono contento che tu abbia ritrovato almeno un po’ del tuo equilibrio”, disse ignorando completamente Jona.

    Tarciso crollò in ginocchio davanti al Dio mentre Jona abbassava il capo in segno di rispetto, tenendosi in disparte.

    Tsk, Tsk. Vorrei tanto sapere chi ha messo in giro la storia che noi pretendiamo questo”, proseguì indicando la posizione di Tarciso con un gesto teatrale, come si trovasse di fronte a una folla invisibile, “Alzati, come facciamo a parlare, sennò? Non ho voglia di inginocchiarmi nel fango, io!

    Tarciso lo guardò un po’ stupito, non sapendo bene cosa fare e Ipno fece un gesto con la mano, indicandogli di tirarsi su.

    Fece il gesto di aiutarlo ad alzarsi e Tarciso scattò in piedi come se avesse avuto una molla al posto delle gambe.

    Così va meglio. Tsk, tsk, dove eravamo rimasti? Ah, sì: che pensi di farne del tuo equilibrio?

    Tarciso borbottò qualcosa di inintelligibile.

    Tsk, Tsk, forse mi sono sbagliato. Forse non rischi di riperdere il tuo equilibrio. Forse non l’hai mai ritrovato.

    “Ti sta chiedendo che intendi fare delle tue scoperte”, intervenne a bassa voce Jona.

    Tarciso si stava riprendendo e si vedeva che stava lottando per capire cosa volesse davvero da lui Ipno.

    “Non so bene, prima ho pensato di tornare all’Accademia e insegnare quello che so, ma più passa il tempo e meno mi pare una buona idea.”

    Tsk, tsk, mica passano tutti i giorni dei Cercatori di Thano che parlano Swahili a tirarti fuori dai guai, sai?

    “Swahili?” Jona, che stavolta pensava di aver capito Ipno, si trovò di nuovo spiazzato.

    Sì, Swahili: la lingua del tuo vecchio Amuleto si chiama Swahili”, gli rispose senza degnarlo di uno sguardo, “Conoscerla ti ha aiutato parecchio, pappagallo.

    “Allora non devo insegnare quello che so?”

    Tsk, tsk. Non si può mica ricordare tutto, nella vita! Scegliere cosa dimenticare aiuta a ricordare meglio.

    Vedendo la faccia inespressiva di Tarciso, Jona suggerì: “Ti sta dicendo che ci sono delle parti da tenere per te, ma il resto lo puoi insegnare”, e fu gratificato da un rapido assenso del Dio.

    “Cosa devo dimenticare?”

    Jona si stupì di quanto gli sembrassero chiare le frasi di Ipno ora che si rivolgeva a un altro, mentre gli erano sempre sembrate criptiche quando si rivolgeva a lui.
    Pareva proprio Tarciso avesse lo stesso problema.
    Tradusse: “Sono gli esperimenti fatti con Sofonte che devi tacere. Puoi cercare di insegnare quel che vuoi, ma non portare prove” e Ipno annuì di nuovo.

    Temo non esista più, almeno da questa parte del cielo.

    “Sofonte?”
    Ha scelto di ricordare altro.

    Tarciso rimase un momento in silenzio, poi: “Meglio così. Non sarei riuscito a tacere con lui.”

    Gli Dei sono qui per questo. Ora dormi.
    Tarciso si accasciò lentamente e Jona si affrettò a sostenerlo e a trascinarlo in un angolo asciutto dove lo distese su una coperta.

    “Quali sono le istruzioni per me, Ipno?”
    Nessuna istruzione per il Cercatore. Dimmi: ti è chiaro, ora, che cosa sia la pazzia e quanto ci siete andati vicini?

    “Penso che la pazzia sia quando il sogno prende il volo e i sensi non riescono più a legarlo alla realtà.”

    Per tutto il bene che hai fatto, qui e altrove, ti regalo un interrogativo, anzi, tre: Il sogno è fedele alla realtà? Quanto è fedele? Quando è fedele?

  • In viaggio verso nord

    La mattina era fresca e luminosa. I primi raggi del sole stavano ricacciando sotto gli alberi la bruma notturna.

