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  • La storia di Thano

    Jona si lasciò cadere sulla sedia e versò un bicchier d’acqua dalla brocca. Essere interrogati da un Dio non è mai un’esperienza rilassante, pensò fra sé e sé.

    Asclep si diverte a fare il professore, eh?
    Jona sobbalzò al suono della voce di Thano mentre la stanza si tingeva di rosso.

    Ti è piaciuta la sua storiella?

    Lo sarà molto di più quando capirai perché non hai capito niente!” Ghignò Thano, “Adesso te ne racconto un’altra, sei contento?
    Jona non era contento per niente e Thano, come al solito, gli metteva i brividi con la sua sola presenza, ma si guardò bene dal dirlo. Il Dio, comunque, avrebbe fatto come meglio gli pareva, ovviamente.

    Thano infatti proseguì, con la sua voce beffarda: “La malattia di cui ti parlava Asclep la possono prendere anche gli uomini. Durante quell’epidemia, assieme ad alcuni milioni di vacche, sono morte anche un bel po’ di persone, ma non è di loro che ti voglio parlare.
    Il cervello di Jona era in piena attività. Stava seguendo quello che diceva Thano con la massima attenzione, come se fosse una questione di vita o di morte
    Milioni di vacche? Ma che razza di stalle dovevano avere?

    Asclep aveva detto che avevano sfruttato completamente la terra e che questa non ce la faceva più. Lo credo bene!
    Se avevano mangiato la carne infetta allora certo che si erano contagiati.

    Aspetta un momento

    “Veicolo perfetto per la malattia”
    Esatto. Morivano a grappoli”, la voce di Thano era quasi estatica, “nei periodi migliori sono arrivato ad avere qualche percento della popolazione morta per questa malattia, di solito rarissima. La cosa migliore era che, data l’incubazione di quasi dieci anni, nessuno pensò mai ad associare le morti con il cannibalismo.

    La voce si fece più seria, quasi seccata: “Poi venne una mutazione che impediva lo sviluppo della malattia. Tu dici di conoscere le leggi della genetica e della selezione naturale: secondo te quanto ci ha messo il gene mutato per diffondersi nella maggioranza della popolazione?
    “Parecchio tempo, immagino. Queste cose sono sempre molto lente”
    Duecento anni! In duecento miserabili anni il gene resistente alla malattia si era diffuso in tre quarti della popolazione!” Thano era decisamente seccato e Jona si guardò bene dall’emettere il benché minimo suono.
    Poi, per motivi diversi, hanno smesso di mangiare i propri simili e il gene della resistenza ha cominciato a scomparire. Cent’anni dopo era in meno della metà della popolazione.

    La voce di Thano riprese il consueto tono beffardo: “Come direbbe il mio esimio collega: “cosa ti insegna questa storia”?

    Jona sapeva di dover rispondere in fretta. Thano non aveva la pazienza di Asclep.
    “Che è meglio mangiare cibi sani?” disse cercando di prendere tempo.
    Idiota!” ruggì il Dio.
    Jona barcollò sotto l’impatto della voce del Dio. Cercò disperatamente di collegare quanto gli era stato detto. Sapeva che Thano gli aveva dato tutti i dati
    Il senso di urgenza cresceva. Già
    Certo che dovevano essere morti a grappoli
    Esatto. Sono IO che mando avanti la selezione naturale. Se IO non collaboro la selezione si ferma, per un po’ languisce e poi torna indietro!
    Anche il mio caro collega, con tutto il suo amore per le cure, lo sa e collabora.

    Esatto. Pensaci!

  • La storia di Asclep

    La porta si era appena chiusa alle sue spalle quando l’Amuleto di Thano prese a pulsare di luce verde e la figura di Asclep si manifestò davanti a lui.
    Cos’è che ti disturba, Jona?” chiese senza preamboli.
    Jona esitò solo un istante.
    “Sono letteralmente figli tuoi, vero? Perché non gli hai mai detto che sono il prodotto di manipolazioni genetiche?”
    Che importanza ha se una mutazione è casuale o è indotta coscientemente? Sì, sono figli miei. Ora spiegami perché farai del tuo meglio per tenere per te questo segreto.
    Jona era attentissimo, ma non riuscì a percepire nessun tono di minaccia nella voce del Dio. Aveva parlato con il tono di un professore che interroga.

    Rimase a lungo in silenzio, mentre Asclep aspettava pazientemente, come se non avesse nient’altro da fare per il resto dell’anno.
    “Per lo stesso motivo per cui non si dice a un ragazzo che è un trovatello adottato? O, almeno, è meglio lo faccia il genitore e non un estraneo?” azzardò alla fine.
    Questo è un modo di vedere la questione.
    “È chiaro che non posso essere io a dare una notizia del genere, ma perché non lo dici tu?”

    Asclep fece uno dei suoi sorrisi asciutti e senza allegria che talvolta contrastavano con il suo aspetto bonario. “Una volta, in una terra lontana da qui, nel tempo e nello spazio, c’era una civiltà di uomini che avevano sfruttato la terra in ogni modo possibile. Gli animali non andavano più al pascolo, perché erano troppi e non c’erano più prati a sufficienza. Li tenevano chiusi nelle stalle e li nutrivano con fieno e altri mangimi coltivati appositamente.
    Gli uomini erano tanti e la terra non ce la faceva più a produrre abbastanza per loro e per gli animali nelle stalle. Il costo dei mangimi cresceva. Nel contempo i rifiuti si accumulavano e diventava sempre più difficile smaltirli. In particolare nelle stalle si accumulavano gli scarti della lavorazione delle carni.
    I loro scienziati cercarono un modo per risolvere questo e altri problemi. Una delle soluzioni trovate fu quello di triturare, sterilizzare, essiccare e quindi trasformare in farina animale gran parte dei cascami organici. Queste farine hanno un elevato contenuto proteico e sono quindi adatte a integrare i mangimi di origine vegetale.
    La soluzione funzionò a meraviglia: Gli scarti di macellazione venivano riusati e gli animali crescevano bene.

