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  • Ivan

    Il mago era abbastanza euforico quando rientrò nella sua camera e si chiuse la porta alle spalle.
    Sul letto, in bella vista, c’era un rotolo con un vistoso sigillo di ceralacca.
    Lo prese e l’aprì.
    Erano poche righe di una grafia elegante che terminavano con una firma chiaramente leggibile: “Ivan”.
    L’euforia e quel po’ di ebbrezza da vino era scomparsa di colpo, sommersa da un’ondata di adrenalina. Ivan non si era lasciato ingannare come gli altri dal suo trucchetto con la zattera.

    Un rapido controllo dimostrò che nulla era stato toccato e chi era entrato per lasciare il messaggio era rimasto solo pochi istanti.
    Il messaggio era breve: “Carissimo Jona, desidero chiarire completamente quanto è avvenuto e le mie motivazioni. Sono sicuro che una breve chiacchierata sarà illuminante per entrambi. Mi scuso di nuovo, per quel che può valere, del mio comportamento. Lascia indicazione su dove e quando possiamo incontrarci in un biglietto sul molo dove era attraccata la zattera che ben conosciamo. Saluti Ivan”.
    Una trappola? Probabilmente no; se Ivan avesse voluto prenderlo di sorpresa avrebbe agito questa sera stessa, magari tendendogli un’imboscata lì in camera sua.
    “Pensi sia il caso di cambiare aria subito?” chiese all’Amuleto.
    “Sinceramente non credo. Posso controllare tutta la locanda da qui. Se avesse voluto tentare qualcosa avrebbe evitato di metterci sull’avviso.”
    “Riserve di energia?”
    “Sto già recuperando quel po’ di energia spesa. Non ci sono problemi.”
    “Beh, allora ti lascio a far la guardia”, lo rimise in cima al bastone e piazzò quest’ultimo vicino al letto, poi si dispose a riposare, “tu puoi anche essere pieno d’energia, ma io comincio ad essere stanco.”
    “Dormi bene.”

    La mattina dopo prese un po’ d’informazioni e decise che il mercato di Ruudesh, un paesotto qualche chilometro più a valle, poteva essere un buon posto per un abboccamento. Lasciò l’indicazione dove gli aveva detto Ivan e poi si diresse a cavallo da quella parte.

    Ruudesh era famosa per le ceramiche bianche. C’erano moltissime botteghe e Jona si interessò alle varie lavorazioni, come se fosse veramente intenzionato a comprare.
    “Eccolo” gli sussurrò l’Amuleto all’orecchio.
    Non ebbe difficoltà a capire di chi parlasse, anche perché Ivan non faceva nulla per passare inosservato. Stava discutendo animatamente con un vasaio. Jona si avvicinò e cominciò a osservare la merce, poi fece qualche commento, Ivan rispose in maniera del tutto casuale, poco dopo si allontanarono come due persone che si sono appena conosciute e che potrebbero avere interessi in comune. Nessuno fece caso a loro.

    Seduti a un tavolino sotto una grande pergola dove si cominciavano a vedere i grappoli ancora acerbi, pareva non avessero altri problemi che non riguardassero la qualità e il prezzo delle ceramiche. L’oste aveva portato una caraffa di vino e uno strano pane salato che pareva fatto apposta per far venire sete e, con ogni probabilità, era proprio così.

    Quando l’oste si allontanò e loro furono ben certi di non essere spiati Ivan si decise a parlare liberamente: “Temo di aver fatto tre errori di valutazione in un colpo solo. Un bel record.”
    “A cosa ti riferisci, esattamente?”
    “Ho sbagliato a giudicare, nell’ordine: Vadym, gli Elfi e te. Per la parte che ti riguarda mi scuso sinceramente, per quel che può valere.”
    “Ho l’impressione che l’ordine sia, oltre che di tempo, anche d’importanza, sbaglio?”
    “No. Non sbagli”, la voce di Ivan aveva una piega amara; Jona era certo che doveva costargli parecchio quella confessione che, a giudicare dai rilevamenti dell’Amuleto, era del tutto sincera, “L’errore peggiore l’ho fatto con Vadym, gli altri sono conseguenza. Oh, certo, mi sono reso conto che era un affarista con pochi scrupoli, ma è riuscito a convincermi che, in questo caso, stava facendo la cosa giusta per tutti.”
    “Ma che cosa credeva di fare? Dal mio punto di vista la cosa ha veramente poco senso. Come pensava di controllare la Pianta dei Semi?”
    “Quello che ha detto a me, e oramai non so più fino a che punto ci credesse lui stesso, è che gli Elfi, in qualche modo, erano riusciti a trattenere per sé, là in mezzo alle montagne, i doni che Asclep aveva fatto a tutta l’umanità. Il piano era quello di “liberare” i doni, ma, se quello che dici è vero, non c’è nulla da liberare.”
    “Quello che dico è vero. E, se non mi credi, basta andare al Tempio di Asclep. Ce n’è uno anche a Minz, mi pare. Una capatina al Tempio avresti anche potuto farla, prima d’imbarcarti in questa storia.”

    Ivan si ritrasse come se fosse stato schiaffeggiato. Jona si chiese se non avesse esagerato.
    “Tutto per la segretezza”, disse poi con un sospiro, “certo che gli Elfi non hanno fatto molto per convincermi della loro buona fede. Sembra debbano nascondere chissà quali segreti, e probabilmente è così.”
    “Sono sospettosi per natura. Poi arrivano “umani” come te che li convincono di aver tutte le ragioni di questo mondo a sospettare.” Ivan fece una smorfia e Jona si affrettò ad aggiungere: “in realtà è un gatto che si morde la coda. Loro sono, come ti dicevo, sospettosi e territoriali di natura; questo li rende scostanti e chi gli sta di fronte pensa che nascondano chissà cosa; c’è chi semplicemente li lascia perdere, ma c’è anche chi cerca di scoprire “cosa c’è dietro”, provocando ancora più sospetti, eccetera eccetera”
    “Mi pare che tu conosca bene questa storia.”
    “Abbastanza. Fortunatamente ero in condizioni diverse e sono riuscito a rompere il cerchio. Adesso devi cercare di romperlo anche tu.”
    “Che intendi dire?”
    “Prima di tutto devi renderti conto di come stanno davvero le cose. Io posso dirti qualcosa, ma tu non ti fidare della mia parola: controlla, vai ai vari Templi, prendi informazioni per tuo conto. Mi pare che tu abbia tutte le possibilità di accertare la verità.”
    “E poi?”
    “Poi decidi tu. Per quel che mi riguarda cercherei di rendere inoffensivo Vadym. Mi pare un tipo pericoloso. Quanto sei legato a lui?”

    Ivan sorrise: “Non molto, per fortuna. Ero consigliere di Petruk il vecchio mercante di pellami. Alla sua morte Vadym ha rilevato gran parte delle attività, incluso il sottoscritto.”
    Ci pensò su un istante, poi sorrise di nuovo: “Sono d’accordo con te: Vadym ha una smania di potere che non porterà nulla di buono né a lui né a quanti gli stanno attorno. Devo ringraziarti per avermi aperto gli occhi. Dopo quello che è successo ieri sera sono parecchi a guardarlo con occhi diversi, soprattutto nella sua stessa casa.”
    “Non prendere decisioni affrettate, ma, se credi, avrei qualche idea per scuotere ancora di più la credibilità di Vadym, anche fuori dalle mura del suo palazzo.”
    “Non saprei. Devo capire meglio la situazione.”