    Tarciso era già uscito e Jona mise a bollire la cuccuma per un caffè mattutino. Aveva quasi esaurito le sue già magre riserve, ma questa volta ce n’era veramente bisogno. Tra poco avrebbe dovuto rinunciare completamente a quel piacere a meno di non riuscire trovarne, cosa che ormai disperava fosse possibile.
    Si diresse quindi verso l’Amuleto che aveva lasciato in cima al bastone, vicino al letto improvvisato.

    La Bussola era ricomparsa.
    Rimase a fissarla, con i pensieri che volavano in tondo come uno stormo di avvoltoi che hanno avvistato una carogna, fin quando il caffè non fu pronto, poi ne versò due tazze generose e uscì a cercare Tarciso.

    Lo trovò che stava trafficando nell’orto.
    Stava finendo di scuoiare due lepri certo rimaste impigliate in qualcuna delle tante trappole che si vedevano lì attorno.
    Vedendo la direzione del suo sguardo Tarciso chiosò: “Cercano di distruggermi l’orto, ma, in fondo, è giusto così: io do da mangiare a loro e loro danno da mangiare a me!”
    “Tieni, ho preparato un caffè.”
    “Cos’è?”

    Tarciso bevve con una certa diffidenza, e parve gradire: “Buono, perché dici che “aiuta a svegliarsi”?”
    “Nessun sottinteso. Contiene semplicemente una sostanza blandamente eccitante che aiuta a rimanere svegli.”

    “Io devo ripartire presto, forse oggi stesso.”
    “Lo so”, rispose Tarciso un po’ abbattuto,

    Quegli avvoltoi che stavano continuando a girare nella testa di Jona si fusero in un’aquila luminosa che calò in picchiata: “Perché non vieni con me, almeno per un po’? Tu avresti un sogno divertente da sognare e io, magari, potrei anche imparare qualcos’altro.”

    Tarciso scosse la testa sconsolato: “I sogni vanno sempre dove pare a loro.”
    “Non è vero, e tu dovresti saperlo, se hai fatto tutti quegli studi sul sonno. Quando si è vicini al dormiveglia si può dirigere i sogni, almeno un pochettino.”
    “Ma io non sono nel dormiveglia!”
    “Con tutto quel caffè in corpo! Sono stupito che tu non sia del tutto sveglio.”

    Tarciso, in fondo, voleva essere convinto e quindi Jona riuscì a convincerlo con una certa facilità.

    Passarono la giornata a chiudere l’ingresso della spelonca per impedire agli animali di entrare, a prendere le poche cose che Tarciso si voleva portare e a parlare di cervello, neuroni, coscienza e idee. Jona si era accorto che l’accademico lo stava usando come uno specchio, per mettere, cioè, meglio in fila le sue idee e lo lasciava parlare a ruota libera, intervenendo solo di rado.
    Come con Arianna stava applicando la massima che diceva: “Se vuoi apparire un abile conversatore, taci e fai finta di essere interessato a quel che dicono gli altri” e, ancora una volta, verificò che conteneva un’enorme dose di verità: da svogliato e quasi balbettante il suo ospite si era gradualmente trasformato in un conferenziere appassionato..

    Jona sentiva che quello che diceva Tarciso era vero
    La conclusione finale non gli tornava per niente, anche se sembrava insita nelle premesse. Lui non si sentiva per niente un sogno e non gli sembrava un sogno nemmeno l’altro.

    L’indomani partirono di buon’ora, a piedi, dopo aver caricato sul cavallo le provviste.
    Si dirigevano quasi esattamente a nord, lontano da tutti i centri abitati.
    Poco dopo la partenza Jona presentò ufficialmente a Tarciso l’Amuleto, che divenne il terzo nelle loro interminabili chiacchierate.

    L’Accademico non aveva mai visto un Amuleto che si comportasse a quel modo, ma, si sa, nei sogni possono succedere le cose più strane, quindi lo accettò senza problemi.

    I giorni passavano lenti nella primavera che avanzava a grandi passi.

