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  • In Blanzoon

    Il Mago si mise in moto di buon’ora, procedeva senza fretta scrutando la foresta, ma non vide mai nessun movimento.

    Dopo una mezza giornata di cammino si lasciò alle spalle l’ultima fattoria. Si fermò presso il fiume per riposarsi e mangiare un boccone.
    Prima di ripartire rimise l’Amuleto ben visibile in cima al suo lungo bastone da passeggio. L’Amuleto, quasi avesse indovinato le sue intenzioni, cominciò a risplendere di una luce minacciosa.
    La valle cominciava a restringersi, i due lembi della foresta ad avvicinarsi e infine apparve l’alta rupe su cui doveva trovarsi Blanzoon.
    A Jona parve solo un’altra altura completamente coperta da alti alberi maestosi. Nessun animale animava il paesaggio e di Elfi non si vedeva nessuna traccia.
    Si avvicinò prudentemente al limitare della foresta.
    Non si sentiva altro che lo stormire delle fronde e non si vedeva un movimento che non fosse l’ondeggiare di rami al vento.
    “Amuleto, non vedo animali, neppure uccelli”, si decise, finalmente, a chiedere.
    “Infatti, non ce ne sono.”
    “Strano!”
    “Hanno imparato sulla loro pelle a evitare questa parte della foresta.”
    “Potresti essere più preciso?”
    “Vedi quei cespugli ai piedi dei grandi pini? Sono dei parassiti di questi pini rossi che, però, hanno bisogno di luce, quindi li trovi solo al limitare delle foreste, dentro è troppo buio”. Jona aspettò pazientemente che l’Amuleto venisse al punto. “Si tratta di piante molto pericolose: basta sfiorarle che rilasciano le loro spore. Si tratta di un veleno potentissimo per tutti gli esseri che respirano. Meglio tenersi a distanza.”
    “Capisco. Non sono pericolosi anche per gli Elfi?”
    “Sono pericolosi solo se non li conosci. Per passare basta solo turarsi il naso e correre.”
    “Occhio di lince!”
    L’Amuleto obbedì prontamente e la distanza sembrò scomparire. In un’ampia zona circolare attorno alla linea di vista del Mago la foresta gli balzò incontro e lui poté esaminare con tutta calma le micidiali piante che facevano la guardia ai territori elfici con tanta efficienza. Si trattava di larghe fronde simili a felci. Apparentemente innocue. Jona raccolse un sasso e lo lanciò verso le felci. Mancò completamente il bersaglio ingannato dell’Occhio. “Spegni l’Occhio fino al lancio!” Il secondo tentativo andò molto meglio: l’Occhio riapparve quando la pietra lasciò la sua mano e Jona la vide andare a disturbare alcune foglie frangiate. Le spore erano quasi invisibili. Impossibile evitarle, anche sapendo che cosa si doveva fare. Inutile mettere sentinelle al confine.
    Jona rivolse l’attenzione alla rupe su cui doveva, secondo le indicazioni della matriarca, trovarsi Blanzoon. Vide solo enormi alberi. Diversi dai grandi pini che circondavano la rocca. Questi sembravano latifoglie, con i rami che correvano in orizzontale. Poi li vide. Gli Elfi stavano sui rami, badando ai fatti loro. “Avvicina!” Gli alberi gli balzarono incontro e Jona si rese conto che erano ben strani. Quei rami enormi e quasi piatti formavano delle ampie strade aeree che collegavano i vari tronchi sui quali si aprivano porte.
    Gli elfi, invece, furono una grossa delusione. Jona aveva immaginato fossero quasi sovrannaturali, si trattava, invece di esseri sgraziati dalle lunghe braccia muscolose, ma con le gambe corte e dei ridicoli piedi lunghissimi. Ce n’era un gruppo intento a parlare e sembrava fossero accoccolati sui talloni. Concentrò la sua attenzione su un altro paio che stavano camminando lentamente, assorti in conversazione. Erano veramente goffi con quelle gambe corte e quei piedoni lunghi quasi quanto la gamba. Jona si rese conto che qualcosa non quadrava. “Amuleto: quelli sono Elfi?”
    “Sì”, rispose laconico quello.
    “Non sembrano dei gran corridori.”
    “A volte le apparenze ingannano.” Nella voce c’era una distinta nota di scherno. Jona, intanto, aveva ripreso a camminare. A un tratto sentì una serie di fischi lontani e la scena si animò improvvisamente. Dovevano averlo avvistato. Niente di strano. Non faceva nulla per passare inosservato.
    I due che stava spiando si voltarono verso di lui e Jona poté vedere bene i loro volti angolosi e scarni, gli occhi grandi, con la pupilla a fessura verticale e le orecchie a punta, mobili e con un ciuffetto di peli in cima. Le orecchie si piegarono di scatto all’indietro mentre le bocche si aprivano in una smorfia di allarme che metteva bene in vista quattro canini ben più lunghi e aguzzi del normale. “Linci”, pensò il Mago. I due avevano perso tutta la loro goffaggine; si erano alzati sulle punte dei lunghi piedi e sparirono in una delle aperture con pochi passi che somigliavano a balzi felini.