    Continuarono a parlare a lungo e la discussione si spostò verso sud, verso le montagne. Jona fece del suo meglio per spiegare il carattere degli Elfi, pur senza rischiare di tradirne i segreti.
    Si lasciarono alle prime ombre della sera e rientrarono separatamente a Minz.

    Mentre trottava veloce verso il Cigno d’Oro Jona e l’Amuleto parlarono a lungo di quello che Ivan aveva detto e di quello che non aveva detto.
    Di una cosa l’Amuleto sembrava molto sicuro: Ivan era sincero.

  • Baldoria

    Fece un ampio giro per tornare al Cigno d’Oro, entrò dalla porta posteriore badando a non essere notato e salì in camera sua dove ripose il mantello, cambiò la pesante giubba di pelle scura con un vistoso panciotto che aveva usato a cena e smontò l’Amuleto dal bastone.
    “Domani dovrò stare attento a guardarmi da quel Vadym, ma per stasera credo proprio che abbia altro per la testa.”
    “Io, comunque, non perderò d’occhio la porta. Non si sa mai.”

    Riprese in mano il bicchiere che aveva lasciato sul tavolino, ne versò quasi tutto il contenuto nel bagno, scese nella sala dove ancora c’erano ancora un po’ di avventori e prese posto ad un tavolo isolato, sistemandosi i pantaloni come se fosse appena tornato dal bagno.
    “Oste! Portami una caraffa di quel vino chiaro! Questo liquore mi sta bruciando le budella!”

    Se l’oste si stupì di vederlo di nuovo al tavolo non lo diede a vedere, e comunque la cosa fu prontamente dimenticata perché, proprio mentre posava brocca e bicchiere davanti a Jona, entrarono due persone.
    “I briganti anno assaltato la casa di Vadym il Mercante!”
    “Hanno abbattuto il portone con un ariete.”
    “Erano almeno venti!”
    “Dove?”
    “Sono scappati in barca sul fiume.”
    “Andiamo a vedere!”
    “Non c’è più nulla da vedere. Hanno rabberciato il portone e si sono chiusi dentro. Pare che Vadym stesso sia stato ferito mentre cercava di difendere la casa.”
    “C’era sangue per terra”
    Intanto stavano arrivando altri, mentre i pochi che erano ai tavoli sciamavano fuori per andare a curiosare.
    “Ho visto Ivan con tutti i suoi che si lanciavano all’inseguimento.”
    “Con questo buio? Non c’è nemmeno la luna. Che sperano di trovare?”
    “Probabilmente nulla, ma sempre meglio stare lontani da Vadym, quando è arrabbiato!”

    Jona lasciò che le voci si trasformassero in un mormorio indistinto mentre si godeva la sua piccola rivincita. Domani avrebbe dovuto fare attenzione: Ivan conosceva bene la sua faccia, e lui era abbastanza diverso dalla popolazione locale da non passare inosservato.

    “Lo ho osservato bene, stasera. Non era per niente contento di come stavano andando le cose e, quando Vadym ha vuotato il sacco ho temuto che riuscisse a liberarsi e lo strozzasse con le sue mani. C’è ancora qualcosa che non sappiamo.”
    “Non sono sicuro che siano affari nostri.”
    “Dopo quello che mi hai fatto fare stasera? E di chi dovrebbero essere questi “affari”, di grazia?” L’Amuleto lo stava di nuovo prendendo in giro e si divertiva a farlo.
    “Asclep?”

    “Vedo che ti bruciava particolarmente non essere riuscito a capire le vere intenzioni di Ivan.”
    “Non sono sicuro ci fosse qualcosa da capire prima, ma: sì la cosa mi ha dato parecchio fastidio.”
    “Non capisco perché dici che gli Dei non c’entrano. Non li ho forse invocati per tutta la sera?”
    “L’unico invocato davvero è stato Thano e fortunatamente l’hai trovarlo in un momento di particolare bonomia. Tutto il resto lo ho fatto io, senza interventi celesti.”
    “Quella di invocare Thano non è stata davvero una buona idea”, riconobbe Jona, “ma non tutto il male viene per nuocere. Ora ci capiamo molto meglio. Dici che tutto quello che hai fatto stasera è stato fatto da te da solo?”

    “Sì, quello lo so, è facile: emetti onde sonore a frequenza troppo alta per essere sentita, concentrate verso la campana che risuona a una frequenza più bassa. Anche il Lampo di Zeo e il Tuono sono comprensibili, ma le “gambe che dormono”?”

    “Oops, scusa, non volevo renderti le cose difficili”
    “Non è un problema. Aggiungere un’altra trasformazione di coordinate non è certo difficile. Schermarti dagli effetti degli infrasuoni, invece è un esercizio di abilità”
    “Infrasuoni?”
    “Sì, sono parte dell’armamentario per l’”Ira di Thano”. Sono frequenze naturalmente associate ai terremoti e che provocano una reazione di paura, ma hanno una lunghezza d’onda molto lunga ed è difficile dirigerle bene.”

    Jona si guardò attorno, ma nessuno faceva caso a lui. Continuavano a parlare dell’assalto dei “briganti” che, nel frattempo, erano diventati un centinaio.
    Jona aveva bevuto un po’ troppo. Meglio smettere. Alzò il bicchiere per un’ultima volta.
    “Posso offrirti qualcosa da bere?”
    “Accetterei con piacere, ma non ho più quel che serve per apprezzare una buona bevuta.”

  • Nemesi

    La zattera oscillava placida sull’acqua calma. Jona era molto meno calmo. Aveva cercato di dare giustificazioni per il comportamento dei suoi ex compagni di viaggio, ma ora non riusciva a giustificare un accidente. Si erano comportati da briganti di passo e l’avevano costretto a una deviazione lunga, faticosa e, soprattutto pericolosa. Era deciso a fargliela pagare cara, ma prima bisognava trovarli.

    Mwanga mwili (luce del corpo)” alcune parti della zattera assunsero una luminosità rosata. Era fortunato. Tracce del calore dei corpi era ancora presente. Forse si potevano seguire quelle tracce. Voltò l’Amuleto verso il pontile e fu ricompensato da aloni rosati a forma di mani e di piedi che salivano. Il sorriso durò poco. Una volta sul pontile le macchie scomparvero inghiottite da una fiumana rossa. Con tutta la gente passata di lì era impossibile tener dietro le tracce più vecchie.

    Kupata chanzo cha kupanda (trova la sostanza della pianta)” Obbediente l’Amuleto analizzò la struttura delle cellule della pianta e cominciò a cercare in giro frammenti che combaciassero. Una scia di pagliuzze di un verde scintillante si dirigevano verso la strada che costeggiava il fiume. La buccia della zucca era coperta da una fine peluria che, rimasta addosso ai ladri, ora gli indicava la strada. Questa non era difficile da seguire.
    Colto da un’ispirazione improvvisa tagliò la corda e lasciò che la zattera seguisse la corrente, poi tornò a seguire la traccia. In caso d’inseguimento, dopo quello che aveva in animo di fare, avrebbero inseguito una zattera vuota.

    Non dovette fare molta strada. La scia di lucciole verdi si infilava nel portone di una grande casa dai muri verde pallido. Il portone era sbarrato, ma a fianco pendeva la catena di una piccola campana. Jona tirò con decisione.
    Si sentì in rumore di passi affrettati e uno spioncino si aprì: “Chi suona a quest’ora?”
    “Devo vedere il tuo padrone.”

    “Per te, forse, non certo per lui!” Disse sbattendo di malagrazia lo spioncino.
    “Come previsto. Come stanno le tue riserve di energia?”