    L’atteggiamento di Tarciso, intanto, cambiava lentamente e trattava oramai Jona da suo pari, senza chiamarlo “sogno” ad ogni piè sospinto.
    Il Mago era contento di questo, anche se era evidente che Tarciso era ben lungi dall’ammettere che la realtà esterna aveva una qualche possibilità di esistere.

    Dal canto suo Jona si convinceva sempre più della validità delle analisi dell’Accademico, pur senza riuscire ad arrivare alle stesse conclusioni.
    Sentiva che c’era un errore cruciale da qualche parte, ma non riusciva a capire dove.

    L’Amuleto aveva le capacità di fare analisi dell’attività cerebrale, anche se non erano raffinate come quelle dell’Amuleto di Sofonte. Gli erano necessarie, disse, per poter poi agire sulle terminazioni nervose “giuste” nelle varie magie.

    Confermò appieno i risultati di Sofonte: l’unica differenza fra lo stato di veglia e quello di sogno sembrava essere la disconnessione di apparato sensoriale e apparato motorio durante il sogno. Tutto il resto sembrava essere identico, almeno nei limiti di precisione dell’Amuleto.

    Poi Jona fece un sogno

    In alto, molto in alto, un Uccello del Tuono di Zeo faceva evoluzioni.
    Jona lo salutò con la mano.
    Quello si abbassò per rispondere al saluto e esplose il suo grido più da vicino.
    Jona lo salutò di nuovo e quello si abbassò ancora.
    E ancora, ancora, finché il rombo non divenne assordante.
    Si era distratto.
    Non si era accorto che la zattera era entrata nelle rapide.
    L’acqua gli spruzzava sul viso.
    La zattera si agitava sotto di lui scuotendolo

    “Adesso capisco!” Esclamò Jona improvvisamente all’erta mentre la pioggia cominciava a cadere con grossi goccioloni ancora radi.

    “Che diavolo stai dicendo? Vieni che dobbiamo trovare riparo!”

    Jona si tirò il cappuccio sugli occhi e cominciò a raccogliere meccanicamente le sue cose: “Tarciso, cerca di seguirmi”, disse lentamente, “Quello che per noi è, soggettivamente, il mondo è, come hai sempre sostenuto tu, composto della stessa sostanza dei sogni.”
    “Appunto.”
    “Ma, ed è un “ma” grosso come una casa, i nostri sensi, quando sono attivi, fanno sì che il “sogno” sia compatibile con la realtà esterna, oggettiva.”

    Si mossero tirandosi dietro il cavallo sotto la pioggia che batteva.
    Camminavano in silenzio da più di un’ora con la guida dell’Amuleto, quando Tarciso disse sottovoce: “Allora non sono davvero pazzo come credevo.”

  • Tarciso

    Dopo una settimana a cavallo e cinque visite inutili, compresi i tre considerati più probabili, Jona era comprensibilmente stanco, ma la stanchezza sparì immediatamente quando l’Occhio di Lince gli mostrò il viso del sesto eremita. Era sicuramente Tarciso. Più magro e con un gran barbone, ma era sicuramente lui. Anche l’Amuleto confermò dopo il confronto con le immagini che aveva avuto dall’Amuleto di Sofonte.

    Spronò il cavallo mentre l’immagine dell’Occhio svaniva.
    Il sole stava calando fra le basse colline e lui si presentò apertamente chiedendo ospitalità per la notte, come aveva già fatto le altre volte.

    Stavolta un latrar di cani lo accolse e due grosse bestie nere apparvero sulla porta della spelonca piazzandosi ai lati di Tarciso.

    Jona scese da cavallo e si avvicinò lentamente appoggiandosi al suo bastone. Prima che avesse il tempo di aprir bocca Tarciso, che lo stava osservando con curiosità, piegò la testa da un lato e chiese: “Che razza di sogno sei, tu? Non ti ho mai visto. Di solito sogno cose che conosco!”

    “Uff, e questa sarebbe una novità? Tutti i sogni cercano di convincermi di essere reali, senza riuscirci, ovviamente. Il mio cervello deve aver esaurito la scorta di novità”, aggiunse con aria sconsolata.

    “Se ti annoi tanto perché non proviamo con qualcuna delle novità del mio cervello?” propose il Mago.
    “Oh, bella! Perché tu non esisti, naturalmente!”
    “Penso che dovrei offendermi un po’, come sarebbe che non esisto?”