    Jona sentì un brivido correggergli per la schiena, ma si costrinse a mantenere il passo sostenuto e costante mentre avvicinava la rupe che, ora lo vedeva bene, era circondata da un’alta siepe di rami spinosi molto fitti e strettamente intrecciati. Passare da lì non sarebbe stato facile. Non si vedevano porte di sorta.
    Mano a mano che si avvicinava Jona notò anche altri particolari. Gli alberi interni erano disposti con una certa regolarità e uno solo cresceva molto vicino alla siepe, tanto che i rami arrivavano fin sopra di questa.
    Proprio su un largo ramo di quell’albero, a quasi venti metri dal suolo, si era radunata una piccola folla che lo aspettava. Gli archi furono incoccati e puntati; parevano proprio intenzionati a rimandarlo da dove era venuto senza dargli modo di parlare.
    Jona li ignorò e continuò a camminare puntando dritto verso l’albero che sormontava le mura vegetali. Oramai poteva vedere benissimo gli Elfi anche senza l’Occhio.
    Quando arrivò proprio sotto il ramo dove gli Elfi lo stavano aspettando, piantò con forza il suo bastone. L’Amuleto si produsse in una cascata di lampi vermigli che avvolsero il bastone e andarono a scaricarsi sul terreno. Quindi Jona urlò, amplificato dall’Amuleto che traduceva in prefetto Elfico: “Chiedo udienza!”
    La reazione non si fece attendere. Il gruppo si sciolse e i guerrieri, sempre con gli archi pronti, si ritirarono su per i rami, lasciando solo un Elfo dall’aspetto autoritario vestito completamente di giallo.
    Questo si tolse dalla spalla il suo bastone che aveva in cima un Amuleto splendente di luce gialla e avanzò sul ramo che, lentamente, cominciò a flettersi sotto il suo peso, fino ad arrivare, quasi fosse un pontile di sbarco da nave, a toccare terra proprio davanti a Jona. Proprio come una passerella era piatto e completamente privo di foglie.
    “Vieni in pace?”, chiese l’Elfo guardandolo dritto negli occhi.
    Jona sostenne lo sguardo: “Sì”, rispose semplicemente, sapendo perfettamente che l’amuleto del Mago Elfico analizzava lui e la risposta per capire se stesse mentendo. La domanda diretta serviva proprio a permettere un test rapido. Jona sorrise. Anche lui aveva usato tecniche equivalenti fin troppe volte. Era un po’ strano trovarsi “dall’altra parte”. Senza aspettare un invito formale si avviò sul ponte levatoio, seguendo l’Elfo che lo precedeva con lunghi passi agili. Goffi? Gli Elfi? Come diavolo aveva fatto a pensarlo?
    Mentre si avvicinavano al tronco il ramo tornò alla sua posizione originale, a confondersi con gli altri nella chioma, risollevandosi senza la minima scossa. Era largo quattro metri e quasi perfettamente piatto. Anche senza il piede felino degli Elfi si poteva camminare con tutta tranquillità.
    L’Elfo lo precedette sul ramo fino ad arrivare al tronco, che era veramente gigantesco, ancora più di quanto gli fosse sembrato da sotto, e inconsueto: quasi perfettamente ottagonale. Proprio dove il ramo arrivava a congiungersi, c’era una stretta apertura che dava accesso alla camera interna. La sua guida attraversò speditamente lo stanzone spoglio lasciando poco tempo a Jona per esaminarlo. Un attimo dopo erano sul ramo, dal lato opposto, che, come aveva fatto l’altro, al loro passaggio si piegò verso il basso portandoli dentro Blanzoon.
    Appena i due scesero dal ramo-ponte-levatoio questo ritornò rapidamente in alto. L’Elfo gli fece strada tornando verso il tronco nel quale, al livello del terreno, si apriva un’altra apertura protetta da una pesante tenda imbottita. L’Elfo la scostò ed entrarono.
    L’interno era una stanza spaziosa che prendeva buona parte del tronco dell’albero. Il pavimento era di legno lucido e una strana scala senza ringhiera saliva a spirale lungo la parete verso il piano superiore. I gradini sembravano uscire direttamente dalla parete di legno senza fessure visibili.
    Un tavolo rotondo occupava un angolo. Anche quello sembrava fissato al pavimento, come un enorme fungo piatto.
    Non c’erano finestre, ma l’aria era fresca e resa luminosa da piccoli globi che si trovavano sul soffitto ed emettevano una luce calda.
    Il mago elfico rimase in silenzio, lasciando che Jona esaminasse la sala nei particolari. Solo quando questi riportò l’attenzione su di lui, disse: “Questa sarà la tua casa, per ora.”
    “Grazie”, rispose Jona, “ma non credo di potermi fermare molto.” Così dicendo tolse l’Amuleto di Thano dal suo alloggiamento in cima al bastone e lo posò delicatamente sul tavolo. La Bussola era chiaramente visibile.