    Asclep fece una lunga pausa. Jona rimase in silenzio. Ovviamente la storia non finiva lì, c’era dell’altro.
    Che cosa può andare male in una situazione del genere?
    “Di che animali si parla?” chiese Jona per prendere tempo.
    Asclep assentì con il capo: “I problemi si sono avuti con ovini e bovini
    Jona si illuminò, ma solo per un istante. Era troppo ovvio: “Immagino abbiano controllato che il metabolismo degli erbivori tollerasse le proteine di origine animale, vero?”
    Infatti. Fecero lunghi studi, per un arco di tempo superiore alla vita normale di un animale; non trovarono alcuna controindicazione.

    Jona rimase a pensare a lungo; Asclep continuava a non mostrare alcuna fretta.
    “Contagio?” azzardò esitando; non aveva altre idee.
    La sterilizzazione era fatta ad alta temperatura, così come la successiva essiccazione. Né virus né batteri possono sopravvivere a quelle condizioni.

    Jona si fece ancora più attento: Asclep non aveva detto che non c’era stato contagio! Era sicuro della sua intuizione:
    Asclep Annuì ancora una volta: “Esiste una proteina, completamente termostabile, che ha due possibili configurazioni tridimensionali. Una, quella normale, è un componente della membrana cellulare, in particolare delle cellule nervose. L’altra forma, estremamente rara, non è utile e non solo si accumula nel cervello, ma induce le proteine in forma normale a cambiare la struttura nella forma alterata. L’effetto è inizialmente molto lento, ma poi progredisce rapidamente. L’animale muore entro pochi mesi dalla diagnosi della malattia.
    Detto per inciso: ora puoi capire meglio le ragioni e la portata della “Direttiva Primaria”.
    “È successo veramente? Un animale malato può averne infettati centinaia!”
    È successo veramente. È stato anche peggio di quello che immagini: hanno usato le carcasse di animali morti della malattia come scarti per produrre altre farine.
    “Idioti!”
    A quel tempo nessuno aveva mai sentito parlare di agenti patogeni che potessero resistere in quelle condizioni!” lo rimproverò Asclep secco, poi: “Cosa ti insegna questa storia?

    Jona, che aveva sentito sulla pelle la sferza della voce del Dio, rispose lentamente:
    Più di venti anni”, confermò Asclep.

    In alcuni casi l’incubazione può durare più di cinque anni.
    “Non avevano speranza! Non c’era nessuna possibilità di trovare una simile patologia in prove di laboratorio e nemmeno con eventuali piccoli allevamenti pilota!” Asclep annuì ancora una volta.
    “Adesso capisco la Direttiva primaria e perché Gornor è così cauto: Solo gli Dei possono prevedere davvero i risultati di manipolazioni genetiche.”
    Non è del tutto corretto, ma per ora può bastare.

    Jona rimase interdetto: chi altri poteva? Asclep non sembrava intenzionato a dare ulteriori spiegazioni.
    Capisci ora perché può non essere il caso d’interferire su un ecosistema complesso?
    Jona ebbe un momento di vertigine: che stava dicendo? Che c’entrava? Poi ricordò da dove erano partiti, abbassò il capo e disse sincero: “Non ho nessuna intenzione d’interferire in situazioni che non capisco completamente.”

  • Il Tempio di Asclep

    La luce tenue dell’aurora lo svegliò pochi minuti prima che Smullyanna entrasse a chiamarlo.
    Vestì rapidamente i suoi abiti da viaggio e lei gli annodò sulla spalla sinistra un nastro rosso sul quale erano ricamate lettere d’oro che Jona non riuscì a decifrare; avrebbe dovuto chiedere all’Amuleto.

    Il Sacerdote lo stava aspettando. Si incamminarono verso una parte del Tempio che sembrava composta da uffici ordinati dove elfi di entrambi i sessi e di tutte le età lavoravano ai loro tavolini parlando di rado e a bassa voce.
    “Cosa sai di genetica?” chiese Gornor a bruciapelo.
    “Normalmente risponderei “parecchio”, visto che l’argomento mi ha sempre interessato e l’ho studiato con l’aiuto di Asclep stesso, ma ho la sensazione che “qualcosina” sarebbe più adatto, qui”.
    “Bene. Vediamo. Alleli? Dominanza? Proteine? Codice Genetico? Struttura molecolare del DNA? Ribosomi? Mappa dei geni sui cromosomi? Gene Operone? Soppressione genetica? Attivazione?” Gornor aspettava un cenno d’assenso da parte di Jona a ogni nome che citava. Jona ascoltava attentamente la traduzione dell’Amuleto e confermava che si trattava di argomenti, almeno in parte, conosciuti. Non poté fare a meno di notare che, mentre Gornor usava un semplice sostantivo, l’Amuleto doveva usare locuzioni sempre più lunghe per tradurre. All’ultima richiesta Jona rispose: “Ne ho letto qualcosa, ma non credo di ricordare molto.”
    “Non ti preoccupare. Ne sai a sufficienza da poter capire quello che succede qui. Nessuno pretende che tu prenda il posto di uno dei miei assistenti”, aggiunse con un sorriso.
    “Questa parte del Tempio è dove noi conduciamo le ricerche genetiche”, disse con evidente orgoglio, “si comporta come un enorme Amuleto e permette ai miei assistenti di analizzare le caratteristiche genetiche di tutti gli organismi viventi. Qui stiamo catalogando il corredo cromosomico di tutte le piante che riusciamo a trovare. Abbiamo sequenziato migliaia di piante per un numero enorme di geni distinti, ognuno associato con la rispettiva proteina e, ove applicabile, fenotipo associato.”
    Erano entrati in una delle stanze dove due elfi chini su un tavolo osservavano dei puntini colorati. Sopra il tavolo troneggiava l’immagine che pareva un serpente follemente arrotolato su sé stesso. Un elfo toccò il tavolo facendo cambiare colore a un singolo dei puntino; il serpente si contorse annodandosi ancora più strettamente.