    Tarciso alzò gli occhi al cielo roteandoli: “No, un altro sogno ricorrente no! Notte! Nera! Cacciatelo via!”
    I due grossi cani si lanciarono verso Jona senza abbaiare, ma con intenzioni assassine.
    Jona, che si aspettava qualcosa del genere, mormorò poche parole all’Amuleto e l’Ala di Ipno avvolse i due animali facendoli crollare profondamente addormentati ai piedi del Mago.

    “Non c’è modo di sfuggire, vero?”, borbottò Tarciso scuotendo la testa, “Avrò vissuto questo sogno una decina di volte. Va bene, vieni dentro che ti faccio il solito discorsetto.”

    Jona cominciava a dubitare che il colloquio sarebbe servito a qualcosa, ma oramai era lì e tanto valeva andare fino in fondo.
    Prese dalla sacca un po’ di provviste e seguì Tarciso.

    L’interno della spelonca prese Jona completamente di sprovvista: l’alta spaccatura dell’entrata lasciava entrare parecchia luce e aria, tanto che Tarciso aveva messo una pesante tenda per bloccare la parte bassa. Un fuoco ardeva vivace su un focolare di pietra rialzato; dietro c’era un solido tavolo di legno e quattro sedie (quattro?). Il pavimento di terra battuta era liscio e pulito. Addossato alla parete di fondo c’era una cassapanca vicino ad un alto pagliericcio coperto da pelli.
    Tutto era in perfetto ordine, persino la cuccia dei due cani.

    Un coniglio stava arrostendo allo spiedo.
    Tarciso tirò fuori dalla cassapanca due piatti e due bicchieri e li mise sul tavolo.
    Jona, da parte sua, contribuì con una pagnotta quasi intera, una grossa fiasca d’idromele e un paio di salamini.

    “Questa è una novità”, disse Tarciso sorseggiando l’idromele, “Di solito i sogni curiosi arrivano con del pessimo liquoraccio, questo è eccellente! Forse le mie sinapsi si stanno riattivando.”
    “Ma non mi hai ancora detto perché mi consideri un sogno.”

    Tarciso allontanò il piatto, oramai vuoto, che aveva davanti e piazzò i gomiti sul tavolo, sporgendosi verso Jona, come per osservarne l’espressione alla luce tremula della candela.
    “Va bene.”
    Si rilassò sullo schienale sella sedia e prese a raccontare, con la voce piatta di chi ripete un discorso per l’ennesima volta, quasi a memoria: “Mi ha sempre affascinato il problema della coscienza. Dopo anni di studi con Asclep e con Palla due cose mi erano chiare: che è l’attività cerebrale la responsabile del nostro pensiero e che il pensiero stesso si basa su una nostra rappresentazione interna del mondo.”
    Si interruppe: “Nessuna domanda?” Sembrava sorpreso.

    “Ho letto il tuo libro; queste cose le spieghi anche lì.”
    “Quindi sai anche che questa rappresentazione non deriva direttamente dai sensi, ma è il cervello a guidare il riconoscimento.”
    Jona si limitò ad annuire.

    “E anche che ci sono quattro funzionalità superiori: Modello, Verifica, Proiezione e Comunicazione?”
    “Sì, anche se non mi sono molto chiare le interazioni fra questi apparati.”
    Stavolta fu Tarciso ad annuire asciutto: “Non lo avevo ben chiaro neppure io quando scrissi quel libro.” Aveva ripreso l’aria professorale che doveva essere il marchio di fabbrica dell’Accademia.
    “La mia idea, a quel tempo, era abbastanza semplice: noi pensiamo con riferimento ad un Modello; i nostri sensi Verificano se il Modello è compatibile con i loro rilevamenti; noi riusciamo a prevedere che cosa succederà proiettando il modello avanti nel tempo; usiamo la Comunicazione per trasferire pezzi del nostro Modello ad altri e viceversa. Tutto chiaro fin qui?”
    “Sì.”
    Tarciso si permise un sorriso acido: “Peccato che sia anche tutto sbagliato.”
    Jona scelse di tacere.