    “Nessun umano li conosce, ed è così che deve essere!”, tagliò corto l’Elfo con un tono che assomigliava a un ringhio. Jona non si lasciò impressionare e proseguì come se l’altro non avesse parlato:
    “Questo è quello che dici tu, umano.”

    “Lo strano disegno sul tuo Amuleto punta direttamente verso l’Innerwald. Non sono molti gli umani che hanno avuto il permesso di entrarvi. Nessuno da solo.”
    “Ti ho già detto che non vedo problemi a farmi accompagnare, anzi, mi piacerebbe molto. Non ho molte informazioni sulle intenzioni di Thano, ma dubito che voglia provocare una guerra tra Elfi e Umani.” Vide un lampo nello sguardo dell’Elfo e proseguì, guardandolo dritto negli occhi: “Se anche avesse questa intenzione, non credo che io e te potremmo impedirglielo.”
    Il Mago elfico diede un’altra occhiata verso il suo Amuleto, della qual cosa Jona gli fu grato — gli Elfi non sembravano aver bisogno di sbattere le palpebre; cercare di sostenerne lo sguardo felino poteva essere faticoso — poi parve rilassarsi, quasi impercettibilmente: “No, non credo tu voglia creare problemi, anche se non sono così sicuro del tuo padrone.”
    Guardò Jona con un’espressione sinceramente divertita, la prima non-ostile da che era arrivato a Blanzoon: “L’unico momento in cui non sei stato completamente sincero è quando hai detto che non potremmo opporci a Thano. Hai un’alta considerazione di te stesso.”

  • Blanzoon

    La famiglia si mise in moto che ancora era buio, nonostante fossero i giorni più lunghi dell’anno. All’alba Stephan prese la via del ritorno, mentre i pastori stavano ancora finendo di mungere le loro vacche.
    La colazione venne solo dopo quest’operazione mattutina.

    “Se davvero vuoi entrare nei territori degli Elfi”, diceva il pastore, “ti conviene andare apertamente. Presentati a Blanzoon. Non conviene cercare di entrare di nascosto. Chi ci prova muore.”
    “Sono davvero così terribili?”, chiese Jona.
    Il pastore rise: “Terribili? No. Sono diversi, diffidenti. Sembra che sappiano sempre quando stai cercando di nascondere qualcosa. Forse per questo loro non mentono mai, a differenza di noi umani.”

    “Non ne hai mai visto uno, vero? Certo che no, altrimenti non faresti domande stupide.”
    Jona non riuscì a cavargli una descrizione che avesse senso. Di sicuro erano cacciatori formidabili e correvano come il vento, ma poi i particolari si facevano confusi.
    Comunque la curiosità sarebbe durata poco. Il pastore si era offerto di accompagnarlo verso nord fino quasi in vista di Blanzoon: la Porta degli Elfi.
    La città era a un paio di giorni di cammino da dove si trovavano adesso e il pastore doveva portare parte del bestiame a un’altra fattoria proprio in quella direzione. Jona fu ben lieto di accodarsi.
    La valle del Tich era ampia e verde, circondata da foreste di alberi enormi. Si vedevano, lungo il fiume, alcune fattorie molto distanziate l’una dall’altra. Si trattava di piccoli mondi chiusi, oppressi dalla vicinanza del micidiale bosco alieno. Passarono accanto a un paio di queste ampie case costruite prevalentemente con i sassi presi dal greto del fiume. Alcuni boschetti fornivano il legname. Nessuno aveva l’ardire di andare a far legna nel bosco degli Elfi.
    A sera arrivarono alla fattoria dove erano diretti.
    Furono accolti amichevolmente dalla famiglia che la abitava. Amici del pastore. Si trattava di una famiglia allargata, dove l’anziana nonna ancora comandava a bacchetta sei figli, le mogli e un numero imprecisato di marmocchi di tutte le età. Jona fu stupito della quiete e del silenzio che regnava in una casa così densamente popolata. La presenza degli Elfi era palpabile, anche se non era ancora riuscito a vederne uno.
    “E non ne vedrai”, gli disse la matriarca, “sembra quasi che abbiano paura di farsi vedere, ma non è così, naturalmente. Comunque sono dei vicini ideali: non danno mai fastidio e non permettono che qualcuno ne dia.”
    “Vero”, confermò il pastore, “diversi anni fa una banda di balordi è venuta dal sud pensando di poter razziare facilmente il bestiame, no, non qui, più a valle di casa mia, verso le Ceneri”, precisò vedendo lo sguardo stupito della matriarca.
    “Sono durati esattamente tre giorni. La mattina del quarto li abbiamo trovati legati come salami in mezzo al fiume. Non avevano un segno addosso, a parte quelli lasciati dalle corde. Li abbiamo salvati quasi tutti per le galere del Visconte. Gli altri se li è portati la polmonite. Sicuramente gli è passata la voglia di fare i gradassi da queste parti.”

