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  • Consiglio serale

    Rientrato alla locanda, il Mago chiese una cena fredda in camera, si mise comodo, si tolse di dosso il sudore della giornata, poi, appena la fantesca che gli aveva portato la cena se ne fu andata, si chiuse dentro e si collegò con le sue consigliere.
    “Com’è andata, papà?”, cominciò Serna.
    “Bene, penso. Ho avuto molte informazioni, ma non mi è chiaro quali e quante mi saranno veramente utili.”
    “Al Tempio in ogni caso, ho saputo tutto quel che dovevo. La bussola sull’Amuleto punta di nuovo dritta a Nord e non verso il Tempio!”, poi cominciò un resoconto quasi fedele della giornata.
    “Che ne pensate?”, chiese alla fine.
    Serna, che si aspettava la domanda, rispose immediatamente: “Ci sono almeno due cose che mi sembrano evidenti: agli Dei non piace molto che la gente viaggi e si comportano in modi differenti in posti differenti.”
    “Anche il ruolo dei Templi è molto diverso”, interloquì Darda.
    “Vero. Da noi ci sono, al confronto, moltissimi Sacerdoti e Portatori, qui molti Templi non hanno nemmeno un Portatore di Amuleto! In tutta la Valle ci sono meno Amuleti che tra Tigu e Gena. Anche il modo di comportarsi è diverso: da noi tutti i Portatori sono anche consiglieri che parlano, spesso, anche in nome del Dio; qui è diverso: ai Portatori viene fatto divieto esplicito di dar consigli in nome della Divinità su aspetti specifici. Possono solo parlare in termini molto generali o a titolo personale, pena la perdita dell’Amuleto!”

    Jona annuì: “I Pellegrini hanno trovato un sacco di difficoltà a passare da un Paese a un altro, indipendentemente dalle Prove.”
    “Mi ha molto colpito”, proseguì Serna, “la storia di quel Pellegrino che ha dovuto fare un viaggio che è durato un anno per aggirare una frontiera che gli Dei avevano decretato invalicabile.”
    “I briganti del passo, visti in quest’ottica, non sarebbero altro che uno strumento degli Dei per tenere separati i territori.”
    “Già”, fece Jona,
    Serna era rimasta assorta. Jona se ne accorse: “A che stai pensando?”
    “Pensavo che separazione e differenza non sono altro che due facce della stessa medaglia: se gli Dei vogliono avere territori differenti, allora devono tenerli separati, altrimenti le differenze si stemperano.”
    “Giusto. Quindi: Gli Dei sono gli stessi, senza dubbio; perché vogliono territori diversi?”
    Jona notò un lampo nello sguardo di Darda, mentre lei diceva: “Perché non provi a chiederlo all’Amuleto?”
    Jona aveva parecchi dubbi sul fatto che l’Amuleto avrebbe risposto, ma fece comunque la domanda senza commenti.
    Come previsto l’Amuleto disse: “Troppo facile. Dovete capirlo da soli. Io non posso rispondere a questo tipo di domande”.
    Lo sguardo soddisfatto di Darda contrastava con la risposta apparentemente inutile data dall’Amuleto. Anche Jona sorrise. Serna li guardò un attimo e poi s’illuminò: “Ci ha confermato che questo è il prossimo enigma!”
    “Sì”, annuì Darda, “ma temo che non riusciremo a risolvere il rebus stasera.”

  • Il tempio di Palla

    La mattina dopo si alzò di buon’ora e il sorgere del sole lo incontrò che ripercorreva i vicoli, diretto al tempio di Palla. Gli artigiani stavano aprendo le porte delle loro botteghe per un’altra giornata di lavoro.
    Il tempio era un palazzetto abbastanza anonimo, incastrato tra altre case. Solo il simbolo della Dea, il cui bianco abbacinante spiccava sul muro polveroso, lo faceva risaltare. Un ragazzo che indossava una corta tunica che forse, un tempo, era stata candida, stava spazzando i gradini che portavano all’ingresso. Parecchi altri ragazzi, più piccoli, vociavano lì attorno. Jona li notò perché erano tutti vestiti allo stesso modo, con una corta tunica simile a quella dell’altro ragazzo, ma di color marrone, stretta in vita da un cordone ragionevolmente bianco.

    Jona salì i gradini con passo deciso.
    La facciata non rendeva onore alle dimensioni del tempio. Davanti una doppia scalinata saliva al piano superiore e, in mezzo, si intravedeva un ampio cortile dove si affaccendavano accoliti di tutte le età. Guidato dall’Amuleto, Jona prese la scalinata di destra, salì al primo piano e percorse un lungo corridoio. Diverse teste si girarono stupite al suo passaggio, ma il passo deciso del Mago li fece esitare e, prima che qualcuno trovasse l’ardire di fermarlo, aveva imboccato la candida porta che portava alle stanze private del Sacerdote.