    “Parlando con Sofonte, il Sacerdote di Ipno, ho scoperto che il suo Amuleto poteva fare una mappa abbastanza dettagliata dell’attività cerebrale. Cominciammo a fare esperimenti per individuare con precisione cosa succedeva. Non trovammo nulla di quello che ci aspettavamo.”
    “Niente modelli, niente proiezioni, niente di niente! Una maledetta confusione di neuroni che sparavano apparentemente senza senso!”

    Si interruppe improvvisamente, guardò Jona dritto negli occhi: “Sei sicuro di seguirmi?” Poi, ad un cenno di assenso del Mago: “Strano, quasi tutti gli altri sogni, a questo punto, erano già scappati a gambe levate.”

    Jona si limitò a sorridere, anche perché non aveva la minima idea di cosa dire.
    Tarciso si riappoggiò allo schienale e riprese: “C’era un ordine in quel caos. Doveva esserci. E alla fine lo abbiamo trovato.”
    “Il Modello, in realtà, esiste, solo che è formato da gruppi di neuroni che si attivano assieme e formano delle configurazioni semi-stabili. Ogni neurone può far parte di centinaia di configurazioni, quindi eccitando una configurazione si rischia di attivarne un’altra che abbia dei neuroni in comune. Un po’ come le corde di un’arpa, che, a pizzicarne una sola, poi mette in movimento anche le altre.”
    “Dei circuiti risonanti.”
    “Esatto; ma tu come fai saperlo? Ah, certo: sei un mio sogno.”

    “I sensi non fanno altro che smorzare certe configurazioni”, proseguì, “anche i nostri pensieri hanno la stessa caratteristica: sono delle conformazioni di gruppi di neuroni che si eccitano a vicenda, solo che sono più grandi e più stabili.”

    Jona stava cercando di immaginarsi quel pandemonio nel cervello e lo disse:
    “Esatto!” Esclamò Tarciso eccitato, “Poi abbiamo scoperto un altro circuito che, come per i sensi, si occupa di “spegnere” i pensieri non pertinenti.”

    “E come c’entra la comunicazione, con tutto questo?”
    “La Comunicazione, in realtà è risultato un apparato abbastanza distinto da tutto questo. L’unico apparato che, per quanto ci è dato capire, ci differenzia nettamente dagli altri animali.”

    Il silenzio rimase indisturbato a lungo mentre Jona cercava di digerire la visione di Tarciso e, nel contempo di capire se era solo il frutto di una mente malata o c’era del vero in tutto ciò.

    “Scusa, Tarciso, ma non capisco: va bene tutto quello che hai detto, ti credo sulla parola, anche se vorrei controllare di persona, ma in che modo questo dimostrerebbe che io sono solo un tuo sogno?”

    Tarciso aveva l’aria soddisfatta di chi sta per vibrare l’affondo finale:

    Ancora una volta il silenzio regnò sovrano, tanto che Jona poté sentire il verso di un gufo nella notte. Non doveva distrarsi!

    Tarciso era interdetto. Piegò la testa da un lato e rimase così per un istante, poi:
    “Comunque non funziona. Ragioniamo per assurdo: supponiamo che tu abbia ragione e che gli esperimenti, essendo sogno, non sono affidabili. In questo caso tu non saresti un sogno.”

    “Lasciami finire!” Tagliò corto l’Accademico, “Ma se tu non sei un sogno allora non lo sono nemmeno gli esperimenti. Abbiamo una contraddizione che si elimina solamente assumendo che gli esperimenti, sogno o non sogno, siano affidabili!”

    Non si andava da nessuna parte, decise Jona che, tra l’altro sentiva la stanchezza annebbiargli il cervello.
    “Senti, capisco che, secondo te, io non sono altro che un sogno, ma io sono un sogno stanco e, per essere un sogno divertente, ho bisogno di riposare. Posso stendermi da qualche parte e ne riparliamo domani?”

  • L’Amuleto cresciuto

    L’alba trovò Jona chino sull’immagine dell’Occhio dal Cielo, ancora offuscata dalle brume del mattino.