  • Verso il confine

    A metà pomeriggio si fermarono sul basso passo delle Ceneri.
    Sotto di loro, a sud, i boscaioli stavano lavorando e si vedevano le coppie di buoi che trascinavano i tronchi, sfrondati e ripuliti, verso il fiumicello che li avrebbe portati fin giù al lago di Luga.
    Verso nord, invece c’era una verde valle oltre la quale cominciava una foresta di alberi immensi di un verde scuro tanto da sembrare nero.
    “Da questo punto in poi non si può tagliare nemmeno un filo d’erba”, disse Stephan con evidente acrimonia, “se vuoi restare vivo”.
    Jona si guardò attorno preoccupato. Stephan rise: “non vedrai nessuno, se non vogliono farsi vedere.”
    Jona guardò verso la valle. Si vedevano poche malghe sparse con del bestiame attorno. Stephan seguì il suo sguardo: “No, nella valle ci sono ancora gli uomini, ma, come vedi, si tengono tutti da questa parte. Dal limitare della foresta a nord comincia il territorio degli Elfi. Gli uomini non sono i benvenuti.”
    “Scendiamo, abbiamo ancora un po’ da camminare prima di arrivare dai pastori di cui ti parlavo. Più di questo non posso fare.”
    La sera divisero la cena con una coppia di pastori e i loro tre figli: fette di pane con formaggio e miele.
    “Gli Elfi sono gente dura”, diceva il pastore, “ma non sono i diavoli che dipinge il nostro buon Stephan. Se hai un vero interesse per le piante, ti staranno a sentire, ma non sarà facile convincerli. Sono molto diffidenti. Secondo le loro leggende tutti gli uomini sono dei traditori senza onore. Ogni tanto ho sentito accenni a vecchie ruggini che non sono mai state completamente né chiarite… né dimenticate”.
    “Palle!”, sbottò Stephan, “sono solo degli animali che si credono chissà chi!” Il pastore e la moglie sorrisero e cambiarono argomento.

  • Carbone!

    La mattina dopo Jona e Stephan se ne andarono a cercare un posto adatto, mentre Michele smerciava le sue belle accette affilate e le grandi seghe a quattro mani.
    Trovarono uno spiazzo piano nel bel mezzo di una zona che era già stata diradata dal taglio dei grandi tronchi.
    “Lo spiazzo va benone. Ora dovete pulirlo per bene e lasciare solo la terra. Niente foglie. Niente aghi di pino”, diceva Geppo nell’orecchio del Mago, “La legna, invece, lascia parecchio a desiderare. Il pino ha troppa resina, ci vorrebbe faggio o quercia, ma lì intorno non ne vedo. Eh, dovrete accontentarvi.” Jona riferiva come fosse farina del suo sacco.
    Preparare il terreno fu una faccenda lunga, anche con l’aiuto di Michele che li raggiunse in tarda mattinata.
    A sera, quando tornarono al campo, avevano piazzato il palo per il camino e cominciato a tagliare la legna.
    Stephan era una macchina: usava la roncola con una precisione micidiale e aveva sfornato una quantità di rami dritti e tagliati tutti della stessa lunghezza che Jona e Michele stavano ammonticchiando in file ordinate intono al palo, seguendo le istruzioni di Geppo.
    Questi aveva preso gusto al suo ruolo di consigliere e parlava in continuazione, dando consigli sulla disposizione di ogni singolo pezzo di legna. Jona faceva del suo meglio per filtrare quella cascata di parole e capire cosa ci fosse di effettivamente importante.
    La sera del secondo giorno avevano finito di ricoprire di foglie e terriccio fresco l’intera struttura.
    “Più piccolo di così non si può fare, altrimenti, come apri il camino, va tutto in fumo”, diceva Geppo, “è molto meglio farne di più grandi: si controllano meglio e, alla fine, rendono di più, ma poi devi lasciarli cuocere più di una settimana. Questo, invece, in un paio di giorni dovrebbe essere a posto”.
    La mattina dopo accesero il fuoco, tolsero il palo dal camino e cominciarono ad alimentare la carbonaia con braci ardenti.
    Il lavoro, ora, era essenzialmente controllare e aspettare. Anche Geppo rallentò il ritmo martellante dei suoi commenti.
    “Amuleto, togli la voce”, mormorò Jona.
    “Non vuoi sentire più Geppo?”, chiese l’Amuleto. Se l’immaginava o l’Amuleto aveva un tono canzonatorio?
    “No. Voglio che Geppo non senta noi.”
    “Va bene. Fatto.”
    “Stephan, Che mi sai dire degli Elfi?”, chiese Jona con tono discorsivo.
    Stephan si rabbuiò. “Quei demoni! Credono di avere il diritto di dirci quello che possiamo o non possiamo fare! Si considerano i figli di Asclep e, pertanto, padroni e signori di tutte le piante del mondo.”
    “Beh, un erborista come me dovrebbe avere parecchio da imparare, no?”