    Lo trovò seduto su una comoda poltrona. Al suo fianco un piccolo tavolino reggeva un grosso bicchiere pieno di latte e l’Amuleto di Palla, con il suo Avatar ben in vista.
    “Ti aspettavo, Cercatore”, disse il Sacerdote accennando all’altra poltrona, simile alla sua, che aveva di fronte.
    “Cerco saggezza”, disse il Mago chinando il capo.
    “La troverai nel tuo cuore, Jona. Siedi”.
    “Grazie.” Jona tolse il suo Amuleto dal collo, lo posò sul tavolino e prese il bicchiere di latte che lo attendeva. Il rosso Avatar del suo Amuleto rimase in silenzio, mentre quello candido diventava sempre più luminoso e prendeva le fattezze della Dea. Jona fece per prostrarsi, ma, prima che potesse poggiare il bicchiere che aveva in mano, la Dea lo fermò.
    No, Jona, non è necessario”, disse sorridendo appena. “Conosco le domande che ti affollano la mente, ma, mai come in questo caso, le parole della formula di saluto sono calzanti.
    La delusione del Mago era palpabile. Il sorriso della Dea si allargò di una frazione infinitesima:
    Il Sacerdote era un uomo tarchiato, dai lineamenti pesanti, più giovane di Jona di una quindicina d’anni e con uno sguardo penetrante. Rimase in silenzio per qualche minuto, mentre Jona digeriva le parole della Dea.
    Portò il bicchiere alle labbra e fu sorpreso: “Non è latte!”
    “No”, rispose asciutto il Sacerdote, con un velo di rimprovero nella voce,
    Il sapore era dolce e aromatico:
    Il Sacerdote annuì e prese un fascio di fogli che aveva sul tavolino:
    “Ho fatto qualche ricerca”, disse poi battendo la nocca sui fogli. “Non sei il primo Pellegrino Cercatore che passa di qui. Anzi, devo dire che uno l’ho incontrato io stesso”, controllò i fogli, “undici anni or sono. Veniva da Beria, e non era il primo. Arrivate a intervalli irregolari, cinque, dieci, a volte anche più anni l’uno dall’altro.”
    “Io, e i miei predecessori prima di me, abbiamo raccolto le testimonianze dei Pellegrini, nella speranza che fossero utili a quelli che venivano dopo di loro. Vuoi raccontarmi la tua storia?” Jona era venuto per ricevere informazione, non per darne, ma qualcosa nell’atteggiamento del Sacerdote lo colpì. Annuì e cominciò a raccontare la sua storia. Il Sacerdote prendeva appunti. Quando Jona narrò dell’attacco dei banditi, su al passo, annuì come se fosse una cosa attesa.
    Alla fine il Sacerdote riordinò i suoi appunti, rimase pensoso un attimo e quindi: “Qui ci sono le storie di quelli che son passati da questo Tempio prima di te. Non credo che ti farei un buon servizio se te le lasciassi leggere, e la Dea è stata abbastanza chiara sul fatto che devi trovare le risposte da solo.”
    “Ma non posso trovare risposte se non ho idea di quali siano le domande!”, sbottò Jona.
    Il Sacerdote annuì senza scomporsi. “Vero. Trovare la domanda è spesso la cosa più difficile. Al confronto trovare le risposte è spesso un gioco da ragazzi.”
    Jona ci pensò su. Non lo aveva mai sentito dire in quella maniera, ma il concetto era familiare: di fronte ad un fatto misterioso la comprensione passava per una serie di domande e risposte da trovare. Ogni risposta conteneva in sé il germe della domanda successiva e il come la domanda fosse formulata condizionava sempre la successiva ricerca, e quindi la risposta.
    “Risponderai, se farò domande precise?”
    Il Sacerdote sorrise allargando le braccia: “Alla Dea piacendo, sì”.
    “Va bene, spero che tu non abbia altri impegni stamane. Ho paura che sarà una cosa lunga”, disse Jona appoggiandosi allo schienale della poltrona e guardando il sacerdote da sopra l’orlo del suo bicchierone di “latte di grano”; cosa non avrebbe dato per una bella tazza di caffè!
    “Quando l’Amuleto, ieri, mi ha annunciato la tua visita, ho fatto cancellare tutti gli appuntamenti di oggi”, disse annuendo, “se necessario posso cancellare anche quelli di domani, ma non credo servirà.”
    “I Pellegrini hanno incontrato difficoltà nei loro viaggi?”
    “Tutti. La Ricerca non pare una cosa facile né sicura.”
    “Queste difficoltà sono sempre le stesse?”
    “No. Ogni Pellegrino ha raccontato una storia diversa.”
    “Ma sicuramente ci sono delle similitudini.”
    “Vero. La Prova della Volontà, per esempio, è sempre la prima e tutti quelli che sono giunti qui l’avevano già superata.”
    “Quali sono le altre prove?”
    “No, Jona, questo non te lo posso dire, e lo sai!”
    “Tentar non nuoce, come si dice. Comunque, ci sono altre similitudini delle quali mi puoi parlare?”
    La giornata trascorse calma. Quando il sole si fece caldo si trasferirono nel piccolo giardino interno del Tempio, un’oasi verde e fresca nella calura estiva. Il Sacerdote, lentamente, perse il distacco e i due finirono per parlare di una quantità di argomenti, spesso lontani dagli specifici interessi del Pellegrino.