    “Esatto. Il simulatore calcola la struttura tridimensionale della proteina risultante e la visualizza”.
    “Ma cosa stanno cercando di ottenere?”
    “Deodorante.”
    “Deodorante?”
    Gornor sorrise:
    Jona cominciava a capire cosa intendesse quando diceva che “progettavano” le piante. “Poi inserite i nuovi geni nel corredo cromosomico?”
    “In linea di principio sì, anche se le cose vanno in modo un po’ diverso. Vieni.”

    Percorsero un lungo corridoio dalle pareti verdi e luminose:
    “Di che si tratta?”
    “Una nuova varietà di fungo-lampada. Ci mancava il colore blu.”
    Arrivati in fondo al corridoio entrarono in una stanza ampia e riccamente decorata. Al centro, accanto a un grande tavolo intarsiato c’era uno scranno verde smeraldo. Jona non ebbe bisogno di spiegazioni per sapere che si trattava del Trono di Asclep.
    Due assistenti stavano aspettando. A un cenno del Sacerdote, cominciarono a lavorare ai controlli sulla superficie del tavolo. Apparvero numerose immagini di cui solo poche avevano un senso per Jona. Al centro c’era il prodotto finito: un piccolo fungo a forma di uovo che emanava una forte luminosità blu. Attorno c’erano sequenze stilizzate, alcune proteine e altri diagrammi indecifrabili.
    Il Sacerdote adattò il suo Amuleto in una nicchia alla base del Trono e, immediatamente, la sagoma bonaria di Asclep apparve.
    Un’altra innovazione?
    “Sì, Asclep. È la Lampada Blu di cui Ti parlavo pochi giorni fa.”

    “Possiamo procedere con le Fattrici dei Semi?”
    Portatele!” Non aveva finito di parlare che gli assistenti spinsero avanti carrelli su cui erano sistemati grossi vasi. In ognuno c’era una strana pianta, somigliava a un pallone verde coperto di spine e percorso da striature verticali. Nella parte alta aveva una spirale di corti steli, sempre più piccoli, fino a diventare quasi invisibili verso la cima. Ogni stelo terminava con un’infiorescenza a bottone.
    Sistemati i carrelli davanti al Trono e si allontanarono in fretta. Asclep allungò una mano e la sua aura verde avvolse le piante. Poi, senza dir altro, scomparve.
    Gornor raccolse il suo Amuleto mentre gli assistenti portavano via i carrelli.
    “Che cosa ho visto, Gornor?”

    “È il progetto del fungo a luce blu, questo l’ho capito, anche se mi sono perso i particolari. È quello che è successo dopo che mi sfugge.”
    “Quelle che hai visto sono le Fattrici dei Semi”, proseguì Gornor con pazienza, “sono piante sacre che possono produrre i semi di qualunque cosa Asclep voglia. Ora ha ordinato loro di produrre le spore del nuovo fungo-lampada. Tra pochi giorni sapremo se funzionano come pensiamo”

    Esitò un momento, poi chiese: “Che cosa è quella “direttiva primaria” di cui parlava Asclep?”
    Gornor diventò rosso come un peperone: “Non ci abbiamo davvero fatto una bella figura”, mormorò con aria contrita.
    Jona sgranò gli occhi senza capire assolutamente l’improvviso cambiamento di umore del Sacerdote; sperò di non aver toccato un argomento troppo delicato e tenne dietro a Gornor, che aveva ricominciato a camminare a grandi passi, cercando di fare meno rumore possibile.
    Il Sacerdote si fermò di nuovo e lo squadrò con aria grave: “No, tu non puoi saperlo.” Fece una breve pausa, poi raggiunse una decisione e parlò rapido:
    Seguì un lungo silenzio nel quale Jona, terribilmente a disagio, cercava di confondersi con le preti verdi.
    Quando riprese a parlare Gornor aveva una voce distaccata, lontana, come stesse facendo una lezione ad un’intera classe di Apprendisti: “La Direttiva Primaria, da osservare sempre in qualsiasi manipolazione genetica si intenda fare, è assicurarsi che i prodotti anabolizzati possano essere, e siano, catabolizzati dallo stesso organismo.”
    “L’alternativa è un accumulo indefinito del composto, sempre dannoso per l’organismo.”
    “Il pigmento fluorescente blu originale era stabile e non c’era modo, in natura, di distruggerlo”, terminò parlando velocemente prima di riprendere il cammino con passo sostenuto.

    Continuò a seguire il Sacerdote nel suo giro di ispezione mattutino. Jona era sinceramente impressionato: dovevano esserci parecchie decine di elfi a lavorare nei laboratori di genetica e ciascuno di loro aveva una padronanza della materia molto superiore alla sua. Un duro colpo per lui, convinto di essere un esperto in materia.
    La visita stava volgendo al termine e loro si stavano dirigendo verso l’ala del Tempio adibita a ospedale.