    Il fumo che usciva dagli sfiatatoi a metà altezza della carbonaia stava diventando azzurrino. Jona si alzò per andarli a coprire e aprire, con un bastone appuntito, un’altra fila di sfiati, un palmo più in basso, lieto per la diversione. Lo sfogo di Stephan, di solito calmo e misurato, lo aveva scosso. Che aveva in serbo per lui, Thano?
    “Bravo”, gli disse Geppo nell’orecchio, “stavo aspettando per vedere se te ne saresti accorto da solo. Puoi diventare un buon carbonaio, Mago”.
    La sera del secondo giorno di “cottura” gli sfiatatoi erano arrivati alla base della carbonaia ed emettevano fumo azzurrino. Seguendo le indicazioni di Geppo coprirono accuratamente tutte le prese d’aria in modo da soffocare il fuoco residuo e lasciarono a raffreddare.
    La mattina successiva scoprirono con cautela la carbonaia, pronti a spegnere le fiamme se il fuoco fosse divampato.
    “La fortuna del principiante”, sentenziò Geppo, “meglio di così non vi poteva andare. Vi scongiuro state attenti le prossime volte: non sempre le cose vanno così lisce.”
    Michele raccolse una manciata di carbone e andò ad accendere un piccolo fornello che si era portato appresso. Tornò mezz’ora dopo con un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Non ebbe bisogno di dire nulla.
    Prima di mezzogiorno stava riscendendo la valle verso Linda con il carro carico di carbone.

  • Carbonaia

    Arrivarono al campo dei taglialegna il giorno dopo, ben dopo il tramonto, quando oramai cominciava a essere troppo buio per proseguire. Michele aveva visto i chiarori dei fuochi più in alto nella valle e non aveva voluto sentir ragioni. Avevano proseguito, a rischio di far azzoppare i poveri asinelli che arrivarono mezzi morti per la fatica.
    L’accoglienza da parte dei boscaioli fu calorosa. Conoscevano bene Michele che veniva a vender lame da parecchi anni.
    I due cenarono allegramente con i resti, oramai quasi freddi, del pasto. Michele continuava a guardarsi in giro cercando qualcuno. Jona stava ancora tenendo in mano il grosso boccale di vino che gli avevano dato, troppo aspro per i suoi gusti, quando Michele lo strattonò per un braccio dicendogli: “vieni!”
    Aveva trovato chi cercava perché si diresse lontano dai fuochi verso un riparo dove qualcuno si stava preparando per la notte.
    “Chi è?”, chiese una voce assonnata.
    “Sono io, Stephan, Michele.”
    “E che vuoi da me, adesso? Non ti basta far piangere mia sorella per undici mesi l’anno?”
    “Stephan, che tu ci creda o no, io non sto meglio di lei, quando sono lontano. E, se mi aiuti, forse posso trasferirmi a Luga per il resto della mia vita.”
    “Vuoi metterti a fare il boscaiolo?” chiese Stephan con aria dubbiosa.
    “Non fare lo scemo! Lo so che non lo sei! Stammi a sentire!” Gli spiegò, per sommi capi, la faccenda del carbone di legna. Ora Stephan era completamente sveglio. Si girò verso Jona e lo guardò con due occhi chiari e penetranti: “Sei sicuro che si possa fare?”
    Jona, e non per la prima volta, si chiese se non avesse fatto una solenne fesseria a parlare di quella faccenda. Trovava Michele simpatico e aveva una certa voglia di aiutarlo, ma ora le cose si stavano complicando forse era il momento di sparire.
    “Come ho già detto a Michele: Sì, sono sicurissimo che si possa fare. L’ho visto fare parecchie volte, ma non l’ho mai fatto io.”

    “Stephan, tu ti fideresti di farti spiegare come si butta giù un albero da Michele? Deve averlo visto fare tante volte.”
    “Io voglio aiutarvi, ma dovete capire che la cosa potrebbe non funzionare al primo colpo. Dovrete trovare il modo di farla andare voi.”
    “”Dovremo”? Tu non sei della partita?”
    “No, lui deve continuare il suo viaggio”, intervenne Michele, “questa è un’altra storia di cui parleremo, ma ora mi devi garantire che mi darai una mano. In segreto.”
    Stephan ci pensò su un momento. “Non ci vedo molto chiaro e c’è qualcosa che mi sfugge, ma, se è per la mia sorellona, puoi di certo contare sul mio aiuto”, disse allungando la mano. Michele si affrettò a stringergliela con aria solenne.
    Jona dovette ripetere anche per Stephan tutta la descrizione della carbonaia.
    Era molto tardi quando finalmente poté avvolgersi nel suo mantello in un angolo appartato.
    “Amuleto, puoi chiamarmi Serna senza che si senta?”
    La voce di Serna gli squillò nell’orecchio, facendolo sobbalzare: “Tutto bene, papà? L’Amuleto mi dice che sei in mezzo alla gente”.
    “Vero”, mormorò lui, “ho bisogno di un consiglio”, poi le narrò le vicende della giornata.
    Serna rimase silenziosa a lungo e Jona se ne accorse.
    “Che c’è, bambina mia? Ho fatto qualche grossa scemenza?”, chiese gentilmente. Gli sembrava di vederla mordicchiarsi il labbro inferiore, poi: “Papà, non hai pensato che se Festo non glielo ha insegnato forse aveva i suoi buoni motivi?”
    Jona imprecò tra i denti: no, non ci aveva pensato.