  • Mila

    Il viaggio verso Mila durò più di una settimana. Alla fine Jona sapeva della Valle e dei suoi abitanti più di quanto avrebbe mai immaginato si potesse sapere e anche Alberto aveva fatto scorta di tanti nuovi aneddoti da scambiare con gli altri guidatori.
    Jona più di una volta si era sentito sperso in quella vasta pianura dalla quale non si vedevano montagne nemmeno in lontananza.
    La foschia che sembrava eterna aveva inghiottito i monti prima che lui arrivasse a Torta e, da allora, la campagna continuava piatta fra praterie, piccoli boschi e campi coltivati.
    Il sesto giorno arrivarono a un enorme fiume, più grande di qualsiasi altro Jona avesse mai visto: l’Erido. Passarlo fu un affare lungo. Ci misero quasi tutta la giornata. Il fiume era lento e placido, ma ben più largo di un tiro di freccia e sembrava parecchio profondo.
    Il traghetto, una larga zattera assicurata a un cavo teso fra le due sponde, poteva portare un solo carro per volta, senza gli animali; poi doveva tornare indietro, a volte con un altro carico che viaggiava in senso opposto, per prenderli, poi doveva portare il carro successivo. Ben prima che l’operazione fosse completata l’interesse di Jona per le manovre, a lui nuove, si era ampiamente esaurito e lui era annoiato quasi quanto gli interminabili giorni precedenti.
    Finalmente, in un caldo pomeriggio d’estate vide apparire da lontano le alte mura di Mila.
    Avvicinandosi si rese conto che si trattava di mura costruite per resistere a un lungo assedio, anche se non sembrava fossero state usate di recente.
    Il sole era ancora alto quando si misero in fila per passare la porta. Una volta dentro Jona salutò i suoi compagni di viaggio e si addentrò nella città. Dalla grande piazza dietro la porta s’irradiava un ventaglio di vicoli sui quali si aprivano le botteghe d’innumerevoli artigiani. Sembrava che ogni vicolo fosse dedicato ad un’arte, così Jona, seguendo le indicazioni dell’Amuleto, si trovò a passare davanti a una teoria di botteghe di fabbro, poi, girato l’angolo, fu la volta dei vasai e quindi quella dei ciabattini. Jona rallentò un attimo indeciso se investire una parte delle sue monete in un paio di scarpe più leggere dei suoi scarponi da montagna. Vista la sua esitazione, i cinque ciabattini più vicini si lanciarono su di lui decantando i pregi delle proprie creazioni. Jona riuscì a sgusciare via mentre quelli venivano quasi alle mani per litigarsi il presunto cliente.
    Poco dopo si trovava davanti al tempio di Palla. La bussola puntava direttamente verso l’ingresso, purtroppo chiuso.
    Jona valutò l’ora. Il sole illuminava ormai soltanto i tetti, i vicoli stavano diventando rapidamente bui e gli artigiani cominciavano ad accendere le lanterne. A malincuore Jona tirò fuori l’ultimo dei rotoli che la Zia gli aveva dato e chiese all’Amuleto: “Sai come arrivarci?”
    “Certo!”, rispose quello, “prendi la via a sinistra, quella dei vetrai.” Jona si diresse da quella parte.

    Camminava da qualche minuto quando l’Amuleto sibilò: “Attento al ragazzino!”
    Jona non ebbe bisogno di chiedere di quale ragazzino parlasse. Un monello di non più di sei anni girò l’angolo correndo e venne a schiantarsi contro di lui. Jona lo aiutò a rialzarsi e quello farfugliò una mezza scusa e fece per andarsene. Jona lo afferrò saldamente per un orecchio. Vistosi scoperto tentò un colpo basso, ma Jona se lo aspettava e rispose con un sonoro ceffone che spedì il furfantello per terra. Prima che potesse rialzarsi aveva già recuperato la sua borsa dei denari caduta dalla manica del ragazzino.
    “Grazie”, disse semplicemente, in parte seriamente all’Amuleto e in parte, come sfottò, al ladruncolo. Poi riprese la sua strada.

    Jona si sentì punto sul vivo, ma sapeva che l’Amuleto aveva ragione e rimase zitto.

  • Verso Mila

    Jona rimase alla locanda per tre giorni, aspettando che i mercanti di vino preparassero il carico da portare fino a Mila. Caute domande lo avevano convinto che quella era la direzione che la Bussola indicava.

    Al momento della partenza la Zia lo sorprese salutandolo con un caloroso abbraccio: “Abbi cura di te, Jona”, gli disse, poi gli allungò tre fogli arrotolati e fermati con una grossa goccia di cera; “sulla strada troverai parecchie locande, ma queste sono le migliori. Ti faranno un buon prezzo e ti aiuteranno”, poi si girò e rientrò nella sua locanda.
    Jona salì sul secondo carro, trainato da una coppia di buoi assieme al guidatore: un uomo che doveva avere pressappoco la sua età e che aveva l’aria di conoscere bene il suo mestiere. Il mercante aveva storto il naso all’idea di avere un passeggero, sia pure pagante, ed era stato proprio Alberto, così si chiamava il conducente, a convincerlo. Aveva parlato un po’ con Jona alla locanda e sapeva che chiacchierava volentieri. Il viaggio era lungo, lento e noioso; un po’ di compagnia sarebbe stata ben gradita. Alla fine il mercante, di malavoglia, aveva acconsentito.