    Jona, intanto lo aveva sistemato in cima al bastone dove scintillava di luce di un purissimo giallo, senza traccia di rosso. Che stesse continuando a ricordargli le parole di Thano? Non ce n’era bisogno: a Jona non erano mai piaciute le morti inutili e nella sua lunga carriera era sempre riuscito a evitarle.

    Protese il bastone verso la campana che si intravedeva incastrata in una fessura del muro, sopra il portone: “kuomboleza wafu (lamento dei morti)!”.
    La campana cominciò a vibrare emettendo un suono lugubre che Jona modificava sia con piccoli spostamenti delle mani che con il mormorio che gli usciva dalla bocca.
    Si sentiva vociare dietro il portone.
    tetemeko mungu wa dunia (terremoto di Festo)!” Il protone cominciò a vibrare violentemente e quando alcuni calcinacci di staccarono là dove i cardini di ferro battuto erano infissi nelle travi di sostegno, si spalancò e quattro uomini armati di lunghe spade si lanciarono verso di lui.
    Jona era pronto: “miguu kulala (gambe che dormono)!” disse facendo percorrere al suo bastone un ampio arco orizzontale. Come se avesse passato una falce gli uomini caddero a terra incapaci di reggersi in piedi paralizzati dalla cintola in giù.
    Passò in mezzo a loro piantando la punta ferrata del suo bastone nella mano di uno che stava cercando di usare la spada anche da quella scomoda posizione.

    Il portone, dopo un breve corridoio dava in un ampio cortile con al centro un pozzo di ceramica bianca. Jona si sedete sul muretto e disse ad alta voce: “Allora, si può parlare con il padrone di questa bicocca?”
    Una finestra, alle sue spalle si aprì cigolando lievemente:

    Per quasi un minuto il buio e il silenzio regnarono incontrastati, poi una porta si aprì e si fece avanti un uomo di mezza età, più basso di Jona, il che lo rendeva un nanerottolo, da quelle parti, e decisamente sovrappeso. Era avvolto in una vestaglia sfarzosa. Al suo fianco aveva due armigeri segaligni che lo facevano sembrare ancora più basso e grasso. Cercava, con un certo successo, di darsi un contegno.
    “Chi mi cerca?”

    Jona lo ignorò completamente e si rivolse verso l’uomo alla sua destra: “Che piacere ritrovarti in buona salute, Ivan. Fatto buon viaggio?”
    “Ivan, conosci questo “signore”?” Ivan si era fatto terreo. Lo si vedeva chiaramente anche alla fioca luce della lanterna che reggeva.

    Jona fece un passo indietro lasciando che i due si spiegassero, intanto istruiva l’Amuleto su come e cosa controllare, per evitare spiacevoli sorprese lì, nel mezzo di una casa piena di personale sicuramente non amichevole.
    Rimase in silenzio a guardare il signorotto. Adesso sembrava molto più sicuro di prima. In fondo si era aspettato qualcosa di peggio. Quando cominciò a inveire pesantemente contro Ivan:
    “Non agivano sotto i tuoi ordini? mwanga wa ukweli (aura di Isto!)”
    “I miei ordini? No, certo che no!”

    L’effetto fu guastato sia dalle gocce di sudore che gli imperlavano la fronte sia dall’improvvisa luce rossa che gli circondò la testa.
    “Non ci siamo capiti. Se io faccio una domanda esigo una risposta sincera. Mi spiego? ghadhabu ya Mungu ya kifo (ira di Thano)!”
    L’Amuleto cominciò a emettere infrasuoni e bagliori rossi che avevano come effetto quello di provocare terrore nella vittima. I due sgherri si accartocciarono colpiti dalla paralisi, oltre che dalla paura.

    Ora Jona e il signorotto erano virtualmente soli.
    “Come ti chiami?” chiese Jona gentilmente.
    “Vadym”, rispose quello cercando ancora di mantenere una parvenza di dignità.
    “Bene, Vadym. Io sono Jona il Mago. Vengo da lontano e non ho tempo da perdere con gente come te. Ora mi spiegherai, con parole semplici e chiare, che cosa hai mandato a fare quei quattro tagliagole fino a Baal.”
    “Che ti interessa? Sono affari miei e degli Elfi!”
    “Risposta sbagliata.”
    Mosse appena la mano sul bastone e un formicolio doloroso cominciò ad attanagliare il petto di Vadym che aprì e chiuse la bocca come un pesce fuor d’acqua. Jona allentò la presa.
    “Riproviamo. Che volevi dagli Elfi?” Vadym si decise, finalmente, a parlare, mentre la rabbia gli dava nuovo vigore.
    “Quei maledetti non sentono ragioni! Ho provato in tutti i modi. Niente, non vogliono commerciare, non vogliono vendere le loro dannatissime piante. Secondo loro non siamo degni di usarle! Non vogliono oro, non vogliono pelli, non vogliono nemmeno le nostre ceramiche!”
    “Ma ora gliel’ho fatta vedere io! Non si rifiutano le offerte generose di Vadym! Non volevano vendere? E allora mi sono preso quello che volevo! Ora ho una pianta dei semi tutta per me! Ora potrò far nascere tutte le meravigliose piante degli Elfi! Chi ha più bisogno di loro?”

    Jona cominciò a ridere. Incapace di fermarsi. Aggrappato al suo bastone per non cadere continuò a ridere mentre Vadym lo guardava interdetto chiedendosi se il Mago fosse impazzito o cosa.
    Quando riuscì a fermarsi, con le lacrime agli occhi, Jona spiegò fra i singulti delle risate trattenute a stento: “Sei ancora più stupido di quanto sei avido e sei più ignorante di quanto sei stupido. Nemmeno gli Elfi controllano le piante dei semi! Le controlla Asclep in persona. Quando deciderai di chiedergli di farla funzionare per te, ti prego, chiamami: Non vorrei perdermi la scena per nulla al mondo.”

    Vadym aveva le orecchie rosse come il fuoco. Non avrebbe dimenticato presto l’umiliazione, né l’avrebbero dimenticata i suoi accoliti, incapaci di muoversi, ma ben svegli. Ora doveva guardarsi anche dai pettegolezzi e se la storia veniva fuori lui sarebbe stato lo zimbello di tutta Minz. Un duro colpo per il suo amor proprio, che aveva l’aria di essere maggiore del suo, pur considerevole, giro-vita.

    Jona si girò per andarsene e Vadym, pensando di non essere visto, estrasse un solido pugnale e si avventò silenziosamente contro di lui.
    “Bisogna dire che non sai proprio perdere!” disse Jona e, senza curarsi di usare l’Amuleto, calò il pesante bastone sulla testa di Vadym facendolo stramazzare al suolo mentre il sangue gli colava dalla tempia.
    Raccolse il bel pugnale e se lo mise alla cintura: “Questo lo terrò io per ricordo. Tu il ricordo lo terrai in faccia”, aveva visto abbastanza ferite da sapere che quella stupida palla di lardo non sarebbe morta, ma che la cicatrice sarebbe rimasta.
    Quell’uomo gli riusciva veramente odioso.

  • La zattera

    Chiese ad un bottegaio che vendeva vasi dove poteva trovare alloggio per la notte, quello lo squadrò dall’alto in basso con aria dubbiosa:
    Jona ringraziò e scese verso la riva dove stavano, bene allineati, i piccoli moli dove attraccavano le barche che portavano le merci dalle campagne.