    Jona camminava in modo automatico, la testa altrove, impegnato a digerire la mole d’informazioni che aveva ricevuto. Qualcosa lo disturbava.
    “Gornor, avete mai catalogato genomi animali?”
    “No. Mai. Asclep lo proibisce! Solo i vegetali possono essere manipolati in questo modo.”
    “Capisco”, disse Jona, anche se la risposta apriva più interrogativi di quanti ne chiudesse.

  • Ritorno

    Il vento era più fresco, ora che la brezza di mare soffiava decisa.
    “Amuleto: chiamami Tarasso!”

    La voce di Tarasso arrivò quasi subito: “Che c’è, Serna?”
    “Puoi controllare la zona della secca e vedere se ci sono pericoli in arrivo?”
    “Vado subito. Problemi?”

    Si sentirono passi affrettati e un’invocazione salmodiante, poi il silenzio. Serna poteva quasi vedere Tarasso chino sull’immagine che cercava.

    “Si mangeranno i pesci all’amo!”
    “Che Posse se li porti!” inveì Agio torvo, “Se si mangiano i pesci all’amo, sempre che ci siano, possiamo dire addio al milleami. Lo faranno a pezzi!”
    “Puoi fare qualcosa, Tarasso?”
    Altre invocazioni seguite da un breve silenzio.

    “Dove sono, di preciso?” chiese Serna facendo riapparire l’Occhio dal Cielo.
    “Circa due miglia a sud-est della secca e stanno puntando lì, dritti dritti. Probabilmente sanno anche loro che è una buona zona per pescare.”

    Serna fece muovere l’immagine e individuò il branco. Era ancora in acque profonde e nuotava veloce. Agio valutò la situazione con un’occhiata: “Arriveremo al milleami più o meno contemporaneamente, se mi muovo per intercettarli”, disse modificando la rotta di pochi gradi,
    “Quanto tempo abbiamo?”
    “Mezz’ora.”

    Sentirono il rimbombo lontano del tuono molto prima di vedere l’uccello. Era candido e assomigliava a un grosso cigno con il lungo collo teso in avanti. Volava basso sull’acqua con le ali tese e ferme.
    Erano molto rari e Serna aveva avuto a fortuna di vederne uno solo una volta. Volava alto e Jona aveva dovuto indicarglielo perché lei sentiva il suo urlo, ma non riusciva a localizzarlo. L’uccello era molto più avanti di dove lei lo stava cercando. Jona aveva approfittato della cosa per farle una lunga lezione pratica sulla velocità del suono e su come calcolare la distanza di una cosa dal tempo fra immagine e rumore.

    Serna si era persa nei ricordi, nel frattempo l’uccello li aveva superati e puntava come un fulmine verso il branco dei tonni. Proprio mentre entrava nel raggio d’azione dell’Occhio si abbassò ancora fin quasi a sfiorare le onde. Si vedeva chiaramente che lasciava una scia sul mare, pur senza toccarlo.
    Quando arrivò davanti al branco accelerò ancora e il tremendo tuono scosse le acque mentre l’uccello saliva in cielo per fare un ampio giro.
    Gli occupanti della barca avevano gli occhi puntati sull’immagine dei tonni che si erano fermati e parevano disorientati. Serna mormorò qualche parola all’Amuleto.
    L’uccello intanto aveva terminato il suo giro e puntava di nuovo verso i pesci. Fece un secondo tuono, identico al primo, tra i tonni e la secca. I pesci decisero che qualcosa non andava, da quelle parti e puntarono decisi verso il mare aperto.
    Serna si accorse improvvisamente che da un po’ aveva dimenticato di respirare; urlò: “Grazie, Zeo!” con tutto fiato che aveva.
    L’uccello, intanto stava girando rumorosamente su di loro, fece una specie di piroetta, come per salutarli, e se ne andò con un ultimo boato di tuono.
    Serna si ritrovò a pensare oziosamente che quell’uccello non doveva essere molto bravo ad arrivare di soppiatto, con tutto il baccano che faceva.

    Agio, intanto, stava nuovamente puntando verso la secca e il milleami: “Andare a vela non è la cosa migliore. Probabilmente poi sarà meglio usare le barche a remi, ma questo è quello che avevamo e dobbiamo arrangiarci.”
    “Non ti preoccupare, sappiamo quello che dobbiamo fare.”

    Arrivarono sul primo gavitello che già Agio stava ammainando la vela.
    Serna afferrò la cima e la legò a bordo ancorando solidamente la barca.
    Agio finì di sistemare vela e timone, poi prese in mano la cima, controllò che le due donne fossero pronte e infine sciolse il capo del milleami dal gavitello.
    La barca cominciò a muoversi sospinta dal vento.
    Agio tirava energicamente il milleami a bordo aiutato, in parte, dal vento.
    Serna prendeva gli ami, staccava i pesci, se c’erano, e conficcava ordinatamente gli ami ormai puliti sul bordo della cesta.
    Darda arrotolava ordinatamente il milleami e le lenze nella cesta.

    Quando arrivarono al secondo gavitello si fermarono un momento a guardare il risultato del loro lavoro: il milleami era arrotolato nella sua cesta e non aveva subito danni, loro avevano le braccia indolenzite dal lavoro a cui non erano abituati e la barca stava rischiando di affondare sotto il peso dei pesci che ancora guizzavano.
    Un grido di gioia esplose all’unisono: ce l’avevano fatta. Rimanevano ancora problemi, primo fra tutti quello dei tonni: non potevano scomodare Zeo tutte le volte! Ma ce l’avevano fatta!