    Durante il viaggio Jona ne chiese la ragione ad Alberto: “Perché non mi voleva?”, disse indicando il mercante con un cenno del capo.
    Alberto lo squadrò, indeciso se dare una risposta sincera, poi disse quasi brutalmente: “Ha paura tu sia una spia dei briganti”.
    Jona rimase un attimo in silenzio, poi:
    “No, non servirebbe a niente, per due buoni motivi: primo, se anche lo fossi, non me lo verresti certo a dire; secondo, lo so già”, fece un cenno verso il mercante, “Quello lì ha paura perché non ha mai visto un vero brigante in azione in vita sua. Se ne fa un gran parlare, ma la strada da qui a Mila è oramai sicura; sono anni che non succede niente. Comunque tu non hai la faccia del brigante”, lo squadrò di nuovo, “di sicuro ti porti appresso parecchi segreti, ma giurerei che sei fondamentalmente onesto.”
    Jona si affrettò a cambiare discorso:
    “Dove?”
    “Al passo. Ero sulla cresta a cercar verbena e ho visto tutto. Una piccola carovana che portava olio è stata aggredita in un baleno. Non ho potuto far nulla.” Jona rabbrividì al ricordo dell’episodio e di quello che ne era seguito.
    “Già. La Zia mi ha detto che il carico d’olio è arrivato con gente diversa e che i “mercanti” hanno voluto essere pagati in denaro, invece di barattare con stoffe e grano come al solito.”

    “E che doveva fare, secondo te? Mandare Arianna a Torta a chiamar gli sbirri? Il prodotto era buono, il prezzo pure: certo che ha comprato!”
    “Non se ne occupano i Maghi?”, chiese Jona cauto.
    “I Maghi? E che c’entrano?”, rispose Alberto sinceramente stupito.
    “Da noi in Ligu è compito dei Maghi trovare gli autori di ruberie, qui non lo fanno?” Chiese, ricordando perfettamente come spesso la gente si rivolgesse a lui non appena mancava uno spillo e come, nella maggior parte dei casi, lo “spillo” in questione risultasse poi spesso solo smarrito dal proprietario. In questi casi Jona applicava tariffe salatissime per il tempo perso. Niente da fare: la gente continuava a venire. Una volta una donna era venuta piangendo per un anello “rubato”, che poi era stato trovato nella tasca del suo grembiule! Alberto lo strappò dal flusso dei ricordi: “E quanti Maghi avete in Ligu? Ce ne vorrebbe un esercito per controllare tutti i furti.”
    “Perché, al villaggio non c’è un Mago?”
    “Noddavvero! Non ce n’è uno nemmeno a Torta. Il più vicino credo che sia proprio a Mila.”
    Jona ci rimuginò su un po’. Certo che se, lì nella Valle, i Maghi erano così rari le cose cambiavano. Pensò al suo Amuleto, che ora portava al collo, appena sotto la camicia, per evitare che la gente si accorgesse che non era veramente lui a parlare.
    “Così pochi?”, si sorprese Jona, “e che cosa fanno, qui?”
    “Mah, chi lo sa? Se ne stanno a Corte. Penso che diano consigli ai Signori, ma non lo vengono certo a raccontare a me.”
    “Senti, Alberto, mi rendo conto di sapere ben poco della Valle, perché non mi racconti qualcosa?” Alberto cominciò a narrare. Aveva viaggiato parecchio con il suo carro e il passo lento e regolare dei buoi gli dava tutto il tempo per guardarsi attorno e pensare. Anche troppo.
    Alberto parlò per quasi tutto il giorno, mentre la valle che stavano discendendo si allargava e i monti che la chiudevano si facevano sempre più bassi. Jona venne, a un certo punto, preso quasi da un senso di vertigine alla vista di quella distesa piatta più del mare. Davanti a lui si ergevano le basse mura di Torta, la loro destinazione per la serata.
    Jona sapeva esattamente cosa aspettarsi, visto che Alberto ne aveva parlato parecchio. Arrivarono alla porta al tramonto e si misero in fila con gli altri per il controllo. Le guardie fecero poche domande al mercante, ben conosciuto, e fecero passare il convoglio senza altre formalità che il pagamento di una gabella.
    Dietro le porte c’era una grande piazza e proprio lì, da un lato, si vedeva l’insegna della taverna dove erano diretti, la stessa consigliata dalla Zia.
    La sera, chiuso nel suo stanzino, Jona chiamò la figlia. Fece un rapido resoconto della giornata e terminò dicendo:
    “Ma perché pagare la gabella solo per passare? Non conveniva fermarsi fuori dalle mura?”, chiese Serna.

  • Arianna

    Jona seguì Arianna su per le scale fino a una serie di stanze che avevano l’aria di essere tutte vuote. Lei lo guidò nella più piccola, con un solo grande letto e una cassapanca sotto la finestra. Tolse dalla cassapanca un grosso asciugamano grezzo e glielo porse assieme a un pezzo di sapone profumato dicendo: “La stanza da bagno è proprio qui accanto. Io intanto preparo il letto.”
    Il Mago non se lo fece ripetere. Aveva già notato che il tetto della locanda era spiovente verso sud e ricoperto da grandi piastrelle nere che somigliavano parecchio a quelle che erano sul tetto di casa sua; si trattava di tegole solari attraverso le quali passavano dei tubi che portavano l’acqua. Il risultato era un accumulo d’acqua calda. Il progetto era stato uno dei doni di Festo più apprezzati. Dopo una settimana di notti all’addiaccio una doccia calda era un lusso che Jona pregustava da quando era arrivato.

    Ripulito e con i vestiti di bucato Jona si sentiva bene. Era pronto per una bella cena. Non era pronto, invece, per quello che lo aspettava nel suo letto: Arianna.
    “Benedetta ragazza, ma che pensi di fare?”
    “Quello che ha detto la Zia, naturalmente”, rispose lei scoprendosi quanto bastava per essere provocante sotto il velo leggero del lenzuolo.
    “Non se ne parla nemmeno! Rivestiti immediatamente!”
    Lei ci rimase male: “Che cos’ho che non va? Il naso troppo grosso?”, disse scoprendosi completamente, “o forse è il seno che è troppo piccolo?”
    Jona si passò una mano sul viso, poi si avvicinò, raccolse il lenzuolo che lei aveva scagliato per terra e glielo avvolse intorno al corpo. Sentì che tremava leggermente.
    “Solo?”
    “Solo che assomigli troppo a mia figlia, benedetta ragazza!” Non le disse che la sua figlia più giovane aveva, a occhio e croce, quattro anni più di lei. Sentì comunque che Arianna si rilassava.