    Le case erano tutte costruite con la stessa tecnica che aveva visto a Baal: una complicata intelaiatura di legno con travi incrociate a vista chiuse con tamponature intonacate e pitturate a colori vivaci. Il Cigno d’Oro era un elegante palazzo a tre piani con le travi nere come la pece e i muretti di riempimento di un bel giallo carico. Un enorme cigno dorato in ferro battuto appeso a fianco della porta non lasciava dubbi.

    All’interno c’erano pochi avventori che chiacchieravano davanti a grossi boccali di ceramica dipinti.
    “Cerco un posto per dormire e una stalla per il mio cavallo là fuori.”
    “Posto ne abbiamo. Tu hai di che pagare?”
    Decisamente devo avere un aspetto male in arnese, pensò Jona tirando fuori dal panciotto la borsa che gli avevano dato
    “Mi scusi, viene da lontano? Ha un aspetto molto stanco. Forse un bel bagno?”
    Jona fece uno sforzo per non mettersi a ridere: “Sì, penso che un bagno mi farebbe bene. Devo anche far lavare la mia roba e comprare qualche cosa, prima di ripartire. Pensa si possa fare?”
    “Come? Certo, certo!” Le monete, nel frattempo, erano misteriosamente scomparse, “Olga! Prepara il bagno della stanza del cigno, presto!”
    “Gradisce della birra?”
    “Non ora, più tardi, dopo essermi cambiato. Mi fermerò solo pochi giorni.”

    Fiodor, intanto era entrato dalla porta posteriore tenendo in spalla le bisacce che aveva tolto dal cavallo e lo zaino semivuoto. Era un ragazzone grande e grosso dai capelli rossicci e il viso pieno di lentiggini e qualche residuo brufolo.
    Jona si mosse per seguirlo.
    “Aspetti che l’accompagno, Signore”

    L’oste assunse un’aria a metà tra l’offeso e lo stupito: “Certo che può mangiare qui! E dove sennò? Mia moglie fa la migliore cacciagione di tutta Minz!”
    “A più tardi, allora” tagliò corto imboccando le scale dietro a Fiodor.

    La stanza del cigno doveva essere la migliore della locanda ed effettivamente era molto ampia, situata su un angolo e con una specie di balconcino rotondo completamente chiuso da vetri. Jona stava avvicinandosi per dare un’occhiata al fiume quando una ragazza che doveva essere la sorella di Fiodor uscì da una porta dicendo:
    “No, grazie. Solo di rilassarmi.” I due uscirono in silenzio.

    Il bagno era tutto di ceramica bianca. La migliore che Jona avesse mai visto. Anche la vasca era di ceramica e fatta in modo da poterci stare sia seduto che sdraiato. Probabilmente non sarebbe stata così comoda per gli abitanti di Minz che sembravano essere tutti parecchio più alti, ma per lui era semplicemente enorme.
    Lasciò che l’acqua calda e il sapone portassero via la tensione e la stanchezza assieme al sudiciume. Quando finalmente arrivò ad asciugarsi con il ruvido telo che gli avevano lasciato per quello scopo si sentiva veramente bene.

    Il sole stava calando e lui, ricordando quanto cenassero presto da quelle parti, si affrettò a vestirsi e a scendere.
    La cena si rivelò all’altezza delle promesse e, con sua sorpresa, anche il vino, che non si aspettava di trovare così a nord. Lo disse all’oste che, con un certo sussiego gli spiegò che il clima sulle rive del Rin era particolarmente dolce e che l’uva cresceva benissimo, poi cominciò a decantare le doti dei vinai di Minz e Jona smise di ascoltarlo.

    Tornò presto nella sua stanza, con un grosso bicchiere di liquore in mano. Si accomodò al tavolinetto su quel balconcino chiuso e si mise a guardare oziosamente il panorama.
    Il sole stava tramontando dall’altra parte del Rin, che era veramente enorme.
    Non c’erano ponti che potessero attraversarlo, c’erano, invece dei traghetti che usavano un cavo teso molto in alto come guida. Uno stava venendo verso di lui. Era una larga chiatta che portava parecchi uomini e un paio di cavalli. Il barcaiolo teneva la zattera inclinata in modo che la corrente, colpendola di traverso, la facesse avanzare verso riva. Solo nell’ultimo tratto lui e il suo aiutante furono costretti a mettere in acqua due lunghi pali per spingerla verso il piccolo molo di legno.
    I passeggeri scesero e i due barcaioli legarono solidamente la chiatta. Evidentemente quella era l’ultima corsa della sera. Normale. Tra poco il sole sarebbe sceso dietro l’orizzonte. Non era il caso di attraversare con il buio.

    La grande zattera rimase da sola, o meglio, lì accanto ce n’era un’altra molto più piccola, che buffo, sembravano quasi mamma e figlia. Un momento. Quella “figlia” era la “sua” zattera!
    “Occhio di Falco!” L’Amuleto eseguì senza commenti e ogni residuo dubbio scomparve.
    “Thano, il tuo servo ti invoca!” La stanza si fece fredda e rossa.
    Che vuoi da me, Mago?
    “Invoco la Divina punizione contro i ladri che hanno tentato d’impedirmi il cammino, cercando di coartare la Tua volontà!”
    Thano proruppe in una risata particolarmente stridula: “Vuoi dire che IO dovrei cercare di rimediare ai TUOI sbagli? Ti prego, dimmi che ho capito male!
    “I miei sbagli non c’entrano. Tu hai ordinato che io facessi questo viaggio e loro hanno cercato di fermarmi!”

    Thano scomparve e Jona rimase immobile un istante mentre l’atmosfera nella camera ritornava alla normalità.

    Aveva perso le staffe e invocato Thano prima di pensare. Brutto errore che avrebbe potuto costargli molto caro.
    Appoggiò il bicchiere sul tavolo come fosse veleno. Doveva stare attento a mantenere la lucidità.
    Comunque Thano qualcosa aveva detto: gli aveva detto che doveva agire e agire secondo il suo giudizio, che non gli era permesso provocare morti e l’aveva chiamato “Mago” due volte in poche frasi.
    “Amuleto, tu puoi funzionare anche come Amuleto da Mago?”
    “Sì”
    Jona sorrise: “Capisci la lingua della magia?”
    “In realtà quella non è “la lingua della magia”, ma solo la lingua del tuo vecchio Amuleto”
    “Ma la capisci o no?”
    “La capisco, ma non è la “mia” lingua. Se vuoi usarmi veramente dovrai fare lo sforzo di imparare la “mia” lingua”

  • Minz

    L’Amuleto lo svegliò che era ancora buio pesto.
    “Tra poco è l’alba. Meglio prepararsi. Gli orchi sono mattinieri.”
    Jona non si fece pregare. Spese gli abituali cinque minuti per rimettere in moto le articolazioni e poi sellò il cavallo che sembrava essersi ripreso perfettamente dalle fatiche del giorno prima. Stava terminando quando sentì un urlo isolato nelle prime luci dell’alba.
    “Devono aver trovato le mie tracce.”
    “Probabile. Meglio togliere il disturbo in fretta.”
    Rumori fra i cespugli preannunciavano l’arrivo di qualcuno di gran carriera.

    Jona finì di sistemare le bisacce e montò a cavallo proprio mentre dall’alta ripa spuntavano le teste di tre Orchi. Rimase un attimo interdetto. Non sapeva che cosa si fosse aspettato, ma non questo. Gli Orchi avevano un grugno suino con un grosso naso rotondo. La bocca aveva bene in vista quattro zanne giallastre da cinghiale. Il tutto era di un colore roseo, reso ora ancor più accentuato dalla corsa.