  • Pic nic sull’isolotto

    Lo Scoglio del Pino era uno strano posto. Un enorme masso che sporgeva dalle acque per parecchi metri con un vecchio pino solitario, piegato dai venti, che formava un ampio ombrello verde sulla cima dello scoglio, quasi piatta. Era sempre stato meta di molti giovani, ed era uno dei posti più ambiti per chiedere la mano della propria bella. Si diceva nessuna ragazza avesse mai rifiutato una proposta fatta su quello scoglio che effettivamente aveva un certo fascino arcano. Le solite male lingue dicevano che nessuna ragazza con un briciolo di cervello avrebbe mai accettato la gita allo scoglio per poi rifiutare una volta arrivata lì.
    Quell’estate lo scoglio aveva visto pochi visitatori. Era troppo vicino alla secca dove Posse infuriava. La barca di Agio era la prima che attraccava nella piccola insenatura da molti mesi.

    Salirono la scala intagliata nella roccia viva e prepararono il pranzo sotto le fronde del pino.

    “Ora Posse mi ha portato via anche i gemelli.” Agio parlava con voce serena, il dolore cristallizzato nel suo cuore, vissuto e accettato. Trasfigurato in una risorsa dalla quale attingere forza:
    “Conoscevi mio padre da giovane? Nessuno mi parla di mio padre da bambino. Sembra che nessuno ricordi niente prima che venisse scelto come apprendista Mago.”
    Agio rise: “Sole e sale non sono stati teneri con la mia pelle vero?”
    Allo sguardo interrogativo di Serna proseguì:
    Le riminiscenze di Agio furono interrotte dal ronzare insistente dell’Amuleto che, alle richieste di Serna rispose con un laconico: “Meglio affrettarsi.”

  • La Pesca

    Agio scostò la sua barca dal molo con una pedata, issò la vela con pochi movimenti decisi e fissò la drizza sulla galloccia con due volte, poi afferrò la scotta per far prender vento alla vela e sbandò completamente il timone con il piede nudo.
    Serna lo guardava affascinata. Nulla nei suoi movimenti era casuale. Sembrava una danza, ma non lo era. Non si trattava di una coreografia, fissa e immutabile, ma del reagire al richiamo del mare e del vento. La barca sbandò un momento, come un cavallo che scuote la testa a una briglia troppo nervosa, poi si raddrizzò e filò serena verso l’uscita del porticciolo sotto la spinta di un vento leggero, ma costante.
    Agio era nel suo elemento. Fuori dal porto mise la prua in direzione della secca, regolò la vela, fissò la scotta e finalmente si sedette, prendendo la barra del timone con la mano per la prima volta da quando erano saliti sulla barca.
    “Rilassatevi e godetevi il viaggio. Ci vorranno almeno due ore, se il vento non gira.”
    Il sole non era ancora sorto e l’aria era fresca. Le due donne si avvolsero nei loro scialli. Darda aprì un paniere che aveva ai piedi ed estrasse una grossa bottiglia di legno chiaro.
    “Qualcuno vuole del caffè?” chiese, mentre versava il liquido nero e fumante in tre piccole ciotole.
    Il sole si alzò pigro disperdendo la bruma del mattino. Nel porticciolo oramai lontano si vedeva crescere l’attività e altre vele raccolsero il vento. Serna sorrise: erano riusciti a ottenere almeno un’ora di vantaggio. Probabilmente non avrebbero avuto curiosi attorno. Tirò fuori l’Amuleto e iniziò il rito di evocazione per Posse.
    “Mi sto recando alla secca”, disse quando il Dio si manifestò.
    Lo so
    “Dobbiamo provare il milleami dono di Festo.”
    So anche questo.
    “Chiediamo il tuo permesso.”
    Vi osservo.
    Decisamente Posse non era particolarmente di buon umore. Serna era tentata di rinviare a tempi migliori, ma il tempo stringeva.

    L’Occhio del Cielo si aprì senza che Serna lo avesse invocato. Mostrava la secca sotto il mare; due ampie zone erano di un colore rosso acceso.
    Potete piazzarli qui, dove le reti hanno già distrutto tutto.” La voce era tagliente, “vedete di non sbagliare”.
    Fu Agio a rispondere sicuro: “Non Ti deluderemo Posse.”
    Posse replicò con una voce diversa, più dolce e venata di rispetto: “So che non lo farete. Tu non mi hai mai deluso, Agio, non una volta nella tua lunga vita.
    Quest’Occhio vi aiuterà a non sbagliare. Buona pesca!
    L’aura blu del Dio scomparve, ma l’Occhio dal cielo rimase, molto più preciso e dettagliato di quelli che Serna riusciva a evocare. Agio lo osservò con occhio critico: “Se ci portiamo qui”, disse piantando l’indice calloso su un lato della più piccola delle macchie rosse, “Il vento dovrebbe spingerci fin qui” il dito percorse una retta che finiva sulla seconda macchia rossa, “e la distanza è quasi esattamente la lunghezza del milleami”
    Serna finse di controllare, giusto per darsi un tono, ma sapeva perfettamente che Agio aveva ragione e che, in mare, sapeva valutare le distanze molto meglio di lei, con o senza Amuleto.
    Quando si avvicinarono alla secca la loro barchetta comparve nell’immagine dell’Occhio dal Cielo. Serna seguiva il suo procedere, ma Agio guardava il mare e manovrava la barca con precisione millimetrica.
    “Giù!” Al comando di Agio Serna tagliò la sagola che tratteneva il primo dei corpi morti e quello si inabissò mentre la barca, alleggerita, sbandava. Agio approfittò dello sbandamento per far girare la prua al vento e fermarla. Lasciò la barra del timone e corse a prua dove la cima legata al corpo morto si stava svolgendo rapidamente. Quando si fermò, segno che il corpo morto, un grosso pietrone irregolare, aveva raggiunto il fondo, si affrettò a legare la cima a bordo ancorando la barca. Serna gli porse un gavitello formato da una grossa boccia di spesso vetro giallo con due solidi anelli, sempre di vetro, alle due estremità. Usò uno degli anelli per fissarlo alla cima che saliva dal corpo morto. Il primo gavitello era in posizione.
    Agio fissò un capo del milleami all’altro anello del gavitello e lo porse a Serna: “Pronta?” senza attendere risposta sciolse la cima che tratteneva la barca e questa, spinta dal vento, prese ad allontanarsi lentamente. Serna pregò che Ipno vegliasse su di lei e cominciò a filare il milleami mentre Agio, con mani sicure, innescava gli ami, mano a mano che dovevano esser gettati fuori bordo.
    L’intera operazione richiese quasi un’ora e si svolse senza alcun incidente.
    Alla fine calarono il secondo pietrone a far da corpo morto e fissarono il secondo gavitello. Sul mare c’erano ora due grossi palloni gialli uniti da una collana di perline gialle danzanti sulle onde che si stavano ingrossando sotto la sferza della brezza.