    “Ho finito il primo corso al tempio di Dionne con il massimo dei voti l’anno scorso”, disse con evidente orgoglio, “ora sto facendo pratica qui con la Zia. Se sarà soddisfatta — e lo sarà! — mi darà l’attestato pratico. Con quello posso entrare al corso per Etera!”, concluse con occhi sognanti.
    “Oh!”, disse Jona debitamente impressionato, “E che cosa è, esattamente, un’Etera?” Arianna gli lanciò un’occhiataccia. “Ricorda che io non vengo dalla Valle, ma di là dai monti”, si affrettò ad aggiungere il mago, “da noi non ci sono Etere, almeno non con quel nome.”
    Arianna fece un piccolo sospiro e cominciò, recitando a memoria con l’aria di chi sta spiegando cose ovvie che tutti dovrebbero sapere fin dalla culla: “Un’Etera è un’esperta delle dodici arti di Dionne: Canto, Danza, Conversazione, Flauto, Arpa, Preparazione dei Cibi, Preparazione delle bevande, Profumi, Massaggio, Afrodisiaci, Seduzione e Sesso”
    “E tu sai fare tutte queste cose?”
    “No, naturalmente!”, sbuffò Arianna, sempre più convinta di avere a che fare con una specie di ritardato mentale, “Ti ho detto di aver fatto solo il primo corso! Lì si fanno solo Canto, Danza, Massaggio e Sesso. Io però ho già cominciato Arpa e la Zia mi sta insegnando le Preparazioni di base”.
    “Bene”, disse Jona sorridendo, “io ti posso dare una mano con il corso di Conversazione.”
    Arianna lo guardò di traverso, cercando di capire se la stava prendendo in giro e non ci riuscì per un ottimo motivo: Jona, come al suo solito, stava mescolando significati e quindi la prendeva garbatamente in giro, pur essendo serissimo.
    “Vedi, l’arte della conversazione, a differenza di quel che si pensa, è l’arte di lasciar parlare gli altri, facendo, però sentire la nostra presenza. Proviamo.”
    “C’erano molti giovani con te al corso?”

    “Oh, la maggior parte erano fidanzatini che volevano fare le cose per bene”
    “E ci sono riusciti?”
    “Sì, quasi tutti”, ridacchiò,
    Continuarono a parlare a lungo, fino a che non si cominciò a sentire un rimbombo ritmato venire dal basso. Il rimbombo prese forma e divenne un nome urlato ritmicamente:

    Pochi minuti dopo Jona scese a sua volta nella sala, ora gremita, e la trovò che danzava a piedi nudi su un piccolo tavolino al centro dello stanzone, mentre Paolo suonava un flauto di Pan. Rimase a guardarla a lungo. Aveva veramente del talento. Chissà se era altrettanto brava a letto, pensò oziosamente.
    La Zia, nel frattempo navigava fra i tavoli con un enorme vassoio carico di ogni ben di Dio. Quando passò accanto a Jona, mentre gli piazzava sul tavolo, con una precisione che denunciava anni di esercizio, un largo piatto di legno con la polenta ricoperta di formaggio e funghi, un bicchiere e una caraffa di vino rosso, gli chiese: “Tutto bene?”

  • La locandiera

    “ZIIIAAA!”, l’urlo inaspettato fece sobbalzare il Mago, che afferrò il suo zaino e scese dal carro, mentre una voce certamente femminile, ma potente quanto quella del nipote rispondeva: “Sbrigati a dar da mangiare alle bestie, cambiati e vieni a darmi una mano. Tra poco è ora di cena! Dove sei stato maledetto perdigiorno?”