    Il cavallo scartò e prese il galoppo mentre i tre orchi si lanciavano all’inseguimento. Jona si teneva aggrappato al collo scosso dalle risate. Li distanziarono facilmente, ma quelli continuarono a inseguirli. Correvano veloci, non quanto gli Elfi, ma sicuramente più di un uomo. Jona fece rallentare il cavallo a un’andatura che sarebbe stato in grado si reggere a lungo.
    “Quanto distano le prime case umane?”
    “Una quarantina di chilometri,” Jona imprecò in silenzio. La voglia di ridere gli stava rapidamente passando, “ma non ti seguiranno fin laggiù. Tra poco arriveremo al torrentello che hanno scelto come confine del loro territorio”.

    Si trattava di un rigagnolo che scorreva allegro fra i sassi e che il cavallo superò con un salto senza perdere il passo, ma gli orchi si fermarono sulla riva come si fosse trattato di una muraglia impenetrabile. Rimasero a guardare Jona che si allontanava, forse per assicurarsi che non tornasse indietro.
    “Altre sorprese del genere, più avanti? Sai, preferirei essere preparato.” Jona aveva la netta sensazione che l’Amuleto si divertisse a fargli scoprire le cose all’ultimo momento. Era una direttiva di Thano o lo faceva di testa sua?
    “Non credo. Per quel che so la gente qui è abbastanza amichevole e accetta i viandanti. I brutti incontri li puoi fare dappertutto, naturalmente.”
    “Naturalmente.”
    “Dammi un po’ d’informazioni su questa valle.”

    L’Amuleto si lanciò in una dettagliata descrizione della valle e dell’economia del luogo. Si trattava di un’ampia zona attorno alla confluenza del Rin e del Min che si stendeva verso est fino agli insediamenti degli Orchi e a nord fino a dove il Rin si infilava nelle gole fra i monti e formava le sue famose cascate. A sud la Foresta Oscura regnava incontrastata; solo una sottile striscia di terra sulle sponde del Rin era percorribile, con molti pericoli, per andare a commerciare con gli Elfi delle grandi montagne.
    La valle era ampia e fertile. L’unica città degna di questo nome era Minz, presso la confluenza, dove avvenivano i commerci avevano sede diversi templi e si trovavano le botteghe di molti artigiani. Alcuni piccoli centri lungo i fiumi erano specializzati in lavorazioni particolari, come le ceramiche di Ruudesh.

    Il sole era ben alto quando incontrarono i primi segni di attività umana: armenti al pascolo. I mandriani si girarono a guardare, ma, visto che si trattava di un umano a cavallo e non di Orchi persero rapidamente interesse.

    La sera chiese ospitalità in una cascina al centro di campi coltivati ordinatamente. Gli fu concesso di dormire nella stalla assieme al suo cavallo, ma non di entrare in casa.
    A Jona questo andava più che bene: non aveva voglia d’inventare un’altra storia e di sottoporsi al vaglio delle domande di quegli sconosciuti.

    La mattina dopo era di nuovo a cavallo.
    Il paesaggio era splendido. Piccoli centri abitati erano molto distanziati fra loro, circondati da campi coltivati e, più oltre, da pascoli. Queste oasi di umanità erano separate da ampie zone boscose dove, ogni tanto, incontrava qualche cacciatore con i suoi cani.

    La sera, questa volta, trovò alloggio in una piccola locanda. Altri viaggiatori erano lì in sosta. Jona aveva pensato di usare la solita scusa dello speziale in cerca di erbe strane, ma, questa volta, avrebbe dovuto modificarla parecchio. Era del tutto evidente, infatti, che lui veniva da molto lontano. La sua pelle era più scura, i suoi capelli neri, la stessa conformazione del viso diversa. Qui la gente aveva la pelle chiarissima, i capelli che andavano dal biondo al castano chiaro e visi più larghi e rotondi, il suo naso affilato non aveva uguali. Anche di corporatura erano di una buona spanna più alti di lui che, a casa sua, era considerato una persona alta.

    L’oste che gestiva la locanda non fece commenti e si limitò a intascare le monetine che Jona gli dette, a fargli vedere la sua camera e a dirgli che la cena sarebbe stata pronta di lì a poco.

    Il sole era ancora alto quando scese per cena, ma si accorse subito di essere l’ultimo, si diresse quindi verso l’unico tavolo libero, vicino alla porta.
    Qualcuno lo guardò con curiosità, ma nessuno gli rivolse la parola e lui ne fu grato. Mangiò in fretta e si ritirò nella sua stanza, mentre di sotto l’atmosfera cominciava a scaldarsi aiutata dalla birra scura.

    Il giorno dopo era in vista delle mura di Minz.
    Si trattava, in realtà, di un muro fatto per tener fuori i ladruncoli e non come bastione difensivo. Si vedeva chiaramente che in tutta quella zona non c’era ombra di eserciti e guerre. La terra era buona e molta in attesa d’esser colonizzata.

  • fuori dalla foresta

    Jona si attardò per diversi giorni nell’ultimo villaggio, riposandosi e, soprattutto, facendo riposare il suo cavallo.
    Aveva passato ore a studiare l’Occhio dal Cielo. Quello era il villaggio più vicino al margine nord della Foresta Oscura, ma ne distava ancora circa venti leghe. Una distanza assolutamente impossibile da percorrere a piedi e difficile a cavallo, senza strade e su terreno non battuto.
    Gli Alberi di Dana erano disposti con una certa regolarità su un arco che andava verso est, allontanandosi dal margine. Quello sembrava essere un altro dei confini che gli Dei cercavano di rendere impenetrabili, o, per la precisione: cercare di attraversarli era possibile, ma comportava rischi non trascurabili. Gli errori si pagavano con la vita.

    Jona si alzò ben prima dell’alba. Si sentivano ancora chiaramente i richiami dei lupi in caccia.
    Il cavallo era teso e nervoso, roteava gli occhi e girava le orecchie in tutte le direzioni.
    Jona lo condusse a piedi verso la porta del villaggio parlandogli all’orecchio per calmarlo.

    Ai primi chiarori, assieme al canto dell’allodola, gli ululati si spensero.
    Si fece aprire la porta, montò a cavallo e partì al piccolo trotto. Cercò di mantenere il più possibile un’andatura regolare per risparmiare le forze sue e del cavallo.
    Le soste erano state calcolate al minuto e l’Amuleto teneva conto della posizione.

    Jona sapeva di doversi riposare, ma il tempo passava inesorabile, anche se nulla sembrava cambiare nella penombra della Foresta.
    La luce cominciò a calare e il cavallo era molto molto stanco. La bava bianca che gli usciva dalla bocca non era un buon segno.
    Chiese per la millesima volta all’Amuleto la posizione. Stavano per arrivare a un fiumiciattolo che dovevano attraversare. Jona decise di fare lì l’ultima sosta. Fece bere il cavallo e gli permise di mangiare l’erba fresca che cresceva vicino alle rive melmose.
    Attraversato il rigagnolo la foresta riprese il suo incontrastato dominio del territorio.

    La luce stava calando lentamente.
    “Sono io che ho perso la cognizione del tempo o il crepuscolo è più lungo, da queste parti?”
    “La seconda che hai detto. Più si va a nord e più il passaggio dal giorno alla notte è graduale”

    In quella incrociarono un sentiero che andava approssimativamente nella direzione giusta. Non era niente più che un tratturo dove gli aghi di pino erano stati calpestati e sminuzzati da piedi e zoccoli, ma si trattava di zoccoli ferrati e questo fece miracoli per il morale di Jona che cominciava a disperare.