  • Serna e il pescatore

    Le ombre si stavano allungando quando Agio si presentò alla grande casa con tre grossi saraghi in spalla.
    All’occhiata interrogativa di Serna rispose con un sorriso: “Per il milleami non so, ma il dieciami funziona.”

    “Il “dieciami”?”
    “Ho tagliato un pezzo del tuo mostro e l’ho provato alla Cala del Granchio. Con un po’ d’attenzione una decina di ami si riescono a gestire. Questo è il risultato.”
    “Ti fermerai a mangiarli con noi”, disse Darda con il tono di chi enuncia un fatto incontrovertibile mentre si impossessava delle prede che Agio aveva posato sul tavolo e cominciava a pulirle.
    “Sei riuscito a districarlo?” chiese Serna.
    “Sì, certo, ma ho dovuto tagliarlo in un paio di punti. Ho usato il pezzo più corto.”
    “Non si aggroviglierà di nuovo?”
    “Non c’è pericolo. Lo ho appeso ai pali che uso per far asciugare le reti.”
    “Ottimo. Peccato che non possiamo portarceli in mare.”
    “No. Non abbiamo barche abbastanza grandi.”

    La mattina dopo Serna era dietro la baracca di Agio e guardava sconsolata quel lunghissimo arnese. Avevano già provato quattro modi diversi di arrotolare ordinatamente la lenza in una grossa cesta e poi a tirarla fuori, come per filarla a mare, tutte e quattro le volte, nonostante cercassero di evitare movimenti bruschi, inevitabili fra le onde, presto uno degli ami si impegolava nella matassa e dovevano smettere per evitare di ingarbugliare tutto.
    “È inutile! Festo mi ha proprio presa in giro. Anche facendoci la mano, calare a mare quest’affare è un lavoro di tutta una giornata. Non lo vorrà usare nessuno!”
    “Gli Dei non mentono mai!” Serna si girò e si trovò davanti Marlo.

    “Se Festo ti ha detto che puoi trovare il modo di usarlo allora puoi trovare il modo, ma non è detto che sia facile. Non è ancora il tocco e ti vuoi già dare per vinta?”

    “”Credevo”, “pensavo” e “speravo” non portan le api al favo” sentenziò Marlo.
    Serna gli lanciò un’occhiata che avrebbe dovuto incenerirlo, ma che provocò solo un bonario sorriso:
    Serna rimase un attimo in silenzio. “Grazie Marlo. Cercherò di ricordarmelo”, disse poi con voce seria.
    “Perché non proviamo a legare le lenze secondarie, in modo che non diano problemi mentre le caliamo a mare?” disse rivolta ad Agio.
    Il nuovo tentativo fu coronato da successo

    Agio rimase abbastanza stupito da dimenticare l’irritazione. Chiuse la porta della casupola presso il porto troppo grande per lui, ora che non aveva più nessuno con cui condividerla, e seguì Serna che continuava a parlare più per riempire il silenzio che per dire veramente qualcosa.
    “Daardaaaa! Ho portato Agio, come mi avevi chiesto tu!” Disse varcando il portone rivolta verso la cucina.