    Jona si concesse un mezzo sorriso divertito e poi infilò la porta con passo deciso.
    La stanza era ampia e abbastanza strana. Quasi metà, vicino alla porta, aveva il soffitto molto alto ed era ingombra di tavoli allineati, l’altra metà, invece era bassa e adibita a cucina, con un camino che occupava quasi tutta la parete di fondo e che conteneva al suo interno anche i vari piani di cottura. Le due metà erano separate da un bancone che sembrava molto usato.
    Una donna robusta stava mescolando vigorosamente il contenuto di un grosso pentolone fumante.
    “Vai a controllare l’arrosto. Ho solo due mani io, sai?”
    “Certo”, disse Jona, senza muoversi dal bancone.
    La donna si girò a quella voce che non si aspettava. Il suo viso, già arrossato dal calore e dall’esercizio fisico, divenne quasi paonazzo.
    “Cerco un posto per la notte, e qualcosa da mangiare”, disse Jona sorridendo e annusando platealmente gli odori che arrivavano fino a lui, “ma non vorrei distrarla in un momento delicato”.
    La donna si girò di scatto e riprese a rimescolare con vigore il suo pentolone. “Paolo! Sbrigati!”, tuonò rivolta verso l’altra porta sul fondo che, in un primo momento, Jona non aveva notato. “Mi scusi ancora un momento, che la polenta è quasi pronta e non vorrei si attaccasse ora. Sono tutti impegnati per la raccolta e mi devo arrangiare da sola”, disse senza nemmeno voltarsi. Lavorava con una precisione ammirevole. Rimescolava con regolarità cinque diverse pentole, passando dall’una all’altra con la precisione di una danza praticata infinite volte. Jona rimase in silenzio a guardarla. Pochi minuti dopo la pentolona più grossa, un affare panciuto che doveva contenere almeno dieci litri di roba, quella che la “zia” stava rimescolando con più regolarità, fu spinta faticosamente da un lato, lontano dal contatto diretto del fuoco.
    In quel momento entrò anche Paolo seguito a ruota da una ragazza alta quasi quanto lui e con una certa aria di famiglia.
    “Ho detto ad Arianna di venire subito, ho pensato che ne avessi bisogno”, disse Paolo entrando.
    “Hai fatto bene”, disse la zia un po’ raddolcita. “Datemi una mano, prima che si raffreddi troppo”
    Paolo agganciò il pentolone a un apposito arganello mentre le due donne prendevano un largo piano rotondo di legno lucido e lo mettevano sotto, poi, armati di stracci per non ustionarsi le mani, rovesciarono il contenuto del pentolone. Ne uscì una massa dorata che andò a formare un’enorme pagnotta fumante sulla tavola poi messa in disparte a raffreddare. Paolo andò a controllare l’arrosto, mentre la ragazza iniziava un diverso tipo di danza con le pentole rimaste.
    La zia si girò finalmente verso Jona, si ripulì le mani, afferrò due bicchieri e una caraffa di terracotta e depositò tutto sul bancone, fra sé e il mago.
    “Non sei di queste parti”, disse versando due porzioni generose di vino rosso.
    “No”, disse Jona squadrando la donna. La sua valutazione era completa. Poteva rischiare: “Vengo da Ligu, oltre i monti e ho bisogno di riposarmi e di mangiare, ma non ho denaro della Valle. Forse potrebbero interessarti alcune cose che avrei da vendere”, mentre parlava tirò fuori dalla tasca una delle palline d’oro e una grossa perla di quelle che i marinai portavano dai mari del sud.
    Vide l’interesse della donna, seguito immediatamente dall’ala nera del sospetto.
    “E roba mia. Guadagnata onestamente. Posso giurarlo al tempio, se vuoi”, disse Jona con calma indicando con il pollice alle sue spalle, dove sapeva esserci il tempio di Dionne. Giurare al tempio era una cosa seria. Nessuno lo faceva a cuor leggero, anche se era convinto di affermare il vero. Gli Dei prendevano molto seriamente il ruolo di testimoni, quando erano chiamati a farlo.
    La donna sostenne il suo sguardo: “No, non è necessario. Ipno sa che qui passano anche troppi tagliagole, purtroppo, e non mi sembri uno di loro. Chi sei?”
    Jona raccontò la storia dello speziale in cerca di erbe rare e medicamenti esotici. La donna lo ascoltò senza discutere. Sicuramente aveva sentito storie ben più strane, da dietro quel bancone. Se aveva dei dubbi non lo diede a vedere.
    “Sono disposta a darti vitto alloggio completo e provviste per il tuo viaggio per la perla”, disse poi.
    L’amuleto mandò un singolo lampo rosso, invisibile per la donna.
    Jona raccolse il suo zaino dicendo: “Vengo da lontano, ma non sono né stupido né disperato fino a questo punto. Scusa se ti ho fatto perdere tempo.”
    La donna si gonfiò e stava per dire qualcosa, poi scoppiò a ridere: “No, scusa tu. Evidentemente sto passando troppo tempo con dei brutti ceffi. Siediti. Sono certa che troveremo un buon accordo”.
    L’Amuleto lampeggiò di luce verde e Jona riappoggiò lo zaino al bancone.
    La trattativa fu lunga e laboriosa, ma l’Amuleto che sapeva sempre quando la donna mentiva, dava a Jona un vantaggio sleale del quale lui cercò di non approfittare troppo, ma, d’altra parte, non aveva senso dilapidare le sue poche sostanze senza sapere fino a quando avrebbe dovuto farsele durare. Con ogni probabilità il viaggio era solo agli inizi. Alla fine Jona lasciò alla locandiera sia la perla sia la sferetta d’oro e ottenne in cambio, oltre a vitto e alloggio per due giorni anche una discreta quantità di denaro locale: piccole monete di un metallo bruno, coniate con una certa precisione.
    “Sei sicuro di non essere un mercante? Contratti troppo bene per essere solo un’erborista!”
    “Viaggio parecchio e non solo per montagne”, rispose Jona, sentendosi un po’ in colpa, “Piuttosto, come ti devo chiamare? Non posso mica chiamarti “zia” anch’io”.
    “Perché no? Lo fanno tutti!” rispose lei con un sorriso.
    In quel momento entrò il primo avventore della serata e, quasi a sottolineare le sue parole, gridò allegramente: “Zia, una caraffa di quello buono, tanto per scaldarsi un po’!”.
    “Vengo, Lollo!”, disse lei, poi, rivolta a Jona: “Parleremo più tardi o, meglio, domattina”.