    L’oscurità era oramai quasi completa, tanto che fu costretto ad alzare ben alto l’Amuleto, splendente di luce appena venata di rosso, sul suo bastone per illuminare la strada.
    Poi, di colpo, il fruscio sotto gli zoccoli del cavallo si fece diverso. Erba. Stelle sopra di lui. Gli ululati dei lupi erano molto lontani alle sue spalle. Più avanti, sulla riva di un fiume si intravedevano le sagome di povere case.

    Tirò un sospiro di sollievo e si diresse a passo lento in quella direzione.
    “Fossi in te non lo farei”, disse l’Amuleto spegnendosi.
    Jona si gelò. Aveva imparato a conoscere quel tono piatto e casuale del suo Amuleto. Non era il caso d’ignorare l’avvertimento. Tirò le briglie facendo deviare il cavallo verso ovest, tenendosi ben discosto dalle abitazioni e proseguendo al buio guidato solo dal rumore del fiume che scorreva placido alla sua destra. Si tenne sull’erba, dove gli zoccoli del cavallo non facevano rumore.

    Quando l’Amuleto ricominciò a emettere una tenue luce che rischiarava solo pochi passi davanti a loro si azzardò a chiedere: “Mi spieghi, adesso?”
    “Siamo usciti dalla Foresta troppo a est. Quello era un avamposto degli Orchi.”
    “Orchi?” Jona sospettava di conoscere già la risposta, ma lasciò che l’Amuleto chiarisse.
    “Si tratta di un’altra razza creata dagli Dei. Ipno, in questo caso.”
    “Ipno?” Non ce lo vedeva proprio il dio dell’oblio a creare una nuova razza di uomini.
    “Ipno. Sono una razza fortemente territoriale e, nonostante siano discretamente intelligenti, hanno la tendenza ad agire più d’istinto che razionalmente. Non sono molto amichevoli, almeno con chi non ha l’odore giusto.”

    Il cavallo incespicò facendolo quasi cadere.
    “Quanto dobbiamo allontanarci ancora? Non credo di essere in grado di proseguire per molto e questo povero cavallino è allo stremo”, disse mentre scendeva e prendeva le briglie in mano.
    L’Occhio dal Cielo gli mostrò il fiume, l’avamposto alle sue spalle e la loro posizione.
    “Qui avanti c’è un posto dove penso ci si possa fermare per la notte, a patto di ripartire all’alba. Siamo ancora troppo vicini agli Orchi. Questo, per un certo verso, è un bene: i lupi hanno imparato a stare alla larga.”
    “Quanto dista?”
    “Se continui a piedi ancora una mezz’oretta.”
    Jona strinse i denti e riprese a camminare appoggiandosi al bastone.
    “Niente fuochi, immagino”, chiese Jona mentre impastoiava il cavallo che aveva liberato dalla sella.
    “Meglio di no. Meglio non rischiare.”

  • La cavalcata

    La mattina dopo, di buon’ora Jona stava percorrendo al piccolo trotto un oscuro sentiero nella Foresta. I larghi zoccoli non ferrati del suo cavallo baio erano perfettamente adatti al letto di aghi di pino che ricopriva ogni cosa. Aveva da poco lasciato il boschetto di querce che circondava il villaggio e ancora gli risuonavano nelle orecchie i saluti della Dana e degli altri.
    C’era stata festa grande al villaggio la sera prima.

    Jona era moderatamente stupito: “Amuleto, non capisco questa faccenda. So bene che la foresta è pericolosa e quindi i commerci non sono frequenti, ma la Dana ha detto che almeno gli Elfi vengono con una certa regolarità. Come mai non portano utensili? Ci sarebbe un certo guadagno.”
    “E con che cosa pagherebbero? Cavalli? Ghiande? Cacciagione?”
    Jona ci rimuginò su. Effettivamente la vita dei villaggi era molto particolare. Vivevano relativamente bene, anche grazie a piante “progettate” allo scopo e, forse disseminate dagli Elfi stessi, ma non producevano nulla che fosse d’interesse per il mondo esterno.
    “A maggior ragione l’oro avrebbe dovuto essere bene accetto. Avrebbero potuto comprare molte accette, e chissà cos’altro, con quella pallina!”

    Buon per lui. Adesso era a cavallo. Aveva le bisacce piene di provviste e, in fondo allo zaino, aveva anche una lettera della Dana che pregava le Dane degli altri villaggi di concedergli ospitalità. La lettera era suggellata con una gemma presa dalla cima dell’Albero di Dana. Nessuno, se non una Dana poteva accedervi. La Dea era piuttosto gelosa delle sue cose.

    La strada di mattoni gialli che stava percorrendo piegava bruscamente verso est. Jona ne chiese il motivo.
    “Non hai voglia d’incontrare una banda di Troll”, fu la risposta e l’Amuleto rifiutò ostinatamente altre spiegazioni.

    Quando arrivò ai cancelli del villaggio successivo e si presentò, a piedi con il cavallo al fianco e la lettera di presentazione in mano il sole era ancora alto. Era stata una giornata tranquilla e riposante.

    Anche le due settimane successive furono assolutamente uguali, tanto che Jona si annoiò mortalmente e cominciò a lamentarsi di tutto, a partire dalla scomodità della sella per finire alla perenne penombra della foresta.

    Solo le serate nei vari villaggi — o nelle varie “Case nella Foresta”, come le chiamavano loro — gli fornivano un po’ di svago, così il Mago si ritrovò, quasi senza accorgersene, a raccontare storie e intrattenere i suoi ospiti con piccoli trucchi e scherzi.

  • Trotta cavallino!

    La Dana era rientrata in casa e si stava risciacquando il viso arrossato.
    “Ho parlato con Thib”, cominciò Jona senza preamboli.
    “E che ti ha detto?”
    “Tante cose, mi ha parlato della Foresta e dei villaggi. Non ho speranze di tornare a casa senza un cavallo.”
    “Non possiamo regalarti un cavallo, nemmeno se sei amico del Popolo delle Montagne!”
    “Lo so. Non ci ho neppure pensato. Posso pagarlo generosamente”, disse mettendo sul tavolo una pallina d’oro grande a sufficienza da comprare l’intero villaggio.
    “Che cos’è?” chiese la Dana avvicinandosi.
    Non era la reazione che Jona si era aspettato, “oro” rispose quasi balbettando dalla sorpresa.
    “E che ci dovrei fare?” Il tono della Dana era abbastanza duro da lasciar intravvedere l’acciaio sotto il chiaro di quegli occhi celesti che ora erano decisamente sospettosi.
    La Padella!

    Jona raccolse la preziosa pallina dicendo: “Scusa. Non avevo capito. Bello stupido. Torno subito.”

    Ritornò pochi minuti dopo con un grosso involto che aveva contribuito ad appesantire il suo zaino da troppo tempo.
    “Penso non ci sia bisogno di spiegarti cosa puoi fare con questo.”
    Aprì l’involto e fu ricompensato dal suono di strozzata sorpresa che sfuggi alla Dana.
    Sul tavolo c’era la grossa lama d’ascia da boscaiolo che Michele gli aveva regalato “per ricordo”.
    “Pensi possa bastare?”
    La Dana non riusciva a staccare gli occhi da quella meraviglia.
    “Devi firmarla!”
    “Con piacere. Allora affare fatto?”
    La Dana non si curò di rispondere. Prese, invece, uno strano oggetto da un cassetto; si trattava di una specie di penna con una grossa punta di pietra: “L’avevo fatta perché Umma potesse firmare la sua padella, ma andrà benissimo anche per questa.”