    “Certo che ne sono capace, ma temo che sia già troppo tardi. Per Stephan non ci sarebbero problemi, ma per togliere questo ricordo a Michele lo faresti diventare un mezzo idiota! Sono due giorni che non pensa ad altro”.
    “Calma, papà! Va tutto bene. Festo dice che ha ritardato questa tecnica per spingere all’uso delle piastrelle solari. Ora le hanno quasi tutti, quindi non c’è più ragione per rendere le cose difficili ai fabbri.” Jona tirò un sospiro di sollievo; non aveva davvero bisogno di inimicarsi un qualche Dio, men che meno un Dio potente come Festo.
    Jona tirò un sospiro di sollievo: “Volevo aiutare Michele, che è un bravo ragazzo e mi sembra sinceramente innamorato di quella Linda, ma stavolta ho veramente parlato prima di pensare. Poteva essere un disastro”.
    “Pensi veramente di riuscire a far funzionare una carbonaia?”

    “Certo.”
    “Bene. Ecco quello che faremo: Serna, cerca di trovare un buon carbonaio, possibilmente abbastanza intelligente da non spaventarsi a morte e da essere utile e spiegagli che mi deve guidare. Domani, quando Michele e Stephan vorranno cominciare a metter su una carbonaia l’Amuleto vi mostrerà dove sono e cosa faccio. Il carbonaio mi dirà che fare e mi correggerà se sbaglio”.

    “Abbiamo un carbonaio in casa?” Jona, per la sorpresa, aveva parlato con voce quasi normale. Si guardò attorno, ma non vide nessuno agitarsi. Meglio così.
    “No, evidentemente non lo sapevi”, rise Serna. “Il vecchio Geppo si è ustionato per benino per salvare quel senza-cervello di suo nipote che stava scoperchiando una carbonaia ancora calda. Si salveranno entrambi, ma ne porteranno i segni a vita.”

  • Carbone di Legna

    Il carro procedeva spedito su per l’ampia valle e già il lago di Luga era scomparso alle loro spalle quando Jona finalmente si arrischiò a fare la domanda che gli girava in testa fin dalla sera prima:
    “Oh, se è per quello è un ottimo posto, ma come pensi di convincere gli Elfi a farti entrare nella loro amata foresta?”
    “Elfi?”, chiese Jona perplesso.

    “Probabile. Perché non mi racconti l’altra mezza?”
    “In realtà non ne so molto. Ti conviene parlare con i boscaioli, stasera. Quello che so per certo è che tutte le montagne a nord sono occupate dagli Elfi che non lasciano entrare nessuno e sono gelosissimi delle loro piante.”
    “Ma chi sono questi “Elfi”? Sono davvero così cattivi?” Chiese Jona sentendo arrivare un’altra delle Prove di Thano.
    “Mah, che vuoi che ne sappia? Non li ho mai visti personalmente. I boscaioli li descrivono come diavoli scatenati che trattano gli alberi come se fossero figli loro. Ho sempre pensato che esagerassero, ma non ho nessuna intenzione di andare a controllare. Non ho nessuna voglia di cacciarmi nei guai, io”, soggiunse con un’occhiata eloquente.
    Jona decise che era il momento di cambiare argomento: “Sai che non ti credevo un Dongiovanni?”, disse sorridendo, “hai una fidanzata su ogni lago?”
    Michele lo guardò di traverso. “Non mi prendere in giro! Io e Linda vorremmo veramente sposarci, ma lei non può lasciare la locanda ed io non posso lavorare a Luga, nemmeno adesso che ho finito il mio apprendistato”.
    “Perché no? Capisco che la locanda sia difficile da spostare, ma tu non potresti metter su bottega a Luga?”
    “Il problema è il carbone”, disse Michele con aria sconsolata,
    Jona lo guardò per un attimo, poi disse lentamente: “Ma non lo sapete fare il carbone?”
    “Che dici? Il carbone lo cavano da sotto terra, lo sanno anche i passeri!” Poi vide lo sguardo serio di Jona:

    “Non è un procedimento facilissimo, se si vuole ottenere del buon carbone. Io non l’ho mai fatto, ma l’ho visto fare parecchie volte, sui nostri monti.” Michele si fece attentissimo.
    “In Ligu non ci sono giacimenti di carbone naturale, quindi siamo costretti a farcelo da soli”, spiegò Jona. “I nostri boscaioli trasformano in carbone tutta la legna di risulta, tutti i rami troppo piccoli per essere utilizzati, tutti i tronchi infestati dai tarli e tutto quel che non si riesce a usare in altro modo. Lo trasformano direttamente sul posto, così devono portare giù dai monti roba più leggera.”
    “Ma come fanno?”
    “Il principio è semplice: basta far bruciare la legna fino ad un certo punto e poi spegnerla prima che vada in cenere. La pratica è un po’ più complicata”. Passò quindi a spiegare il funzionamento di una carbonaia, di come si dovesse accumulare la legna senza lasciare aria in mezzo, come si dovesse ricoprire tutto di foglie e terra, come si dovesse dar fuoco e regolare la “cottura” della legna. Michele stava bevendo le sue parole.
    “Se questa faccenda funziona”, disse serissimo alla fine, “Non ho nessun bisogno di fare il fabbro. Posso mandare carbone in Valle a un prezzo tale da togliere tutti i clienti ai carbonai dell’ovest.”
    “Questa faccenda funziona”, disse Jona, “funziona tanto bene che noi lo usiamo anche nelle stufe e non solo per le forge, anche se”, soggiunse, “so che non è un procedimento facile ed io non posso aiutarti molto più di così, visto che non sono un carbonaio.”
    “Se non mi stai prendendo in giro”, lo guardò dritto negli occhi, “no, non mi stai prendendo in giro. C’è speranza. Ho una certa esperienza con i fuochi, sai? Dovessi passarci tutta l’estate, troverò il modo di farlo questo “carbone di legna” di cui parli.”

  • Partenza all’alba

    Sbagliava.
    Michele lo chiamò prima dell’alba.
    Jona si alzò rapidamente, stupito di quella fretta.
    Michele stava già scaricando dal carro tutta la ferramenta usata che avevano ritirato dalla segheria.

  • I Boscaioli

    Il viaggio verso la loro seconda meta fu lungo, anche se relativamente agevole.

    Prima costeggiarono il lago di Kum per un lungo tratto, poi s’infilarono in una valle laterale, seguendo un largo canale che aveva tutta l’aria di essere artificiale e che li portò a un altro lago incastrato fra i monti: il lago di Luga. Lo costeggiarono sulla sua riva settentrionale fino ad arrivare a Luga. Una cittadina di pescatori e boscaioli.
    Jona e Michele si fermarono nell’immancabile locanda, dove furono accolti da una donna energica e cordiale che avrebbe benissimo potuto essere una sorella della Zia.
    “Sei un po’ in ritardo quest’anno, Michele!”
    “Puoi dirlo forte Linda”, rispose lui, “oramai si staranno chiedendo tutti che fine ho fatto. Gli arrotini devono aver consumato le mole per cercare di rifare il filo alle accette dell’anno scorso.”
    “Ma che è successo?”
    “Grandi lavori a Castello. Il Visconte ha deciso di render dura la vita ai ladri. Ha fatto mettere inferriate e cancelli da tutte le parti. Ha requisito tutti i fabbri di Mila. Per fare il lavoro per i nostri affezionati clienti”, disse strizzandole l’occhio, “abbiamo dovuto lavorare di notte!”
    “Sì, ti ci immagino proprio a lavorar di notte”, sbuffò lei, “ma con un altro genere di martello!”
    “Via, Linda, non farmi torto, lo sai che aspetto di venire a trovarti tutto l’anno.”
    “Dove sono a tagliare, quest’anno?”
    “Alle Ceneri”, rispose lei e Michele imprecò fra i denti.
    “Fin lassù? Ci vorranno altri giorni per arrivare. Avevo sperato di rimanere qui per un po’”, disse lui evidentemente deluso.
    “Non può andare lui?”, chiese Linda speranzosa accennando a Jona “Sembra un tipo capace”.
    “Probabilmente lo è, e anche un po’ matto, ma non ci può aiutare: è un erborista che sta andando a cercare erbe strane a nord, mi ha pagato per portarlo fin qui”.
    “A nord? Allora è ben più che “un po’” matto”, disse lei guardando Jona con uno strano sguardo misto di rispetto e di sospetto. Meglio non indagare in quel momento, decise Jona, ma c’era qualcosa che lui non sapeva e che, con ogni probabilità, sarebbe stato importante di lì a breve.
    Quella sera, per la prima volta da quando avevano lasciato Mila, Jona ebbe una camera da solo. Non aveva alcun dubbio di dove fosse Michele. Stasera avrebbe potuto chiamare Serna in tutta tranquillità.
    Fece un lungo resoconto dei giorni precedenti, ma l’unica cosa veramente degna di nota era stata la visita alla segheria.
    L’amuleto stupì tutti producendo una perfetta riproduzione dei meccanismi, così come li aveva visti Jona.
    Passarono ore a discutere dei meccanismi, mentre Darda si annoiava visibilmente. A un certo punto, più per interrompere quei due che per un vero interesse Darda chiese: “Ma chi sono questi “Nani”?”
    Padre e figlia si guardarono interdetti, e fu l’Amuleto di Thano a rispondere: “Sono una tribù di abili artigiani devoti a Festo”, disse, “Anzi, per la precisione, sono diverse tribù, la più vicina si trova sui monti a est. Come hai potuto vedere sono veramente bravi; si dice che Festo li consideri come dei figli. Hanno un solo difetto: pretendono di essere pagati in oro, parecchio oro. Stupisce che una segheria abbia potuto permettersi i loro servigi. Gli affari devono andare molto bene.”
    “Il che non stupisce”, disse Jona, “In tutta la Valle non ho visto un bosco degno di questo nome; da quando ho lasciato i nostri monti, non ho più visto un albero da cui poter ricavare una trave decente. Qui, invece, ci sono pini splendidi, anche migliori dei nostri”.