  • Scambio di idee

    Verso sera arrivò a un paesone arroccato proprio dove la valle si apriva. Un punto di raccordo tra i campi in collina, prevalentemente coltivati a vigneto, e le colture di granaglie, che si vedevano verso nord. Jona assorbiva le immagini automaticamente, mentre camminava. Sembrava una campagna ricca. Sicuramente avrebbe trovato una locanda e, forse, un mezzo di trasporto migliore delle sue gambe.
    Un ragazzo stava usando un forcone di legno per caricare il fieno oramai secco su un carro al quale erano aggiogati due buoi che, in quel momento, stavano tranquillamente ruminando aspettando che lui terminasse il suo lavoro.
    “Salve! Dove posso trovare una locanda?”, gli chiese Jona.
    Il ragazzo alzò la testa con aria un po’ sorpresa: “Cadicicanuccappiscio?”.
    “Cacecco natrabeja!”, Jona fece uno sforzo eroico per rimanere impassibile; chi aveva parlato, infatti, era l’Amuleto, anche se la voce sembrava venire dalla bocca del Mago.
    Il ragazzo sorrise e rispose qualcosa che Jona non sentì, visto che l’Amuleto disse nelle sue orecchie e certamente solo per le sue orecchie:
    “C’è la locanda di mia zia!”, disse il ragazzo con un sorriso sentendo un idioma familiare.
    Jona, naturalmente, non seppe mai che cosa il ragazzo avesse detto veramente, visto che l’Amuleto gli riempiva le orecchie.
    “Ti aspetto volentieri”, rispose Jona, poi, sbirciando il sole che stava calando dietro la collina, aggiunse: “se non ci metti troppo.”
    Il ragazzo capì al volo. “Appoggia pure lo zaino sul carro. Devi aver fatto parecchia strada. Ho finito.” Effettivamente il fieno ancora sul campo era ben poco. Il forcone seguì gli ultimi fili di erbe profumate sul carro e i buoi furono costretti a rialzarsi.
    “Da dove vieni? Non ti ho mai visto da queste parti. Io mi chiamo Paolo”, attaccò il ragazzo mentre salivano anche loro sul carro e i buoi si mettevano laboriosamente in moto. Jona raccontò la storia dello speziale in cerca di erbe rare e chiese se ci fosse un erborista in paese. Tirò un sospiro di sollievo alla risposta negativa. Con qualche domanda mirata riuscì anche a sapere che la zia di Paolo, oltre mandare avanti la locanda, faceva anche commercio di qualunque cosa i suoi clienti volessero venderle; doveva cercare di procurarsi moneta locale.

  • Discesa

    Quando si accampò — aveva sperato di riuscire a raggiungere il paese, come gli aveva consigliato il vecchio pastore, ma il tramonto era arrivato troppo in fretta — chiese all’Amuleto di prender contatto con Serna.

    “Avvertila che sono vivo e in attesa. Che mi chiami lei.”
    Dopo qualche secondo l’Amuleto annunciò: “Fatto.”

    Jona riprese i suoi preparativi per la notte, controllò la scorta di legna, ripiegò il suo mantello
    “Certo”, disse voltandosi verso di lei, che era apparsa vicino all’Amuleto, “Ho avuto dei problemi con l’Amuleto, ma credo che, per ora, sia di nuovo tutto a posto, vero?” La domanda era rivolta all’Amuleto, che scelse di ignorarla.
    “Problemi con l’Amuleto?”, chiese Serna. In quel momento comparve anche Darda, sbuffante.
    “Benedetta ragazza, credi che abbia ancora le gambe dei vent’anni? Che dice Jona?”

    “Questo l’ho visto”, poi, rivolgendosi a Jona: “vedo anche che sei tutto intero. Qualcuno si stava preoccupando, da queste parti”, disse, con un velo di rimprovero nella voce.

    “Passati fra le braccia di Thano? Nossignore! Non c’è nulla da preoccuparsi!”, ritorse Darda. Jona la ignorò: sapeva perfettamente che era il suo modo di dimostrare il suo affetto. Si rivolse deliberatamente a Serna:
    “Che cosa ti ho sempre detto delle preoccupazioni?”
    “Che preoccuparsi non serve a niente; bisogna occuparsi delle cose”, rispose Serna con aria spazientita, “e ho anche provato a farlo, ma l’Amuleto mi diceva che non riusciva più a mettersi in contatto con il tuo, nemmeno per averne la posizione. Ho anche chiesto l’Occhio dal Cielo — tra l’altro; questo nuovo incantesimo che mi hai spiegato è una meraviglia — ma non sono riuscita a trovarti.”
    “Thano, a quanto pare, ci ha voluto mettere alla prova entrambi. Ha spento completamente il mio, o, meglio, il Suo Amuleto per vedere come ci saremmo comportati. L’Amuleto ha ricominciato a rispondermi quando ho deciso di andare avanti con la Caccia nonostante il mio alleato principale fosse, apparentemente, morto. Non riesco però a capire che cosa volesse da te.”
    “Sì, ma che cosa è successo, di preciso?”, chiese Darda.

    Jona raccontò con precisione professionale gli avvenimenti degli ultimi tre giorni e terminò dicendo: “Ora devo dirigermi ancora verso nord, penso di andare a Mila al tempio di Palla per chiedere consiglio. L’Amuleto m’indica la direzione, ma non entra in dettagli e quindi farò a modo mio.”
    Continuarono a parlare ancora per parecchio tempo, soprattutto di quello che stava facendo Serna come Maga. Era evidente che lei teneva parecchio al parere di Jona e che lo considerava ancora il vero e unico Mago di Tigu.
    Darda taceva e spesso Jona le lanciava occhiate per capire se doveva intervenire. Lei non disse una parola, ma, avendo avuto cura di posizionarsi dove Serna non la potesse vedere, segnalava inequivocabilmente che tutto andava bene e che Jona doveva solo stare a sentire e approvare. Il Mago si attenne di buon grado alle indicazioni. Conosceva abbastanza la figlia da darle tutta la fiducia di cui aveva bisogno.