  • Il villaggio isolato

    Il canto del gallo lo svegliò all’alba.
    Era su un mucchio di fieno in una stalla dove facevano bella mostra di sé diversi grandi cavalli dai larghi zoccoli. Jona notò che non erano ferrati.
    Stava per uscire quando entrò la donna che aveva intravisto la sera prima.
    “Vedo che sei sveglio. Come ti senti oggi, Barcaiolo senza barca?”
    “Meglio, molto meglio, grazie. Il mio nome è Jona.”
    “Come vuoi, Barcaiolo Jona. Io sono la Dana di questo villaggio.”
    “”La” Dana?”
    “Sì, la Dana. Sono stata accettata al servizio della Dea da sette lustri oramai.”

    Lei rise: “Sono più un capo-villaggio che una sacerdotessa. Come dovresti sapere Dana non ama essere venerata, ama ancora meno venir importunata e va su tutte le furie se si contravviene a uno dei suoi decreti.”

    Jona non aveva troppa dimestichezza con Dana. Nella sua Ligu, schiacciata tra monti e mare, tra pesca e pastorizia c’era poco spazio per la caccia. Dana si occupava anche della fauna in generale ed era per problemi degli allevatori che l’aveva, a volte, frequentata. Qui le cose sembravano essere ben diverse.
    “Stavo per disturbarla. Poi ho visto la firma degli Elfi”, la mano di Jona corse all’orecchio.
    “Sai leggere l’Elfico?”
    La Dana annuì.

    “Vieni, avrai bisogno di mangiare e di lavarti.”
    Uscito dalla stalla vide il cielo.
    Ieri sera non lo aveva notato, ma tutta l’area circondata dalla palizzata era sgombra da alberi, fatta eccezione per un singolo albero che torreggiava al centro.
    Jona capì subito che si trattava di un prodotto degli Dei. Era imponente, con un tronco di quasi un metro di diametro e una serie ininterrotta di grossi rami che partivano in orizzontale per poi curvarsi verso l’alto. I rami erano disposti a spirale attorno al tronco e formavano una specie di scala a chiocciola che partiva larga da terra e continuava poi in alto fino alla cima, dove era chiaramente troppo stretta per essere percorsa.

    La Dana fece un rapido gesto di saluto in direzione dell’albero, poi vedendo l’interesse con cui Jona lo fissava spiegò:
    Jona si guardò attorno e si accorse che gli alberi intorno alla palizzata non erano gli onnipresenti pini: “Castagni?”
    “Qui attorno, per la maggior parte, ma abbiamo anche noci, più oltre ci sono le querce”.

    Entrarono in una casa costruita interamente con tronchi di pino incastrati fra loro. La materia prima non mancava di sicuro, lì intorno.
    Il focolare era di pietra e sosteneva una padella dove stavano friggendo delle uova. Lo stomaco di Jona ebbe un sobbalzo. Il brodo della sera prima era stato digerito da tempo.
    “Questa è Umma, una delle mie figlie”, disse la Dana indicando la ragazza che era all’altra estremità della padella; già, la padella. Mentre lo stomaco e il naso di Jona erano rimasti affascinati dal contenuto gli occhi erano rimasti attaccati alla padella.
    Per un po’ Jona non riuscì a capire perché la trovasse tanto strana. Era una vecchia e pesante padella di ferro. Già, ma era lucida come non ne aveva mai viste. Era evidente che il nero della fuliggine si era depositato solo da quando la padella era stata messa sul fuoco quella mattina stessa. Intorno al bordo, poi, aveva una serie di iscrizioni incise con cura.

    La Dana seguì il suo sguardo e, mentre la padella arrivava a tavola per depositare il suo contenuto sui piatti, disse: “Umma è una brava ragazza. Tra non molto avrà il permesso di mettere la sua firma sulla padella.”
    Jona non fece commenti, ma Umma arrossì fino alla radice dei capelli e lanciò alla madre un’occhiata raggiante.

    Le uova erano cotte al punto giusto e Jona fece onore intingendo fette di pane nel tuorlo ancora soffice. Il pane era scuro e aveva un sapore decisamente strano: “Farina di castagne?” chiese; la Dana annuì: “Non abbiamo cereali qui. La farina la facciamo con castagne e ceci.”
    Continuarono a parlare per un po’ e Jona venne a sapere molte cose dell’organizzazione della vita in quel piccolo villaggio che viveva in simbiosi con la foresta. L’Albero di Dana teneva lontani i pini che soffocavano ogni altra vegetazione; attorno a quel cerchio c’era un anello di querce che, con le loro ghiande, sfamavano i maiali, dentro quello c’era un altro anello di alberi più utili, come i castagni e qualche albero da frutta; all’interno della palizzata cerano i piccoli campi coltivati.
    “Ma perché non tagliate più alberi per poter coltivare qualcos’altro?” chiese Jona pensando di conoscere già la risposta.
    “I Troll amano gli spazi aperti.” rispose invece la Dana “Abbiamo tagliato tutto quello che osavamo. Di più sarebbe come invitarli a farci visita e questo non sarebbe per niente furbo.”
    Jona stava per chiedere spiegazioni, ma lei si alzò con fare deciso dicendo: “Io devo andare a curare l’Albero, tu sei libero di rimanere qui o ripartire, come pensi meglio”
    “Preferirei rimanere qui un altro giorno. Poi devo ripartire, mi sento molto meglio, ma un giorno di riposo mi farebbe comodo. Chi mi può indicare la strada per il prossimo villaggio?”
    “Da che parte devi andare?”
    “Nord”
    “Da quella parte c’è il villaggio da cui viene la moglie di Thib. Chiedi a loro.”
    Un istante dopo era fuori della porta con due grossi secchi pieni d’acqua.

    Jona si rivolse a Umma che, nel frattempo aveva cominciato a ripulire le stoviglie e, soprattutto, la padella. Era una ragazza giovane, appena fuori della pubertà, con i capelli tanto chiari da sembrare quasi bianchi e due occhi celeste simili a quelli della Dana. Quando la padella fu lucida e splendente, senza la minima traccia di unto o fuliggine Jona si azzardò a chiedere: “Che cosa significa che potrai mettere la tua firma sulla padella?”
    Umma lo guardò con gli occhi sgranati, poi dovette ricordarsi che lui veniva da lontano, da molto lontano, e si decise a spiegare con l’aria di chi parla ad un bambino un po’ duro di comprendonio:
    “Un raduno di padelle?” chiese Jona che cominciava a sospettare quale fosse il finale.
    Umma lo guardò con aria offesa e Jona temette seriamente che volesse usare la padella per ammorbidirgli la testa. Poi decise che non era il caso di rischiare di rovinarla per un soggetto tanto ritardato.
    “No il raduno della Scelta! Un cacciatore forte come un Troll mi sceglierà e mi porterà al suo villaggio!”
    “Quindi te ne andrai.”
    Un’ombra la passò rapida sul viso: “Sì e ho un po’ paura, ma, d’altra parte, finché resto qui non sono altro che una bambina.”
    Ripose con cura la padella in uno stipo.
    “Se vuoi ti faccio vedere dove abita Thib con sua moglie, prima che vadano nella foresta”
    Jona non si fece pregare.