    Ci misero tutto il giorno a esaminare ciascuno dei possibili accampamenti occupati da un singolo abitante e a decidere un percorso che li toccasse tutti, cercando di partire da quelli più promettenti, senza per questo fare un tragitto troppo contorto.

    A sera Jona stava preparando i suoi bagagli, ansioso di rimettersi in moto. Non vedeva l’ora di vestire nuovamente i panni di Mago pellegrino.

    Prese il suo vecchio bastone da viandante per incastrare l’Amuleto al suo posto, ma ebbe una grossa sorpresa.
    Era da quando era sfuggito agli Stati Guerrieri che portava l’Amuleto al collo o alla cintura e non si era accorto che questo era cresciuto.
    Ora era grande quanto il suo vecchio Amuleto. Il castone di legno a stella che si era costruito quasi un anno prima non serviva più.

    “Che ti è successo?”
    “Niente, che deve essermi successo?”
    “Sei cresciuto!”
    “Ah, è quello che ti preoccupa? Certo che sono cresciuto. Non pretenderai mica che rimanga un mezzo Amuleto, no?”
    Jona era basito: “Ma come?”
    “Assorbo energia dai campi elettromagnetici mandati dal cielo e materia dall’aria e dai posti dove mi appoggi. Anche l’Amuleto di Serna ha ripristinato tutto quello che ha speso per crearmi; che credi che sia rimasto con un buco nella pancia?”
    “Ma allora sei vivo!”
    “Questa domanda me l’hai già fatta, ricordi? La risposta rimane sempre la stessa: “Dipende da che cosa intendi per “vivo””.”
    “Ma tu come ti consideri?”
    “Ha importanza?”
    “A me importa.”

    “Che intendi dire?”
    “Prima o poi lo capirai.”

  • Serna

    Jona andò a lavarsi la faccia con l’acqua fredda. La sensazione di torpore lo lasciò lentamente, ma le parole di Ipno non divennero più chiare.

    “Hai registrato tutta la conversazione?”
    “Parola per parola. Vuoi rivederla?”
    “Tra un attimo. Adesso chiama Serna.”

    Serna apparve quasi subito, avvolta in un fresco abito primaverile azzurro. In Ligu doveva fare già parecchio caldo, mentre qui la primavera la si doveva ancora indovinare. Jona ebbe una fitta di nostalgia.

    “Ciao papà! Come vanno le cose?” Poi vide l’espressione stanca e preoccupata del padre: “Problemi?”

    “Forse mi puoi aiutare: sei sempre stata in buoni rapporti con Ipno.”
    Il Mago fece un rapido riassunto degli ultimi avvenimenti, lasciando all’Amuleto il compito di mostrare il colloquio con il Dio.

    Una risata argentina accompagnò le ultime parole di Ipno.
    “Papà, è vero che tu e il Dio del Ricordo, come si è definito oggi, non siete mai andati troppo d’accordo, ma questa avresti dovuto capirla anche tu!”
    Vedendo l’espressione confusa del padre disse, improvvisamente seria: “Ti ha detto che Tarciso è da qualche parte da solo, lontano da città e, probabilmente, dagli altri uomini.”

    Jona si illuminò:

    “Puoi fare una ricerca nelle campagne per cercare uomini che vivono isolati? Magari usando l’Occhio dal Cielo?” chiese all’Amuleto.

  • Il toro per le corna

    Jona rimase a lungo in silenzio. Sapeva perfettamente che chiedere consiglio all’Amuleto, in questo momento, era perfettamente inutile.

    Provò a fare qualche ricerca, sia all’Accademia che tramite il servitore che gli era stato assegnato, ma non riuscì a sapere nulla di più di quanto gli avesse già detto Caio Servio.
    Unico incoraggiamento, molto indiretto, fu una missiva proprio del capo dell’Accademia che chiedeva, in caso di successo, di voler essere tanto gentile dal condividere i risultati. Tra le righe si leggeva un sincero interessamento per la sorte dell’amico.

    I giorni passavano senza risultati apprezzabili e Jona diventava sempre più impaziente. Se questa era un’idea di Thano sapeva di aver poco tempo per risolvere l’indovinello. Ammesso che l’indovinello fosse trovare Tarciso, naturalmente.