    Darda era, come al solito, sulla sua poltroncina in un angolo del portico e stava riordinando il suo interminabile lavoro di ricamo. Era oramai troppo buio per continuarlo. “Grazie cara” disse semplicemente guardandola dritta negli occhi. Vi lesse quello che doveva leggervi e, senza aggiungere altro, prese Agio sotto braccio e lo guidò verso la cucina: “Ieri pesce, oggi carne. Sono sicura che il mio stufato non ti dispiacerà.”
    Serna tirò un sospiro di sollievo.
    Il giorno successivo caricarono la cesta con il milleami sul calesse e la portarono nel cortile della grande casa del mago. Tutta la mattina, infatti era stato un susseguirsi di curiosi, di perdigiorno e, soprattutto, di malelingue. Serna era stata costretta a invocare un incantesimo di allontanamento per avere un po’ di pace, ma sapeva bene che quello che bruciava di più era il sospetto che avessero ragione, quando canzonavano Agio perché dava retta alla “strega pazza”.
    Continuarono a lavorare, ma il risultato era sempre lo stesso: schemi semplici portavano ad aggrovigliamenti e schemi complessi funzionavano, a volte, ma richiedevano troppo tempo. Dopo un paio di giorni non avevano più idee. Oramai stavano pensando in circolo. Così non si andava da nessuna parte.
    L’unica cosa veramente positiva era che Agio aveva abbandonato la sua indole taciturna, forse dovuta più al fatto di non aver nessuno con cui parlare che ad una vena del suo carattere. Ora parlava molto. Con voce lenta, come dovesse sempre cercare le parole, ma raccontava di una vita passata sul mare, come marinaio in terre lontane da giovane, come pescatore in vecchiaia. Serna era affascinata da quelle storie e aveva cominciato a chiamarlo “Zio Agio”
    “Andiamo a farci un caffè”, propose Serna.
    “Un caffè non si rifiuta mai!” sentenziò lo “Zio” alzandosi prontamente dal suo sgabello.
    Andando verso la cucina passarono davanti alla solita postazione dove Darda stava ricamando: “Già finito, oggi?” chiese dando un’occhiata significativa verso il sole ancora molto alto nel cielo.
    “Pausa Caffè!” le rispose Serna con un sorriso.
    “Mi pare una buona idea”, approvò Darda scostando il telaio che aveva davanti, “metto a posto gli aghi, ché altrimenti mi si ingarbugliano tutti i fili e arrivo.”
    Darda stava infilando gli aghi che aveva usato e che teneva appuntati sul petto, sul bordo di morbido sughero del cestino, assieme a tutti gli altri. Tutti in fila a formare un variopinto arcobaleno di fili di lana.
    Serna e Agio si guardarono: “Nonna, sei un GENIO!!”
    “Ma che dici?”, ma oramai i due erano in fondo al corridoio. Darda scrollò le spalle bofonchiando: “Mi sa che dovrò prendermi il caffè da sola.”
    A cena Serna era raggiante, tanto da rompere la regola che vietava di parlare di lavoro a tavola: “Funziona benissimo! Abbiamo filato il milleami due volte in un’ora! L’idea di Darda è stata perfetta. Abbiamo messo un bordo di sughero attorno alla cesta e ci abbiamo infilato gli ami uno dopo l’altro, così non possono aggrovigliarsi. Domani andiamo a provare in mare. Darda, devi venire anche tu con noi.” Era un fiume in piena.

  • Il rompicapo di Festo

    La preparazione dello strano marchingegno prese due giorni completi di tentativi ed errori da parte di Serna e alcuni pescatori. La scelta delle sagole da usare e il semplice annodare tutti quegli ami si rivelarono un rompicapo niente male, ma, alla fine, Serna era convinta di avere davanti al lei esattamente quello che Festo aveva suggerito.

    Arrotolarono il millepiedi sul fondo di una barca, lo coprirono con una cerata e andarono a dormire tranquilli. Domani all’alba sarebbero andati a provare.

    Serna si alzò di buon’ora e si recò al porticciolo dove avrebbe atteso il rientro dei pescatori che erano andati a provare il millepiedi, anzi, il “milleami”, come avevano preso a chiamarlo.
    Arrivò al porto proprio mentre la barca faceva il suo ingresso con la piccola vela latina gonfia della prima brezza di mare.
    Così presto? Strano. Dovevano tornare verso mezzogiorno o nel primo pomeriggio.
    Serna allungò il passo. Qualcosa non andava.
    La barca aveva ammainato la vela e stava attraccando al piccolo molo. Il vento le portò il brusio di voci incollerite. Qualcosa decisamente era andato storto! Serna cominciò a correre.
    “Eccola!”
    “Ecco il gran genio che arriva!”
    “Scemi noi a darti retta!”
    “Guarda che cosa ne è del tuo milleami!”
    Le urla e gli sghignazzi la investirono come un’onda rabbiosa lasciandola boccheggiante e senza forze. Ci mise parecchio tempo a ricomporre nel mosaico di invettive l’accaduto: era bastato un piccolo spostamento della matassa che gli ami avevano agganciato le sagole. Il risultato stava davanti a lei: un enorme nodo informe sul fondo della barca.
    Se ne andarono furenti per i tre giorni di lavoro inutile lasciandola a guardare, con occhi che rischiavano di traboccare di lacrime, il nodo della sua sconfitta. Nelle orecchie le rimbombava quel: “Ma dov’è il Mago? Perché ci ha abbandonati nelle mani di questa qua?”
    Il brusio si spense lentamente alle sue spalle.
    Dove aveva sbagliato?
    Cosa avrebbe fatto suo padre?
    E ora? Che fare? C’era qualcosa da fare?
    “Conoscevo bene tuo padre”, la voce rasposa la fece sobbalzare, “avrebbe fatto esattamente quello che hai fatto tu.”
    Serna si girò e si trovò di fronte Agio, il vecchio pescatore dalla faccia solcata di rughe e la pelle che sembrava cuoio maltrattato.
    “L’unica differenza sarebbe stata che Jona avrebbe saputo che il primo tentativo sarebbe andato male. Gli indovinelli degli Dei non sono mai semplici.”
    “Grazie Agio. Che devo fare ora?”
    “Vai a casa e calmati. Io districo questo ginepraio.”
    “Ti aiuto.”
    Agio rise: “Queste mani hanno sciolto più lenze di quanto tu possa immaginare. A ognuno il suo lavoro. Saresti solo d’impiccio.”
    Da chiunque altro sarebbe stata un’ulteriore offesa, ma Serna sapeva che Agio stava solo enunciando un fatto. Né più né meno.
    “Va bene. Quando hai finito ti aspetto a casa.”
    Agio soppesò l’intrico con un’occhiata: “Non prima di stasera, forse domattina.”