    Lo trovarono che stava provando il suo lungo arco da caccia, dietro la sua casa che sembrava una copia esatta di quella della Dana.
    “Ciao Thib”, esordì Umma, “Jona vuole andare al villaggio di Lenna. La Dana ha detto che forse lo puoi aiutare.”
    “Che ci vuoi fare al villaggio di Lenna?” chiese con un cipiglio che non celava affatto il sospetto e la sfiducia.
    “Nulla,” sospirò Jona mentre Umma si dileguava, “devo andare verso nord e la Dana mi dice che quello è il villaggio più vicino. Da lì proseguirò verso il successivo.”
    Thib sembrò rilassarsi un po’.
    “Io non la conosco. Sono un uomo del fiume. Ho visto che può essere pericolosa, ma non posso rimanere qui. Puoi aiutarmi?”

    Thib prese l’Arco, incoccò distrattamente una freccia, si girò lentamente e la fece partire verso l’alto. Jona non aveva visto nulla, ma un animale simile a un grosso scoiattolo con una lunga coda spelacchiata cadde trafitto quasi ai loro piedi.
    “Se non li teniamo a bada questi ci distruggono i raccolti, e poi sono buoni da mangiare.”
    “Che cos’è?” chiese Jona che non aveva mai visto un animale simile. Sembrava un incrocio tra uno scoiattolo e un topo, ma grosso più di un gatto.
    “Un opossum, non li conosci?”
    “No, mai visto.”
    “Beh, qui ce ne sono anche troppi”, tagliò corto Thib cominciando a scuoiarlo con mano esperta, “non sono certo questi che ti daranno problemi durante il viaggio.”
    “Da che cosa, invece, mi dovrò guardare?”

    “Non c’è modo di tenerli a bada?”
    “Solo con il fuoco.”
    “Fuoco? Nella foresta? Con quel tappeto di aghi per terra?”
    “Appunto. Non ci pensare nemmeno. Vedo che sei sveglio, per un barcaiolo. Finiresti arrosto prima di accorgertene.”
    “Non c’è altro modo?”

    “Quanto dista il villaggio più a nord?”
    “Quindici leghe”
    Jona fece un rapido calcolo. Era un po’ di più della distanza che aveva percorso dal fiume fin lì

    Continuò a parlare con Thib fino a che questi non raccolse le sue cose e si preparò a uscire; dopo di che si ritirò nella stalla dove aveva dormito, chiuse accuratamente la porta, si assicurò non ci fosse nessuno e poi tirò fuori l’Amuleto da sotto la giubba.
    “Puoi farmi vedere i villaggi?”
    “Pronto!” Comparve una mappa della foresta con sovraimposta una rete di cui i villaggi erano i nodi.

    “Colpa mia”, rispose l’Amuleto con un’ombra d’imbarazzo nella voce, “loro, in realtà, usano la parola “casa”, che io ho tradotto in villaggio. Non hanno nomi, esattamente come casa tua è “casa tua”, e non “Jonapoli” o qualunque altra cosa.”
    “Questo la dice lunga sugli interscambi fra “case””
    “Puoi dirlo forte! In pratica gli unici contatti sono durante i raduni.”

    L’attenzione di Jona tornò alla mappa. I villaggi erano disposti con una certa regolarità su un’ampia striscia che andava dal fiume alle montagne, con una propaggine che arrivava quasi alla pianura a nord. Chiaramente quella era la strada che doveva fare. Fece un rapido conto: quattordici villaggi prima di arrivare in un villaggio abbastanza vicino al limitare nord della foresta da poter arrischiare una corsa per uscirne.
    “Non ce la farò mai!” imprecò ad alta voce. Un cavallo si agitò disturbato.

  • La foresta

    Jona grugnì qualcosa d’incomprensibile e continuò ad avanzare caparbiamente appoggiandosi pesantemente al suo bastone.
    “Il villaggio è ad appena un chilometro di distanza, proprio davanti a te. Se non ci fosse tutta questa nebbia lo vedresti anche tu.”
    Altro grugnito.

    Jona sapeva che doveva sbrigarsi. Era questione di vita o di morte. L’Amuleto era stato molto chiaro, anche senza dirlo esplicitamente. Non aveva detto perché e Jona non aveva fiato da sprecare a chiederglielo.
    Era da un po’ che stava insistendo perché affrettasse il passo. Dall’ultima fermata che aveva fatto, un paio di ore addietro.
    Aveva le gambe che sembravano di legno. Anzi no: il legno non fa male.
    La penombra si stava facendo più fitta. Doveva arrivare al villaggio
    La risposta gli arrivò all’improvviso, bucando la nebbia che lo circondava e quella nel suo cervello. Un lupo stava ululando il suo richiamo non troppo lontano.
    La scarica di adrenalina gli schiarì le idee e lui raddrizzò la schiena.
    Un vago chiarore più avanti gli diede nuova speranza.

    D’improvviso, mentre i richiami di caccia dei lupi si facevano più insistenti e più vicini, si trovò davanti ad una solida palizzata alta almeno quattro metri e realizzata con grossi tronchi di pino infissi nel terreno.
    “A destra!” sibilò l’Amuleto.
    Jona non chiese e corse da quella parte.
    La porta era stretta. In pratica tre tronchi affiancati.
    “Aprite!” gridò l’Amuleto mentre Jona cercava di riprendere fiato, “Aprite per l’amor di Dana!”

    Gli ululati si erano spenti, ma i lupi erano evidentemente vicini, se ne sentivano oramai i passi in corsa. Non si preoccupavano di procedere in silenzio.
    Da dietro la pesante porta si sentivano rumori di assi smosse.
    “Chi chiede di entrare?” chiese una voce, ma la porta si stava già aprendo e Jona si buttò dentro mentre i suoi salvatori si affettavano a richiudere.
    Il pesante paletto era appena stato rimesso al suo posto quando un coro di ringhi certificò la delusione dei lupi là fuori.

    Jona si tirò dritto, appoggiandosi al suo bastone e disse: “Grazie.”
    “Chi sei, Straniero?”
    Aveva davanti una dozzina di persone, tutte vestite con pelli di animali. Davanti gli uomini, piccoli di statura, ma molto muscolosi, dietro, sulle soglie delle case di legno, stavano le donne anche loro minute, ma robuste. Tutti lo guardavano con sospetto, anche i bambini che facevano capolino dietro le donne.
    “Stavo discendendo il fiume con la mia barca, ma si è rovesciata. Fortunatamente ero vicino a riva e sono riuscito a salvare qualcosa.”
    “Come ci hai trovati?”
    “Non lo so”, mentì Jona, “è da questa mattina che vago nella foresta. Non pensavo di riuscire a vedere altri giorni”.
    “Scusate, ma non ce la faccio più.” disse mentre le gambe gli si piegavano e lui crollava sotto il peso dello sforzo, dello zaino e dell’età.
    Sentì delle mani forti che lo sorreggevano e lo trasportavano al coperto in uno stato di semi-incoscienza.

    Molto più tardi si riprese abbastanza da guardarsi attorno.
    Una donna, di un’età indefinibile, con i lineamenti di una donna matura e gli occhi da bambina, gli stava porgendo una ciotola di legno con dentro un liquido scuro e odoroso di erbe mentre, con l’altra mano, lo sorreggeva e lo aiutava a mettersi seduto.
    “Bevi, ti farà bene, Straniero.”
    Era un brodo di carne, pieno di aromi che ne modificavano il sapore e l’odore fino a renderlo quasi irriconoscibile. Jona bevve fino all’ultima goccia, mentre la donna lo sosteneva, poi ripiombò nel sonno.