  • Sul Lago

    La mattina era splendida e le montagne sembravano tanto vicine da poterle toccare soltanto allungando la mano fuori dalla finestra.
    Jona assorbiva ogni particolare. Il suo compagno di viaggio, forse troppo abituato a quella vista, forse semplicemente incapace di apprezzare tanta bellezza, la ignorava completamente e si preparava alle trattative con i primi clienti: le segherie di Kum.
    Il sole non era ancora arrivato a illuminare il lago che loro erano alla segheria, già in piena attività.
    Era situata proprio nel punto dove il lago si restringeva per diventare fiume. Larghe rogge portavano acqua alle pale di mulini che giravano maestosi. Jona non aveva mai visto nulla di simile. Le grandi ruote erano coloratissime e lucide, sembravano di ceramica, ma non potevano esserlo: erano alte più delle case vicine, che avevano anche tre piani! Giravano senza cigolii, mentre dal grande opificio arrivava un frastuono di seghe e tonfi di tronchi trasportati.
    Il carro del fabbro arrivò alla segheria costeggiando una roggia su cui galleggiava una flotta di tronchi. Una squadra di operai aveva il compito di fermarli e farli passare uno per volta nello stretto canale che entrava nella segheria.
    “Ben trovato, Michele!”, disse una voce soverchiando momentaneamente il fracasso, proprio mentre fermavano il carro davanti alla grande porta che immetteva nel capannone della segheria, “entra, ti stavo aspettando”.
    Jona aiutò Michele a scaricare le lame di sega, sia circolare sia a nastro che erano venuti a vendere e a caricare quelle vecchie, oramai consunte, da rigenerare, poi, mentre i due si ritiravano in un angolo meno rumoroso a parlare di prezzi, pagamenti, prossime consegne e chissà che altro, Jona rimase piantato a gambe larghe a imprimersi nella mente i particolari della grande segheria.
    La ruota ad acqua forniva il movimento a tutti i macchinari, trasmesso mediante cinghie ai meccanismi più disparati.
    Le cose più semplici, in fondo, erano proprio le grandi seghe che affettavamo i tronchi in tavole di spessore costante, Un po’ più complessi erano i meccanismi che prelevavano i tronchi stessi trasportati dalla roggia fino alle seghe e poi fino alle cataste, ma la meraviglia era il grande argano che sollevava degli enormi pacchi di tavole e li depositava in file ordinate all’esterno, dove avrebbero finito la stagionatura. Jona stava ancora cercando di capire come riuscissero a trasmettere il movimento a quell’enorme struttura appesa al soffitto del capannone quando Michele e il capomastro ritornarono.
    Michele aveva un’aria soddisfatta che la diceva lunga su come fossero andate le trattative.
    Il capomastro disse, indicando Jona con il pollice:
    Michele si limitò a sorridere e Jona si ripromise d’indagare su chi o che cosa fossero questi “Nani”, ma poi dimenticò la faccenda.

  • Verso Nord

    Jona rimase ancora qualche giorno a Mila, aspettando di trovare l’occasione buona per muoversi di nuovo verso nord e raccogliendo informazioni sui territori settentrionali.

    Partì con il garzone di un fabbro che andava a vendere asce, seghe e altra ferramenta ai boscaioli delle valli di Aalp. Il carro era pesante, ma molto meno di quelli carichi di botti che aveva usato prima ed era tirato da una coppia di somarelli che tenevano un passo molto più veloce di quello dei buoi. Jona ringraziò in cuor suo la locandiera che gli aveva trovato quel passaggio.

    Le mura di Mila non erano ancora completamente scomparse alle loro spalle che Jona cominciò a intravedere, sopra la foschia onnipresente nella Valle, le cime delle montagne. Non si era reso conto di quanto gli fossero mancate, ma ora sentiva il suo spirito innalzarsi come quelle cime di cui non vedeva la base.
    La sera arrivarono a Kum, cittadina sulle rive di uno stretto lago incastrato fra due catene di montagne boscose.