    Dopo parecchio il resoconto si avviò verso la conclusione e Jona azzardò la domanda che voleva fare fin dall’inizio: “Che mi dici della mamma?”
    Vide un luccichio negli occhi di Serna che cominciò a dire:
    Jona guardò preoccupato l’Amuleto aspettandosi una qualche reazione, ma quello continuava placido a emanare la sua luminosità rossa.
    “Che significa?”
    “Che significa, cosa?”
    “Non fare il finto tonto. Perché hai interrotto la comunicazione?”

    Jona era esterrefatto, ma sapeva benissimo che non c’era molto che potesse fare. Per qualche motivo Thano non voleva che avesse notizie di sua moglie. Il perché era un mistero per ora; non aveva dubbi che sarebbe venuto fuori, presto o tardi. Bastava aspettare

    “Amuleto, posso fidarmi di te?”
    “Mago, che domanda è? Sai benissimo che è talmente vaga che non ammette una risposta semplice.”
    “Bene. Posso fidarmi di quello che dirai. Alla lettera.” Jona sorrise, poi:
    “Farai la guardia e mi proteggerai mentre dormo, stanotte?”
    “Sì.”
    “E le prossime notti?”

  • Verso la Valle

    Rimase con i pastori tutto il giorno seguente cercando si smaltire la stanchezza e di avere informazioni sulla Valle che si trovava a nord, sul suo cammino.

    Il vecchio parlava volentieri mentre lavorava per preparare i caci con il latte delle pecore. Jona cominciava a farsi un’idea della strada da percorrere.

    Quando si rimise in viaggio, la carrareccia era comoda e lui riposato, aveva una meta e il sole metteva allegria.

    Dietro una curva si trovò improvvisamente di fronte Thano: “Bravo Mago! Hai superato la prima prova!
    Jona annuì: Thano aveva sistemato bene la sua prima trappola, lassù in montagna.
    Il Dio rise. “No, non è quella la prova che dovevi superare. Quella era facile. Non mi aspettavo certo che ti facessi fermare da un po’ di nebbia!
    Jona stava per replicare, ma di Thano restava solo la sua risata.
    Davanti a lui si snodava la strada di mattoni gialli. Jona capì in un lampo. Era stata la sua determinazione a essere messa alla prova. Se fosse tornato indietro, com’era stato tentato di fare, avrebbe perso. Con ogni probabilità non sarebbe uscito vivo dai monti Penn.

  • I pastori

    Jona accelerò il passo e si portò al riparo degli alberi. Era stanco e aveva bisogno di riposare, ma non poteva certo presentarsi nel covo dei briganti
    Tornò sulla carrareccia che aveva seguito nella discesa e vide le tracce dei carri passati la sera prima. Le seguì per un tratto e dopo aver controllato che proseguissero verso valle, tornò indietro tagliando per i boschi e rimase a osservare il gruppo di casupole: erano di pietra a secco e senza finestre, i tetti di lastroni piatti. Malghe estive. Pastori, pecorai a giudicare dai bassi steccati circolari che servivano a tenere le bestie ammassate contro il freddo della notte. Jona ebbe un brivido al pensiero. Si sentiva un po’ più sicuro, ma non aveva intenzione di rischiare. Rimase ancora a guardare.

    Poco dopo, da uno degli alpeggi uscì un vecchio che diede tre colpi decisi a un grosso campanaccio appeso vicino alla porta. Immediatamente si sentirono da lontano fischi e latrati di cani. Jona si rilassò. Pastori. Quando vide arrivare il primo, un bambino che agitava il suo bastone per dirigere le pecore, mentre i cani zigzagavano intorno al gregge cominciò a sentirsi sicuro.
    Le ultime bestie stavano entrando nel loro recinto quando apparvero altri pastori; questi erano adulti, avevano lunghi bastoni e un coltello alla cintura, ma non si vedevano né spade né altre armi. Jona uscì dal bosco e s’incamminò verso di loro.
    “Salve!” Gridò da lontano.

    Osservò con interesse la reazione; per prima cosa si misero in allarme, stringendosi assieme e impugnando i bastoni; poi probabilmente, vedendo che era solo, si rilassarono un po’ e fischiarono per richiamare i cani che già si erano portati a semicerchio davanti a loro e stavano avanzando rugliando sommessamente; quando infine notarono il suo abbigliamento, diverso nella foggia e nei colori dal loro, Jona vide i segni della curiosità.
    Avanzò con passo deciso, tenendo le braccia bene in vista e lontane dal corpo.

    “Salve!” ripeté quando fu vicino, “mi sono perso. Nella nebbia ho perso il sentiero e devo essere sceso dalla parte sbagliata”.
    “Salattè. Dundoveni?” gli rispose il vecchio che aveva visto per primo.
    “Vengo da Ligu. Sono finito nella Valle, vero?”
    “Nosemammonte, avalle ecchiggiù”.
    Parlava con un accento pesante, ma ancora comprensibile.
    “Posso fermarmi per la notte?”
    “Hai coperte? Stanotte farà freddo.”
    “Più freddo che in mezzo alla foresta?”