  • Il dono di Festo

    “Dardaaaaa!” urlò senza fermarsi mentre passava davanti alla cucina.
    Darda entro nello studio pochi minuti dopo: “La signora ha chiamato?” disse senz’ombra di ironia. In altra occasione Serna sarebbe arrossita fino alla radice dei capelli, ma ora non la sentì nemmeno, affascinata com’era dalla cosa che aveva davanti.

    Darda rimase in silenzio a guardare quello strano millepiedi che occupava quasi tutta la stanza. Interrompere Festo per chiedere spiegazioni era impensabile. L’Amuleto di Serna era diventato d’argento e pulsava al ritmo delle parole del Dio.
    “Ci riusciremo! Riusciremo a farlo funzionare! Grazie Festo!”
    Aspetta a ringraziare. Dovete ancora dimostrare di non essere gli imbecilli che siete sembrati ieri. Non vi darò, stavolta, le istruzioni complete. Solo l’idea generale. Guarda bene questo modello perché è tutto quello che avrai.
    L’Amuleto tornò a splendere del solito colore giallo intenso. Festo se ne era andato.
    “Amuleto: fai una copia di questa immagine prima che scompaia.”
    “Festo ha inibito questa funzionalità.” Serna imprecò fra i denti.

    “Mi vuoi spiegare che sta succedendo?” chiese Darda, che, intanto, si era avvicinata e stava osservando da vicino l’immagine.

  • Tarasso

    In pochi minuti di corsa forsennata erano di fronte alla costa. Puntavano dritti verso la scogliera del capo, come se volessero andarci contro. Solo all’ultimo momento Serna vide che davanti a loro si apriva un lungo tunnel oscuro. Il pesce entrò senza rallentare e, dopo un breve tragitto nel buio più assoluto, si fermò in una piccola caverna avvolta nella penombra. Riaprì la bocca e la lingua andò a posarsi su un piccolo molo sotterraneo di pietra liscia e umida. Serna scese e il pesce si rituffò senza rumore.
    Dal molo partiva una scala scavata nella roccia; lei cominciò a salire lentamente.
    “Amuleto: luce!” disse nella lingua della magia. L’Amuleto divenne più luminoso e proiettò un fascio di luce giallastra davanti a lei. La scala era molto antica, ma ben tenuta e pulita. Esattamente duemila gradini più tardi si trovò davanti a un archetto coperto da una tenda pesante. Dopo un istante di esitazione Serna la scostò e uscì alla luce del sole.
    “Ti stavo aspettando. Posso offrirti un rinfresco? Devi essere stanca.”
    Tarasso, il Sacerdote di Posse, le stava offrendo una coppa di succo di frutta.
    Serna si rese conto che aveva ragione; la tensione era stata forte.
    “Grazie”, disse sincera assaporando il liquido asprigno; melograno e lamponi? Combinazione interessante.
    “Posse ha un’alta considerazione di te. Ti conviene non deluderlo.” Serna venne riportata con i piedi per terra da quella semplice constatazione. Le implicazioni erano molteplici. Passare inosservati, al di sotto del livello della coscienza degli Dei era relativamente facile. Essere notati era un privilegio di pochi, ma, spesso, anche una maledizione.
    “Non ho mai cercato di passare inosservata”, disse Serna ad alta voce seguendo i suoi pensieri.
    “No, penso proprio di no”, assentì Tarasso, “Devono essersi accorti di te fin da quando hai rubato l’amuleto di tuo padre per fare i fuochi in cielo sulla spiaggia”.
    Serna arrossì. Tarasso aveva solo una decina d’anni più di lei e, quella famosa sera, era anche lui con gli altri ragazzi alla spiaggia. Lei aveva solo cinque anni e suo padre era andato su tutte le furie. Non aveva alcuna difficoltà a ricordare il dolore delle tre scudisciate che le aveva affibbiato sulle gambe, né l’umiliazione per il fatto che la punizione fosse pubblica. Ora sapeva che suo padre era stato orgoglioso della sua performance, anche se l’aveva punita come meritava. Non era strano che una bambina cercasse di giocare con gli attrezzi dei grandi, ma era assolutamente eccezionale che l’Amuleto si lasciasse rubare e cooperasse con lei. Lo spettacolo di fuochi in cielo era stato veramente bello
    “Sapevi perché Posse era così arrabbiato con i pescatori?”
    “Non di preciso. Ho visto anch’io la devastazione solo ora”, disse indicandole quella che a Serna era sembrata un’ampia fontana. Era sbucata in una zona del tempio che non aveva mai visitato, sotto un ampio porticato c’era la fontana. Serna si avvicinò e vide che si trattava di un gigantesco occhio degli Dei. Una riproduzione in miniatura del tratto di mare davanti al golfo di Tigu. Tarasso mormorò qualche parola e la vista cambiò, mostrando la sommità della secca. Era possibile vedere tutte le ferite inferte dalle reti.

    Serna annuì meditabonda. “Grazie. Avrò bisogno del tuo aiuto.” “

    Rimase ancora un po’ a parlare con Tarasso e accettò un leggero spuntino, poi ripartì verso casa. Era ancora mattina e il sole stava appena cominciando a scaldare l’aria. La strada era lunga, ma tutta in discesa. Serna si mise al piccolo trotto, impaziente di arrivare. Per fortuna aveva messo un paio di solide scarpe e non i sandali leggeri che usava di solito quando andava al mare.