    Una sera si decise finalmente a prendere il toro per le corna e iniziò il rituale per evocare Ipno.

    L’Avatar nero comparve molto lentamente, come di malavoglia.

    Perché mi chiami, Jona?
    “Ho un sogno che mi perseguita.”
    Un incubo?

    E cosa ti presagisce questo tuo sogno?
    “Mi dice che devo trovare Tarciso.”

    Come pensavo. Non è un sogno che ti ho mandato io.
    “E chi, allora?”
    Ipno inclinò la testa di lato, guardandolo di traverso: “E che vuoi che ne sappia io? Potrebbe essere stato un altro Dio, o potrebbe essere tutto frutto della tua mente. Potrebbe addirittura essere che tu non abbia mai avuto nessun sogno in senso letterale e che sia solo una figura retorica.
    “Non mi aiuterai, quindi?”
    Io aiuto sempre e dovresti saperlo.
    Jona chinò il capo; non sempre l’”aiuto” era quello che i mortali si aspettavano

    Voi mortali avete delle strane idee sulle mie funzioni, sai?” Il tono era improvvisamente colloquiale e la cosa non tranquillizzò affatto il Mago che cominciava a chiedersi se non avesse fatto un grosso errore.
    L’esca era stata lanciata e far finta di niente non sarebbe servito: “In che cosa Ti abbiamo mancato di rispetto?”
    Tsk, Tsk, non si tratta di questo, e lo sai. Non farmi perdere tempo con queste schermaglie.
    “Chiedo perdono. Che cosa non abbiamo capito, e che cosa non ho capito io in particolare, delle Tue prerogative?”
    Accordato. Non sono forse il Dio del Perdono, tra l’altro?” Il tono era sempre più leggero e casuale.
    “Riguarda le tue funzioni di Dio dell’Oblio?”
    Bravo! Io non mi occupo minimamente dell’oblio. Io sono il Dio del Ricordo, ma, ti prego, non dirlo a nessuno!
    “Del Ricordo? Anche quando ci dici di dimenticare le offese e perdonare?”
    Tsk, Tsk, come puoi perdonare qualcosa che hai dimenticato? No, No! Devi ricordare, per poter perdonare.

    Quale oblio? Pensa che sono l’unico, fra gli Dei, a conservare il ricordo di quando gli Dei non esistevano.
    “Di quando gli Dei non esistevano?”

    “Nessuno si era accorto che non c’eravate?”

    Questa conversazione diventa noiosa, se continui a fare il pappagallo.
    “Il “pappagallo”?”
    Ecco, appunto”, disse con tono vagamente spazientito,

    Jona lottò per riportare la conversazione su un binario più controllabile: “Ma questo cose c’entra con Tarciso?”

    Con Tarciso? perché dovrebbe entrarci qualcosa con Tarciso?
    “Perché ti ho chiesto aiuto per trovarlo, ricordi?”
    Certo che ricordo! Non ti ho appena spiegato che sono il Dio del Ricordo?” Ipno sembrava seccatissimo.

    “Allora mi aiuterai?”

    Uhm, sì, può essere che parlare con Tarciso possa farti bene, forse.

    “Ma come posso parlarci se non lo trovo?”
    Tsk, Tsk, cercalo, no? Devo dirti tutto io?
    Jona era prossimo a una crisi di nervi, come spesso gli capitava quando aveva a che fare con Ipno. Come diavolo faceva Serna ad andarci così d’accordo?

    Bene! Non sei contento?
    “Contento di cosa?”
    Che sia come cercare un ago in un pagliaio! Che diamine! Pensa a quanto sarebbe difficile trovare un ago in un agoraio!

    Adesso è meglio che ti svegli. Salutami Tarciso. Digli che lo perdono. Ciao.

    Jona si sentiva veramente come se si fosse appena svegliato da un lungo sonno agitato.

    “Ho sognato?” Chiese all’Amuleto.
    “Se hai sognato abbiamo fatto lo stesso sogno, credo.”
    “Sono sicuro che ci ha dato delle indicazioni preziose, ma non capisco quali.”